Il blog di Augusto Cavadi, filosofo-in-pratica di Palermo, con i suoi appuntamenti pubblici in Italia e i suoi articoli.
mercoledì 31 agosto 2022
FACCIAMO IL PUNTO SU MAFIA E ANTIMAFIA. NINO CANGEMI RECENSISCE IL LIBRO DI AUGUSTO CAVADI
sabato 27 agosto 2022
VACANZE FILOSOFICHE A CAMIGLIATELLO: PRIMO REPORT SINTETICO
Come ogni anno, anche in questo agosto alcune decine di persone si sono date appuntamento in montagna (è stata la volta di Camigliatello, sulla Sila) per regalarsi una settimana di “filosofia per non...filosofi” (di professione). La domanda di fondo è stata suggerita dalle drammatiche vicende di questi mesi: l'umanità è un branco di mostri o una famiglia solidale?
Che per lo più, statisticamente, regni la violenza esplicita o silenziosamente inesorabile (fra gli Stati, tra le fasce socio-economiche, all'interno dei nuclei familiari, nei confronti dei viventi senzienti ridotti a meri oggetti da consumare) è un dato di fatto oggettivo. E, se si vuole essere realistici, bisogna prenderne atto. Nei primi tre incontri Elio Rindone non ha avuto difficoltà a evocare alcune delle tantissime pagine (dai Greci a Nietzsche e Schmitt) che, per dirla con Hobbes, descrivono la vita umana come “solitaria, misera, ripugnante, brutale e breve”.
Ma, per essere realistici sino in fondo, bisogna non fermarsi alla situazione fenomenica, scavare al di là delle apparenze, saper vedere ciò che l'essere umano – in perenne evoluzione – è in potenza.
Che cosa potremmo diventare? Guardiamo alcune figure storiche – effettivamente esistite – in cui l'umanità è come fiorita, mostrando profeticamente ciò che in tutti gli altri soggetti giace nascosto: Lao Tze e Buddha, Socrate e Confucio, Gesù e Maometto, Leonardo da Vinci e Giordano Bruno, Gandhi e Martin Luther King, Etty Hillesum e Simone Weil, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini...Personalità, come scriveva H. Bergson, che “nulla domandano, e tuttavia ottengono. Non hanno bisogno di esortare; non hanno che da esistere: la loro esistenza è un richiamo”. Al contatto – diretto o mediato dalle testimonianze storiche – con questo genere di figure, anche la nostra esistenza si dilaterà, sperimentando spontaneamente un “amore” esteso “agli animali, alle piante, a tutta la natura” (non è un caso che molte di queste persone sono state vegetariane).
Affinché ciò avvenga è indispensabile che, sin dai primissimi anni di vita, la nostra struttura neuro-cerebrale venga sollecitata cognitivamente e affettivamente: senza relazioni il sé non si costituisce. Come ha illustrato in questi giorni, con termini semplici ma suggestivi, Mario Mulé, la genetica è inscindibile dall'epigenetica: lo stadio evolutivo attuale è effetto e causa di un potenziale di condivisione e di collaborazione fra i soggetti della nostra specie. Come conferma la teoria 'polivagale', abbiamo necessità di attivare tanto sistemi di allarme e di difesa quanto di fiducia e di cooperazione.
Per completare la lettura del report, basta un click:
https://www.zerozeronews.it/umanita-o-disumanita-il-mondo-senza-piu-ragione/
giovedì 25 agosto 2022
PROPOSTA AI CANDIDATI DELLE IMMINENTI ELEZIONI NAZIONALI DI UN PROTOCOLLO SUL RIPUDIO DELLA GUERRA
"COSTITUENTE TERRA": PER UN PROTOCOLLO SUL RIPUDIO SOVRANO DELLA GUERRA E LA DIFESA DELL'INTEGRITA' DELLA TERRA. UN APPELLO AI CANDIDATI DEL 25 SETTEMBRE
Candidati: Enrico Calamai (Unione Popolare), Maurizio Acerbo (Rifondazione Comunista), Gregorio Piccin (Rifondazione Comunista), Simona Suriano (Unione Popolare), Antonella Marras (Unione Popolare), Laura Tonelli (Unione Popolare).
lunedì 22 agosto 2022
ATEISMO O RELIGIONE ? TERTIUM DATUR. DON SCORDATO COMMENTA (CRITICAMENTE) IL LIBRO DI CAVADI
Sono molto grato a don Cosimo Scordato per questa recensione, empaticamente critica, sulla prestigiosa rivista della Facoltà teologica di Sicilia “O THEOLOGOS” - anno XXIX, 2021, 3
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RECENSIONI
A. Cavadi, O religione o ateismo? La spiritualità «laica» come fondamento comune Algra Editore, Catania 2021, pp. 133.
L'ultimo volumetto di A. Cavadi, O religione o ateismo? La spiritualità «laica» come fondamento comune, in qualche modo ricapitola il suo percorso precedente, proposto in numerosi suoi testi, specialmente nel saggio Mosaici di saggezze: Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene, Bologna 2915) e ora formalizzato in modo divulgativo, non senza un dialogo ravvicinato con pensatori contemporanei. Seguendo la sintesi proposta da Vergani, A. Cavadi “di fronte all’aut aut fra ateismi assoluti e religioni rivelate confessionali ... propone la terza via di una spiritualità laica” (cit. on line).
La prima interlocuzione è con Ronald Dworkin (1931-2013) Religione senza Dio, del quale Cavadi condivide inizialmente la definizione di religione (“una visione del mondo profonda, speciale ed esaustiva, secondo la quale un valore intrinseco e oggettivo permea tutte le cose”, cit. ib., p. 19); ma nella quale rileva l’assenza di due aspetti costitutivi: la pratica e la socialità; analizzandone l’uso proposto, Cavadi propende a utilizzare il termine religiosità invece di religione, secondo l’indicazione offerta già da Albert Einstein: “Sapere che ciò che ci è inaccessibile esiste realmente, manifestandosi come la più grande saggezza e la più grande bellezza che le nostre deboli facoltà possono comprendere in forma assolutamente primitiva: questa conoscenza, questa sensazione, è al centro della vera religiosità” (cit. p. 38). A questo punto, ritenendo importante una explicatio terminorum, A. Cavadi condivide nell’insieme la chiarificazione terminologica proposta da L. Berzano, Spiritualità senza Dio? (Mimesis, Sesto S. Giovanni 2014). Il termine spiritualità può essere inteso come “sistema di senso che rende plausibile per un individuo la propria biografia. In ciò, essa è cosa che va oltre l’osservanza dei riti, poiché riguarda l’essere più che la morale” (cit. ib., p. 27); di essa Cavadi propone ulteriori specificazioni (cf. ib., p. 33). Il termine religiosità indica “una dimensione antropologica che può essere vissuta solo da chi ammette una qualche forma di divino, di ‘sacro’, o, per lo meno, che non cessa di confrontarsi con l’ipotesi di una qualche forma di divino” ( cit. ib., p. 28). Il termine religione comprende tre specifiche caratteristiche: “appartenenza, credenza, pratica” (cit. ib., p. 29). Quindi la spiritualità è dimensione comune a tutti; la religiosità caratterizza credenti, ma anche panteisti e agnostici; la religione indica invece una peculiare forma spirituale di religiosità codificata istituzionalmente, attraverso testi, dottrine, culti e precetti. Va da sé che l’ordine, che vede la religione poggiare sulla religiosità e questa sulla spiritualità, andrebbe rispettato, così da non trovarci con una religione sprovvista di religiosità o di spiritualità; tante volte, però, detta mancanza è riscontrabile nelle religioni rivelate istituzionalizzate.
L’altra interlocuzione è col naturalismo della spiritualità filosofica, esemplificata con Orlando Franceschelli; detta prospettiva antropologica intende essere equidistante sia dall’antropocentrismo teologico che dall’assurdismo esistenzialistico; essa individua “nella saggezza della felicità possibile e solidale il senso più plausibile e piacevole delle nostre vite: dell’umanesimo che il principio natura ci sollecita a far fiorire nel presente dei nostri giorni sulla terra” (cit. ib., p. 45); detto naturalismo, lontano da amorali riduzionismi meccanicistici, propone una spiritualità laica capace di etica solidale. Parimenti, viene ricordata la mistica laica di Lombardo Vallauri, intesa come “un humanum laico, è laico come sono laici la matematica, il viaggio, l’innamoramento, l’arte, tutte le cose vere e belle, indipendenti dalla religione” (cit. ib., p. 53); per detta esperienza vengono suggerite alcune vie di meditazione: una prima via, che percorre in direzione dell’infinitamente grande; una seconda via in direzione dell’infinitamente piccolo; una terza via che si concentra sulla complessità; una quarta vita di meditazione profonda, che ha per oggetto l’infinito di incomprensibilità (cf (cit. ib., pp. 53-56). L’obiettivo è di “trasformare la vita in un poema ininterrotto, in un poema meditativo ininterrotto. Soffiare ogni giorno sulla brace della vita. Raggiungere, se possibile, lo stato di contemplazione ordinaria, avvalendosi flessibilmente, a seconda delle circostanze, di tutte le vie mistiche esplorate nei tempi forti...” (cit. ib., p. 57). Complessità che viene ripresa attraverso Stuart Kauffman, biologo e ricercatore statunitense, analista dei sistemi complessi e della loro relazione con la biosfera, la quale non è riducibile alla mera biologia né ancor meno alla fisica: “senza violare alcuna legge fisica, la vita nella biosfera, la sua evoluzione, la pienezza della nostra storia umana e il nostro concreto mondo quotidiano, sono reali anch’essi, non riducibili alla fisica e nemmeno spiegabili da essa” (cit. ib., p. 60). Ciò non comporta di per sé un creatore soprannaturale, piuttosto ci spinge a superare il meccanicismo cosmico per approdare al riconoscimento di “una meravigliosa creatività radicale” (ib.). Questa prospettiva dovrebbe aiutare a sanare le quattro lacerazioni della nostra moderna società laica: la divisione artificiale tra scienze naturali e scienze umane; la separazione tra i ‘fatti’ e i ‘valori’; il divorzio tra umanisti laici e vita spirituale; la distanza tra il consumismo e la mercificazione degli Occidentali e l’impellenza di un’etica globale. Lo scenario che si prospetta è quello di prendere atto dei limiti della nostra conoscenza. Ciononostante “riesaminare noi stessi come esseri viventi evoluti nella natura è, dunque, un compito culturale, con implicazioni per il ruolo delle arti e delle scienze umane, ma anche per il ragionamento giuridico, le attività economiche; e lo è anche per l’azione pratica, e infine per la reinvenzione del sacro: vivere con la creatività dell’universo che in parte noi co-creiamo” (cit. ib., p. 63). Il traguardo è in direzione di un’etica globale e di un incontro tra credenti e non credenti, realizzando uno spazio in cui fare “coevolvere le nostre tradizioni, laiche o religiose, senza perdere le loro radici, o la loro saggezza, verso una spiritualità condivisa” (cit. ib., p. 66).
Cavadi guardando al futuro della religione esprime l’auspicio della ‘de-assolutizzazione’ delle religioni, non solo perché esse sono bisognose di alleggerimento rispetto ai condizionamenti anacronistici del passato; ma, positivamente, perché dovrebbero avere il compito di incrementare gli aspetti di umanizzazione dello sviluppo storico. “Molti dei compiti che hanno assunto quasi costitutivamente durante il periodo agrario dovranno essere abbandonati. Le religioni dovranno concentrarsi sul compito essenziale, che non cambierà: aiutare l’umano a sopravvivere diventando sempre più umano...” (J. M. Vigil, cit. ib., p. 71). L’autore è pure convinto che “religioni così poco presuntuose, scostanti, clericali [...] non sono facili da realizzare, ma senza la chiarezza di un modello utopico è del tutto impossibile che si realizzino” (ib., p. 72). Per realizzare detta istanza ogni religione non dovrà prescindere dalla dimensione profetica, da una fedeltà alla tradizione che sappia dare spazio a nuova energia positiva e creativa, anche in senso terapico (E. Drewermann); inoltre, deve appoggiare i diritti fondamentali dell’umanità a fronte di squilibri che consentono che l’’1% della popolazione mondiale detiene da sola una ricchezza equivalente a ciò che possiede il restante 99%; parimenti, alimentare i sentimenti e l’inconscio, coltivando il valore della femminilità, sulla linea dei grandi saggi dell’umanità, incluso il Nazareno: “In sostanza, quello che Gesù voleva portare nell’inferno della nostra esistenza non era altro che questo crollo e questa ricostruzione di un ‘ordine’ nella ‘giustizia’, a favore di una accettazione incondizionata di ogni singolo individuo nel campo di un affetto e di un’attenzione completamente immeritati, e tuttavia tanto più sicuri e affidabili” (E. Drewermann,. cit. ib., p. 74).
La compatibilità della spiritualità filosofica con quella religiosa e confessionale viene condivisa da Fabrizio Mandreoli nella Postfazione; il quale, in particolare, afferma che la spiritualità filosofica “non solo non è contraria rispetto a un’esperienza credente pienamente [...] immersa nella propria tradizione, ma risulta essere un aiuto, un sostegno, un elemento di confronto per cercare la verità esistenziale e relazionale di quelle prospettive che animano e attraggono la propria esperienza di uomini e donne credenti” (Postfazione, ib., p. 85). Le sollecitazioni che vengono da questo incontro sono molteplici e variegate; “il dialogo tra credenti e laici, tra le varie confessioni cristiane e tra le varie tradizioni religiose potrebbe essere pensato come un aiutarsi e sostenersi [...] a vicenda nel trarre, dal proprio bagaglio di sapienze, strumenti, possibilità, risorse interpretative e di prassi, utopie costruttive, energie ‘spirituali’ che aiutino tutti nella ricerca di una vita più autentica e più buona verso se stessi, gli altri, la propria terra” (ib., p. 86).
Come è comprensibile, la riflessione proposta attraversa diversi ambiti della conoscenza e, seppure connotata soprattutto in senso filosofico, chiama in causa diverse discipline: dall’antropologia alle scienze del linguaggio, dalla storia della filosofia alla politica, dalla storia delle religioni alla teologia, quest’ultima, a sua volta, nel diversificarsi delle sue discipline.
Diverse sono le provocazioni del libro; esse risultano tanto più preziose in un momento in cui l’approssimazione, se non addirittura, una certa ambiguità linguistica, fa emergere l’esigenza almeno di chiarificare i termini del discorso; per conto nostro ci limitiamo a riprendere la tematica proposta focalizzandola sotto tre aspetti: il primo di carattere 'apologetico'; il secondo di carattere linguistico; il terzo ponendo la questione dell’esclusione pregiudiziale.
Il primo aspetto, certamente non estraneo alla vicenda autobiografica dell'Autore, ci pone dinanzi a quello che era il percorso tradizionale dell'apologetica, solo che l'Autore ne capovolge la direzione. L’apologetica tradizionale, che si è sviluppata soprattutto dal secolo XVIII fino al Concilio Vaticano II, si dedicava ai cosiddetti Preambula fidei, ovvero a ciò che doveva essere trattato preliminarmente, perché in qualche modo andava presupposto, ma anche giustificato, rispetto alla esplicita trattazione teologica. In questa prospettiva veniva fuori una costruzione di pensiero che, secondo un crescendo dal più generico al più specifico, doveva giustificare la propria appartenenza religiosa: la religione cattolica presuppone quella cristiana (che è distinta in diverse confessioni), la quale presuppone la religione tout court, la quale presuppone la religiosità e prima ancora la spiritualità. All’inizio deve essere affermata la spiritualità dell'uomo, ovvero la sua collocazione originale rispetto al mondo delle altre creature; il passaggio successivo prevede la riconoscibilità e la dimostrabilità della religiosità umana come costante di ogni cultura (classico resta Il trattato della religione di M. Eliade); detta religiosità, a sua volta, si sviluppa nelle diverse forme delle religioni, le quali possono essere immanentistiche o teistiche e queste ultime possono essere politeistiche o monoteistiche; tra le religioni monoteistiche, infine, viene dimostrata la verità della religione cristiana e a conclusione (in ambito cattolico) la verità della religione cattolica. L’apologetica tradizionale nel trattato De vera religione grosso modo proponeva, salvo piccoli aggiornamenti, questa dinamica di pensiero. Ma in Occidente, in seguito alla crisi della Riforma protestante con le conseguenti guerre confessionali, si rese inevitabile quel processo che, a partire dalla famosa affermazione di Grozius etsi Deus non daretur (ovvero interpretare la realtà secondo la sua logica interna e senza chiamare in causa l’intervento di Dio), invitava a conoscere i fatti della storia mettendo tra parentesi la propria appartenenza religiosa. Finché reggeva il paradigma della societas christiana, dovendo condividere un punto di partenza comune, si presupponeva di essere cristiani e quindi si faceva riferimento culturale alla religione cristiana; ma, man mano che l’Illuminismo avanzava, ci si accontentò del riconoscimento di Dio nei limiti della ragione umana e quindi nella forma del teismo e del deismo, dando spazio all’atteggiamento religioso; finché la Rivoluzione francese pose a base del ripensamento della società la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, che potremmo considerare come remota formulazione della spiritualità umana, da intendere laicamente ovvero secondo la condizione della cittadinanza. La Dichiarazione dei diritti fondamentali dell'uomo da parte dell'ONU e infine nel 1989 la Dichiarazione dei diritti dei bambini sono storia recente, che ci fa cogliere il senso politico di detto percorso alla ricerca delle condizioni di convivenza e vivibilità sociale, che sappiano ospitare le differenze che esistono fra le persone e i popoli.
Cavadi conosce bene questo percorso e ce lo ha voluto riproporre a ritroso, date le profonde trasformazioni che ha subìto l’Occidente, che si caratterizza per la sua condizione ormai cosiddetta post-cristiana; in vista di una convivenza politica rispettosa egli propone come punto di partenza la spiritualità, che chiunque può condividere nella misura in cui accetta che l'uomo sia un animale spirituale. In verità ci vorrebbe un altro passaggio per dare spazio anche a coloro che non si riconoscono nella spiritualità perché danno rilevanza alla materialità, ovvero alla conoscenza che riconduce tutto alle componenti fisiche, organiche, psichiche con un certo determinismo a livello personale, o ai processi di produzione economica come base della storia secondo la prospettiva del materialismo storico a livello collettivo.
Potremmo chiamare questo percorso, secondo un'espressione una volta usata in matematica, procedimento “del minimo comune denominatore”. Secondo il procedimento sopraindicato, l'approdo conclusivo dovrebbe essere alla vera spiritualità, ovvero a quella spiritualità che rende possibili (ma non necessariamente auspicabili) i passaggi successivi, ma che da sola basterebbe a dare una qualità antropologica alla condizione umana e alla convivenza sociale.
Venendo al secondo aspetto, ovvero quello linguistico, il contributo di Augusto privilegia il percorso a cono o a piramide; egli si muove secondo il procedimento che classicamente potremmo chiamare dalla specie al genere. Possiamo considerare le diverse religioni come specificazioni della religione, la quale a sua volta è specie della religiosità (intesa come apertura verso il trascendente), la quale è specie della spiritualità, condizione comune a tutti gli uomini. Detta precisazione terminologica consente ad Augusto di tracciare una linea in qualche modo demarcatoria, che favorisce la chiarezza del percorso.
Ma, venendo al titolo del libro, forse andrebbe fatta qualche ulteriore precisazione. La formulazione mette insieme tre termini: religione, ateismo e spiritualità. La prima domanda che sorge, sul piano logico, è se si tratta di termini opposti o contrari. Nel caso di termini opposti potrebbero essere tutti veri o tutti falsi o parzialmente veri o falsi; invece, se si tratta di termini contrari allora se è vero un termine sarà falso il suo contrario e viceversa. In verità l'accostamento proposto mantiene una qualche ambiguità nella formulazione o...o, anche se l'orientamento prevalente sembra quello di considerarli opposti e non contrari. Per considerarli contrari, per correttezza, a religione sarebbe contraria la mancanza di religione, ad ateismo è contrario il teismo, a spiritualità è contraria la materialità o il materialismo (alla laicità sarebbe contrario il clericalismo?). Non essendo posti come termini contrari non vanno pensati come escludentesi a vicenda. Dall’andamento del testo non sembra che uno dei termini voglia escludere come impraticabile gli altri termini; infatti si può prevedere una spiritualità dell’ateo o una mancanza di religiosità in una religione rivelata (secondo l’ipotesi sottolineata da Vergani). A tal proposito, può essere utile fare l'esempio di due termini che spesso, inopportunamente (anche se ciò è comprensibile alla luce della vicenda culturale dell’Ottocento), vengono accostati come fossero contrari; si tratta dei due termini classici fede e ragione. In verità va affermato che il contrario della fede è l’incredulità e il contrario della ragione è l’irrazionalità. Quindi non è per niente detto che la fede sia irrazionale, né che la ragione escluda ogni forma di fede/fiducia verso qualcosa come l’assunzione di un punto di partenza (cf. teorema di K. Goedel). Certamente, resta il fatto che, per correttezza logica, dovremmo ritenere che, se è vera una affermazione razionale, sarà falsa l'affermazione contraria, relativa allo stesso argomento e considerata dallo stesso punto di vista.
Per carità, questa precisazione non allontana i problemi che risentono di tante ambiguità che ci trasciniamo dal passato circa l’uso delle parole; sappiamo, infatti, che l'ambito del così detto 'irrazionale', come viene inteso in alcuni ambiti come, per esempio, l'arte o l'inconscio, non è esattamente il contrario della razionalità, ma è semplicemente altro rispetto al razionale, risorsa diversa a disposizione della comprensione dell'umano.
Offriamo la precedente osservazione per una verifica ulteriore dei contenuti offerti dal libro e, volendo fare chiarezza linguistica e semantica, ci si dovrebbe preliminarmente mettere d’accorso sulle singole accezioni delle parole usate. Basti ricordare la famosa posizione di K. Barth, grandissimo teologo evangelico, citato dallo stesso A. Cavadi, il quale affermava che il cristianesimo non è una religione! Intendendo per religione la pretesa dell’uomo di conoscere Dio, senza che sia Dio a farsi conoscere! Insomma il discorso resta aperto.
Il terzo ambito è quello che abbiamo anticipato come l'Escluso. Interessante il percorso di una apologetica verso il minimo comune denominatore; preziose le chiarificazioni linguistiche, ma è rimasta fuori una domanda alla quale non si riesce a dare diritto di accesso. É correttamente prevedibile che, pur nel grande rispetto della ricerca dell’uomo nei confronti di Dio o del Divino o del Religioso o altro ancora, Dio venga pensato, ricercato, scoperto come Colui che cerca l’uomo e che voglia parlargli? Come garantire questa possibilità? Evidentemente, muovendoci dentro un linguaggio limitato e già caratterizzato, la formulazione precedente può risultare maldestra perché caratterizzata da una sorta di petitio principii, ovvero dare per scontato ciò che andrebbe preliminarmente dimostrato; ciò non toglie che se ogni formulazione umana è passibile di antropologicità (l’uomo in fondo riesce a parlare solo di se stesso), non possiamo rinunziare a dare spazio alla possibilità che Dio possa parlare di se stesso e, pur dentro il parlare umano, possa e voglia comunicare e dare se stesso. E’ la possibilità più bella e più grande che dobbiamo mettere in conto; diversamente, l’affermazione o negazione su Dio (teismo o ateismo) in fondo rischiano di somigliarsi nella misura in cui tutte e due le posizioni fanno dipendere Dio dall’uomo e non consentono che Dio possa parlare di se stesso e rendersi conoscibile e sperimentabile dall’uomo; in questo modo, l’uomo corre il rischio di arrogarsi il diritto di porsi in qualche modo al di sopra di Ciò/Colui di cui si occupa. Non vogliamo scivolare nel cosiddetto argomento ontologico di S. Anselmo, piuttosto vogliamo chiedere a noi stessi: chi siamo per decidere di Dio?
Sullo sfondo si delineano tante altre prospettive. Le diverse posizioni che l’uomo o che il mondo siano principio e fine di tutto e di tutti; che non ci si deve illudere di trovare un senso alle cose perché non l’hanno; che le cose hanno solo il senso che noi riusciamo a dare e altro ancora; ma se l’uomo, tutte le creature e il mondo sono il “dato che” (J- L. Marion), che si fa domanda, come fanno a essere il punto di partenza e di arrivo della Realtà nella sua interezza?
Certamente il presupposto antropologico ci impegna a continue purificazioni del linguaggio e del pensiero, con tutte le precauzioni di de-mitizzare , de-sacralizzare, de-ellenizzare e altro ancora. Senza negare valore a tutto quello che l’uomo tenta di dire su di sé, sul mondo e sulla storia; non potrebbe essere tutto questo già parlato e portare le tracce di una Parola che si fa strada, che si include nella ricerca e la apre al continuo superamento? L’autorivelarsi di Dio, che prende forma nell’autodonarsi nella forma della Parola che si fa carne, a noi sembra l’orizzonte più ampio, che può comprendere e includere in sé sia la spiritualità che la materialità, sia le esperienze di religiosità, sia le forme delle religioni, sia il processo del farsi del mondo, sia le ambiguità della storia... A. Cavadi cita all’inizio del suo testo una bella affermazione di Alberto Maggi che vale la pena riprendere perché, in qualche modo, ci colloca al di là del metodo e del percorso proposto. “La differenza tra religione e fede è che mentre la prima nasce dagli uomini ed è diretta verso la divinità, la seconda nasce da Dio ed è rivolta agli uomini (“Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi”; IGv 4,10; Rm 5,8). Mentre nella religione conta ciò che l'uomo fa per Dio, la fede nasce da quel che Dio fa per gli uomini. Nella religione l'uomo è tutto orientato verso il suo Dio. Nella fede l'uomo si dirige con Dio e come Dio verso l'altro. Nella religione l'uomo viene assorbito dalla divinità, e si estranea dai suoi simili. Nella fede Dio potenzia l'uomo, dilatandone la sua capacità d'amore, e lo coinvolge nella sua azione benefica verso ogni uomo. nella religione è sacro il Libro. Nella fede è sacro l'uomo (Mc 2, 7). Nella religione è importante il sacrificio, nella fede l'amore” (cit. p. 22). Non è proprio questa differenza, o almeno la sua ragionevole possibilità, che può rimettere in discussione quanto abbiamo, pur ragionevolmente, affermato?
Cosimo Scordato
domenica 14 agosto 2022
VIVERE DA EMIGRANTI SECONDO GUNTHER ANDERS
8.8.2022
L'EMIGRANTE SECONDO GÜNTHER ANDERS
Günther Anders, nato a Breslavia nel 1902 e morto a Vienna nel 1992, è stato – all'inizio per scelta, dal 1933 obbligato dalle leggi razziali naziste – un nomade (Francia, Stati Uniti, Austria le tappe principali). Nel 1962 ha pubblicato sulla rivista “Merkur” un saggio nel quale riflette filosoficamente sulla propria biografia e, a partire da questa, sul destino di tante altre persone ancora più sfortunate: L'emigrante (Donzelli, Roma 2022).
Già il titolo specifica che genere di nomadismo interroga l'autore: la condizione non del “migrante” né dell' “immigrato”, ma dell' “emigrante”. La 'e' (ex) indica moto da luogo, provenienza, distacco: l'e-migrante è colui che non riesce, per difficoltà interiori e per ostacoli oggettivi, a trovare un suo 'in', una sua nuova e definitiva condizione di stabile integrazione.
Ovviamente Anders ha in mente, prima di tutto, il destino dei suoi correligionari ebrei che – come egli stesso aveva sottolineato nel 1933 nel racconto Learsi e nel 1935 nella novella La marcia della fame – sono schiacciati, dovunque arrivino, da un'opposta, contraddittoria, istanza da parte dei nativi: assimilarsi e mantenersi diversi, “abbandonare e insieme conservare la propria estraneità” (come sintetizza nella sua articolata e documentata Postfazione Florian Grosser). In effetti, in quegli stessi anni, i tedeschi (in maggioranza, non tutti) non stavano scatenando l' “aggressività latente” verso l'ebreo - a cui, pure, avevano chiesto di inserirsi nella loro tradizione culturale - proprio “nel momento in cui questi appare troppo adattato, troppo simile a loro”?
Ma – come ogni riflessione autenticamente filosofica – anche questa di Anders non si limita al caso storico concreto e si allarga, per cerchi centrifughi, verso tante altre condizioni di e-migranti, sino a toccare la condizione antropologica in quanto tale.
Come nota Orlando Franceschelli nella sua convinta e incisiva Prefazione, il lettore odierno non può non pensare – mentre legge queste pagine di più di mezzo secolo fa – ai tanti profughi che sperimentano (quando non muoiono prima di entrare nei Paesi occidentali prescelti come meta) le sofferenze indicibili evocate da Anders: “dalla perdita dei diritti politici alla necessità di doversi arrangiare e spesso umiliare per far fronte ogni giorno alle «preoccupazioni del tutto basilari per la nuda vita», fino a quello stato di nuova pubertà e di balbuzie a cui innegabilmente si sente regredire l'emigrante che stenta a esprimersi in una lingua sconosciuta”.
Gli ebrei nella prima metà del XX secolo; africani, medio-orientali, asiatici e latino-americani dalla seconda metà del XX secolo a oggi; ma non è “un tratto fondamentale della conditio humana, che la conditio migrantis si limita a lasciar emergere con straordinaria evidenza”, quella “estraneità di fronte a sé stessi impossibile da superare del tutto” (così Grosser a p. 65) ? Si può rispondere affermativamente perché ogni essere umano ha il privilegio e la condanna di “non-essere-vincolato a un determinato «mondo» o a un determinato «stile»” (ancora Grosser a p. 64), ma a patto di non dimenticare neppure per un momento la differenza fra chi può concedersi il lusso di trasformare la propria “contingenza” ontologica (la “casualità o non-necessità della propria origine che nessun «io» è in grado di causare o di scegliere”) in “libertà” (intesa come capacità di conferire alla “propria condizione esistenziale” “sostanza ai propri atti e nelle proprie decisioni”) (ancora Grosser a p. 65) e chi – schiacciato dalle disgrazie di ogni genere – è condannato a vivere “la condizione di semplice «eccedenza»” (o, come usa papa Francesco, di “scarto”)..
Affinché nessuna “filosofia dell'emigrazione” , per quanto utile e anzi necessaria si trasformi in cinica osservazione da postazioni sicure (sine cura), è essenziale elaborarla solo in stretta connessione con una prassi (personale e politica) di gestione compassionevole degli e-migranti da ogni dove. Gestione (dunque progettazione, determinazione di regole, efficienza operativa), ma compassionevole (dunque esattamente l'opposto di ciò che Italia ed Europa stanno realizzando appaltando, a regimi autoritari e corrotti, come i governi libico e turco, il lavoro sporco di bloccare l'esodo dei popoli in preda alle guerre, alle epidemie, alla fame e alla sete).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
giovedì 11 agosto 2022
IL FEMMINISMO E' SOLO PER DONNE? BELL HOOKS PER UNA POLITICA APPASSIONATA
"Viottoli"
Anno XXV, n. 1 /2022
IL FEMMINISMO E’ PER TUTTI ?
Per sessismo intendiamo la convinzione che un sesso sia migliore di un altro ed abbia dunque diritto di predominare. Se questo sesso è il sesso maschile, il sessismo si declina come maschilismo. Nell’immaginario collettivo, il femminismo sarebbe la versione opposta: il sessismo al femminile. Se così fosse, maschilismo e femminismo starebbero – sia pur in opposizione reciproca – sullo stesso piano. Ma è davvero così? Per alcune donne è stato, o forse continua ad essere, così. Per altre, invece, il femminismo, lungi dal voler affermare il dominio di un sesso sull’altro, vuole sradicare ogni forma di dominio: è il movimento che mira a liberare la società (dunque tutte e tutti) da ogni forma di sessismo. Così inteso, esso “non è anti-uomini”: poiché “tutti noi, femmine e maschi, siamo stati addestrati fin dalla nascita ad accettare pensieri e azioni sessiste” (quasi sempre si tratta di sessismo maschilista o patriarcale), “le donne possono essere sessiste tanto quanto gli uomini”. E gli uomini possono avere l’interesse, il desiderio, di liberare la società dal patriarcato esattamente come le donne. Questa l’idea centrale (che ne spiega anche titolo e sottotitolo) dell’agile volumetto Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata (Tamu Edizioni, Napoli 2021) scritto, nel 2000, dalla pensatrice afro-americana bell hooks (la scelta di evitare le iniziali maiuscole dello pseudonimo è della stessa autrice).
Nell’impossibilità di restituire la ricchezza di spunti contenuta in queste duecento paginette, mi limito a qualche sottolineatura arbitraria.
La prima: la causa del femminismo non esaurisce lo spettro di cause per cui vale la pena impegnare l’esistenza. Per vivere “in un mondo dove non esiste dominio, in cui donne e uomini non sono simili o neppure sempre uguali, ma dove l’idea della reciprocità è l’ethos che modella la nostra interazione”, “la rivoluzione femminista” è necessaria e, tuttavia, insufficiente: va coniugata con il superamento del “razzismo”, del “classismo” e dell’ “imperialismo”. L’autrice rimprovera ad alcune versioni del femminismo di concentrarsi sulla promozione socio-economica delle donne in generale, dimenticando che tale emancipazione è possibile, in una società divisa in classi sociali e in etnie d’origine, solo alle donne appartenenti, in uno Stato colonialista come ad esempio gli USA, alle classi medio-alte e di colore bianco: non è altrettanto possibile alle donne che vivono in Paesi colonizzati né, negli stessi USA, che appartengono a classi sociali svantaggiate e/o a minoranze etniche. Si può osservare che – con leggere differenze – il contesto statunitense è simile all’europeo e che, perciò, anche in Italia si dovrebbe coltivare uno sguardo complessivo sull’intreccio fra le tematiche femministe, le sperequazioni socio-economiche interne al nostro Paese, le difficoltà supplementari che devono affrontare gli immigrati (specie extra-comunitari) e i meccanismi di sfruttamento attivati dal nostro sistema nazionale ai danni di Paesi meno autonomi politicamente. Coltivare un tale sguardo sinottico, globale, non implica che ciascuno/a di noi si dedichi, contemporaneamente, ad affrontare tutte queste problematiche: di fatto potrà concentrare soltanto su un fronte di battaglia le proprie energie. Purché questa sorta di “divisione del lavoro” avvenga nella consapevolezza che la guerra verso le ingiustizie è molto più ampia e articolata dell’ambito settoriale in cui ci si impegna. Da qui il rispetto, anzi la solidarietà attiva, verso ogni altra persona che si impegni per altre cause sociali (anche non citate dall’autrice, come ad esempio la questione ecologica).
Una seconda sottolineatura: il femminismo è una pratica politica, ma non priva di radici spirituali. Attenzione, però! Spiritualità non è sinonimo di religiosità né ancor meno di appartenenza ad una chiesa. In tutte le religioni storiche il maschio ha avuto la preminenza sulla femmina. Il femminismo si è dunque impegnato in due tempi: innanzitutto a criticare l’impianto maschilista e patriarcale delle religioni di appartenenza (anche, ma non solo, la religione ebraico-cristiana) delle donne credenti; poi – e qui sono state coinvolte anche le donne estranee alle grandi tradizioni religiose storiche – a esplorare quei campi ‘spirituali’ che si trovano al di là dei recinti delle istituzioni confessionali (dal momento che vi sono molte maniere di vivere una propria spiritualità autentica). Per le donne e gli uomini che vogliono informarsi e aggiornarsi è ormai evidente che “la liberazione da ogni forma di dominio e di oppressione è in sostanza una ricerca spirituale”: sia perché non c’è lotta politica efficace senza una qualche forma di spiritualità sia perché, all’inverso, non c’è spiritualità autentica che non si traduca operativamente in liberazione da ogni forma di oppressione.
Una terza sottolineatura: la consapevolezza dei diritti delle donne – come avviene per ogni altro genere di diritti – non si acquisisce una volta e per sempre. Va rinnovata, pedagogicamente, di generazione in generazione: “Quando il movimento femminista contemporaneo ha preso il via, avevamo una visione della sorellanza ma nessuna conoscenza concreta del lavoro effettivo che avremmo dovuto fare per trasformare la solidarietà politica in realtà. Grazie all’esperienza e al duro lavoro e, sì, imparando dai nostri fallimenti e dai nostri errori, adesso disponiamo di un corpus di teorie e pratiche condivise che può insegnare alle nuove convertite alla politica femminista che cosa va fatto per creare, mantenere e proteggere la nostra solidarietà. Poiché masse di giovani donne sanno poco del femminismo e molte presumono erroneamente che il sessismo non sia più un problema, l’educazione femminista alla coscienza critica deve essere continua. Le pensatrici femministe più anziane non possono presumere che le giovani giungeranno a conoscere il femminismo semplicemente diventando adulte. Hanno bisogno di una guida. Nella nostra società le donne stanno complessivamente dimenticando il valore e il potere della sorellanza. Il rinnovato movimento femminista deve alzare ancora una volta la bandiera e proclamare daccapo «la sorellanza è potente»”.
La dimensione pedagogica che il movimento femminista non dovrebbe dare mai per scontata, o addirittura superflua, si collega in questo “manuale” con l’attenzione ai minori: infatti la “violenza domestica” non è esclusivamente esercitata da uomini su donne, ma si registra altresì “nelle relazioni tra persone dello stesso sesso” (dunque anche fra “donne in coppia con altre donne”) e, da parte di “adulti di entrambi i sessi”, ai danni di “bambini”. Come ha scritto la medesima bell hooks in un libro precedente (anch’esso disponibile in traduzione italiana col titolo Elogio del margine, edito insieme ad una conversazione con Maria Nadotti intitolata Scrivere al buio), “donne e uomini devono opporsi all’uso della violenza come strumento di controllo sociale in tutte le sue manifestazioni: guerra, violenza maschile contro le donne, violenza degli adulti contro i bambini, violenza adolescenziale, violenza razziale, eccetera. L’impegno femminista per porre fine alla violenza maschile contro le donne deve espandersi in un movimento teso a mettere fine a ogni forma di violenza”.
Una quarta sottolineatura: il femminismo non è negazione dell’amore tout court, ma solo di una sua versione patriarcale-maschilista. E’ contestazione dell’idea che “l’amore romantico” renda “inconsapevoli, impotenti e fuori controllo” al punto che si possa “fare qualsiasi cosa: picchiare le persone, limitarne i movimenti, perfino ucciderle e definirlo un «delitto passionale», dichiarare «la amavo al punto che ho dovuto ucciderla»”. Se in una prima fase del femminismo c’è stata la tendenza a diffidare dell’amore e ad occuparsi della lotta per “i diritti e il potere”, è tempo di proporre “un discorso femminista positivo sull’amore”: inteso come cura “della crescita reciproca e dell’autorealizzazione tanto nella coppia” (omosessuale o eterosessuale) “quanto nell’esercizio della funzione genitoriale”. L’apporto specifico del femminismo all’elaborazione (incessantemente necessaria) di una teoria dell’amore è, probabilmente, nella sottolineatura che “non può esserci amore senza giustizia”.
Una quinta sottolineatura se il femminismo non è la manifestazione pubblica, collettiva, del risentimento femminile contro gli uomini; se esso è la rivolta contro “le idee e gli atti sessisti, a prescindere dal fatto che a perpetuarli sia una donna o un uomo, un bambino oppure un adulto”; se il totem da abbattere non è questo o quel singolo individuo maschilista, bensì “il sessismo sistemico istituzionalizzato”, allora non può sorprendere che alcuni uomini possano mirare a incarnare una “maschilità femminista”. L’espressione è volutamente ossimorica, provocatoria. Ovviamente non si tratta di annacquare la maschilità dei maschi, al contrario di liberarla dalle scorie, di rafforzarla e di farla splendere in misura più luminosa. Essa vuole costituire l’inversione dell’ “idea militaristica e patriarcale della maschilità”: “ecco perché il movimento degli uomini ha davvero cercato di insegnare ai maschi a riconnettersi con i propri sentimenti, a rivendicare il bambino interiore perduto e a nutrire la sua anima, la sua crescita spirituale”. Probabilmente “maschilità femminista” è una formula che conviene adoperare con cautela, a tempo: può servire come choc per scuotere la pigrizia mentale di chi misconosce la raccomandazione junghiana di conciliare, in sé stessi, la dimensione ‘maschile’ e la dimensione ‘femminile’. Ma in prospettiva sarebbe meraviglioso poterla abbandonare una volta che nel senso comune la maschilità senza aggettivi, la maschilità autentica, sarà già intesa come armonia psico-fisica, tenerezza relazionale, propensione alla cura…senza la necessità di evocare qualità convenzionalmente attribuite alle donne.
Comunque lo si voglia denominare (maschilità femminista o risanata o integrale o matura o ‘plurale’…), questo modello di pensiero e di vita va guadagnato con metodo. Non lo si acquisisce con uno schiocco di dita da un giorno all’altro. Ecco perché bell hooks sostiene che “i maschi di tutte le età hanno bisogno di ambienti in cui la loro resistenza al sessismo sia espressa e valorizzata”: ambienti in cui essi possano auto-formarsi, ma anche progettare interventi pedagogici per “spiegare a ragazzi e uomini che cos’è il sessismo e in che modo lo si può trasformare”. Il proliferare di tali “gruppi maschili” farebbe bene non solo ai maschi, ma a tutto il femminismo militante: “senza i maschi come alleati nella lotta il movimento femminista non progredirà. […] Un maschio che si è spogliato del privilegio maschile, che ha fatto propria la politica femminista, è un valido compagno di lotta, tutt’altro che una minaccia per il femminismo, mentre una donna che resta legata al pensiero e al comportamento sessista infiltrandosi nel movimento femminista costituisce una seria minaccia”.
Una sesta e ultima sottolineatura riguarda il linguaggio con cui femministe (e, aggiungerei, almeno per quanto riguarda l’Italia, maschi solidali con la causa femminista) espongono al grande pubblico le proprie tesi. Che ci sia bisogno di luoghi, come le università, in cui si elabori un pensiero complesso e ci si confronti con vocaboli tecnici, è inevitabile. Ma, man mano che si acquisiscono delle teorie, ci si deve porre seriamente il problema della loro traduzione per chi vive nella quotidianità. Invece non possiamo non condividere l’autocritica di bell hooks quando scrive: “non abbiamo prodotto un corpus di teoria femminista visionaria scritto in un linguaggio accessibile o condiviso tramite la comunicazione orale. Oggi nei circoli accademici la teoria femminista più celebrata è scritta in un gergo sofisticato che solo chi ha una buona istruzione è in grado di leggere. Nella nostra società la maggior parte delle persone non conosce neppure l’abc del femminismo; non può acquisirlo tramite documenti di diverso tipo, manuali scolastici e così via, perché questi materiali non esistono. Se vogliamo ricostruire un movimento femminista che sia davvero per tutti, questi materiali vanno creati”.
Una chiosa a margine : di questo libro, a mio parere quasi per intero condivisibile, mi lasciano perplesso solo le pagine dedicate, all’interno del capitolo sui “diritti riproduttivi”, al tema dell’aborto. Non penso che il feto sia riducibile, biologicamente, a una “parte” del corpo della donna: esso è costituito da “parti” del corpo maschile e, soprattutto, comporta una qualche forma di consistenza autonoma rispetto ai corpi dei genitori. Che questo dato oggettivo, scientifico, ponga interrogativi etici, mi pare innegabile e mi stupisce un po’ che un’intelligenza spregiudicata e sensibile come l’autrice non ne faccia cenno neppure en passant. Combattere l’impostazione tradizionale, che ha attribuito a tutti (mariti, medici, politici, preti…) tranne che alle madri il diritto di decidere in questo campo, è ovviamente sacrosanto, fuori discussione. Ma non si aiutano le donne in difficoltà a decidere se – una volta liberatele dalle minacce legali - le si illude che si tratti di un’operazione chirurgica del tutto assimilabile all’asportazione di un’appendice infiammata o di un tumore minaccioso. Data la rilevanza tragica, che non va banalizzata, di simili decisioni – e le inevitabili conseguenze psichiche nell’animo della donna – trovo più convincente insistere, come accenna la stessa bell hooks, sulle strategie da attivare per prevenire situazioni moralmente impegnative: “se l’educazione sessuale, la prevenzione sanitaria e un facile accesso ai contraccettivi venissero offerti a tutte le donne, saremmo in meno ad avere gravidanze indesiderate. Di conseguenza, il bisogno di aborti diminuirebbe”.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com