LA PEDAGOGIA DELLA SOFFERENZA.
INDICAZIONI DA ORLANDO FRANCESCHELLI
Anche se – a giudizio di alcuni – la pandemia da Covid-19 è stata amplificata nel racconto pubblico, in ogni caso ha costituito un dato oggettivo nel biennio 2020 – 2021 (né, al momento in cui scrivo, sembra destinata a tramontare). Essa ha sottolineato anche agli occhi delle fasce benestanti dei Paesi occidentali ciò che in quasi tutto il resto del pianeta è esperienza quotidiana: l’esistenza umana è fragile, esposta a minacce di ogni genere.
La sofferenza è una buona educatrice? Nei mesi più duri lo si è ripetuto, su un registro linguistico oscillante fra la previsione e l’auspicio: “Alla fine, ne usciremo. E migliori”. Ma il trascorrere del tempo conferma l’opinione più cauta di quanti supponevano – e suppongono – che, dove è in gioco l’essere umano, non scatta nessun automatismo. I fallimenti esistenziali, le malattie psichiche, i dolori fisici…tutto è intrinsecamente ambivalente: può migliorarci o peggiorarci a seconda del nostro atteggiamento di fondo (in genere migliora i migliori e peggiora i peggiori).
E’ possibile individuare alcune condizioni favorevoli a una “pedagogia della sofferenza” , intendendo il genitivo sia come ‘soggettivo’ (la pedagogia esercitata su di noi dalla sofferenza) che come ‘oggettivo’ (o ‘di argomento’: la pedagogia che possiamo attivare, in noi prima che a vantaggio di altri, in rapporto alla sofferenza)? Il filosofo Orlando Franceschelli ci prova nel suo Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza (con Prefazione di Telmo Pievani, Donzelli, Roma 2021, pp. 155, euro 18,00):
“Sopportare la sofferenza per quanto si deve, ridurla per quanto è possibile, conoscere-apprendere quanto di più prezioso essa può insegnarci: la pedagogia della sofferenza educa a non sottovalutare nessuno di questi aspetti della nostra interazione con i pathemata senza redenzione” (p. 111).
Vediamo, più attentamente, di cosa si tratta.
Sopportare tutto, e solo, ciò che va sopportato
“Sopportare la sofferenza per quanto si deve”: già, infatti non tutte le sofferenze sono inevitabili e dunque da sopportare pazientemente. Molti mali vengono a noi mortali da altri mortali più forti fisicamente, più astuti, più spregiudicati, più prepotenti, più spietati, più egoisti: sono i mali che le strutture economiche, le istituzioni giuridiche, i meccanismi politici, le tradizioni culturali…cristallizzano e perpetuano nella storia. Sono quei mali a cui i grandi riformatori – dai profeti biblici a Gandhi, Che Guevara, Martin Luther King, Nelson Mandela, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (per citare quasi a caso e comunque nel limitato orizzonte di un occidentale) – ci hanno insegnato a ribellarci, facendo leva sull’indignazione individuale e soprattutto sulla mobilitazione di più o meno ampi aggregati sociali.
Tuttavia, al netto delle sofferenze che l’uomo-lupo infligge all’altro uomo (specie se agnello), l’esistenza umana rimane marchiata da limiti ontologici insuperabili, di cui il decesso fisico è sintesi e cifra. Lo aveva notato già Agostino d’Ippona: nasciamo e di questo moriamo (anche se, abitualmente, ci diciamo che l’uno è deceduto per un incidente sul lavoro, l’altra per un male inguaribile, l’altro ancora nel corso di una rapina in banca). Eppure, oggi, alcune correnti teorico-tecnologiche sembrano voler negare l’ineluttabilità di questi limiti costitutivi dell’esistenza umana. Franceschelli denomina, complessivamente, “futurismo dei vincitori” queste varie correnti che si presentano sia nella versione
“forte del controllo tecnocratico di esseri viventi e ambiente (bio- e geo-ingegneria)” (p. 114)
sia nella versione
“gentile che comunque predilige prospettare e promettere miglioramenti futuri invece di curare le attuali ferite e contrastare efficacemente ingiustizie e privilegi che ne sono la causa. Finendo così per favorire comportamenti individuali e strategie etico-politiche che sono l’esatto opposto teso a migliorare noi stessi e la società anche mediante un serio confronto col problema della sofferenza” (pp.114 – 115).
Ci muoviamo, insomma, sul filo d’acciaio steso su un burrone: da una parte si può cadere nel “dolorismo” (p. 8) di cui non di rado le religioni monoteistiche – influenzate da certe correnti dello Stoicismo1 - sono state agenzie educative (contribuendo alla passiva e inerte rassegnazione di intere generazioni di fedeli davanti a situazioni di sofferenza che, con blasfema narrazione, attribuivano alla volontà divina stessa); dall’altra si può precipitare nel super-omismo di chi interpreta la nietzschiana volontà di potenza come ineluttabile processo di auto-divinizzazione del mortale (meglio: di alcune minoranze elette2) , anche mediante gli strumenti della tecnica, al di là di ogni finitudine biologica e psicologica3. E’ interessante notare come da premesse onto-teologiche così distanti si possa convergere su esiti pratici, etico-operativi molto simili, se non identici: “preferire la sofferenza a ogni sua possibile riduzione” dal momento che “il piacere, il benessere, la felicità come sono intesi dai sostenitori della civilizzazione umana, da Epicuro a Darwin” (p. 109) , sono “valori” meritevoli di essere perseguiti non dal santo/saggio/superuomo, bensì dalla gente mediocre inadatta a elevarsi sulle vette della vita intellettuale e spirituale.
Ridurre, per quanto possibile, le sofferenze
E’ proprio per evitare questo duplice, letale, pericolo che una pedagogia della sofferenza non può esimersi dall’indicare – subito dopo l’invito a sopportare le sofferenze davvero inevitabili, irredimibili – la necessità di impegnarsi a “ridurl[e] per quanto possibile” (p. 111). A tal fine è, innanzitutto, importante la completezza della diagnosi: i mali contro cui dovremmo schierarci non ci assediano in ordine sparso, ma in compagine compatta. In proposito Franceschelli tiene a
“precisare che quella del Covid-19, più che una pan-demia, è stata una sin-demia. Questo termine infatti richiama, opportunamente, l’attenzione sul prefisso syn-, ossia sull’insieme dei problemi (sanitari, ambientali, psicologici, sociali, economici) e sulla relazione tra le varie malattie che hanno favorito e reso ancora più devastanti gli effetti della diffusione del coronavirus nella popolazione (demos). E’ per queste ragioni che ‘sindemia’ esprime meglio di ‘pandemia’ non solo la sofferenza comune (la syn-patheia) causata da Covid-19, ma anche il comprensibile timore che la stessa ricerca di una soluzione puramente bio-medica potrebbe rivelarsi fallimentare. Con conseguenze più gravi, com’è agevole capire, per le fasce della popolazione maggiormente svantaggiate ed esposte a disuguaglianze socio-economiche e inospitalità ambientale” (p. 66).
A una diagnosi così impegnativa non può non conseguire una terapia altrettanto complessa. L’autore la incentra sulla “sinergia pensare-fare” (p. 124) così come è ribadita nella tradizione filosofica occidentale da Goethe (“Pensare e fare, fare e pensare. Ecco la somma di ogni saggezza”, cfr. p. 11 ) sino a Wittgenstein e Williams: una sinergia che eviti la riduzione del ‘fare’ a “un attivismo incondizionato” e il ‘pensare’ a “una contemplazione di entità soprannaturali più o meno solitaria, apatica, separata dalla vita” (pp. 17 – 18)4. Ovviamente l’intreccio fra teoria e prassi non avrebbe senso se avessero ragione o gli idealisti negatori di una consistenza reale della natura extra-mentale, come Hegel e Croce (perché operare su un “fantasma”?) o i materialisti negatori di una qualche trascendenza del pensiero rispetto alle sue radici biologiche e socio-economiche (e dunque votati a un pragmatismo del “fare senza pensare”)5, tra i quali ha rischiato, salvandosi solo in extremis , di ascriversi Marx. Rettamente intesa, al di là della depistante opposizione fra “interpretare” e “trasformare” il mondo6, la “sinergia di pensare e fare” può alimentare “il concreto perseguimento” di quel “rapporto ragionevole e lungimirante tra ambiente naturale e storia della nostra specie” che “costituisce il nostro primo bene comune” (pp. 41 – 42). Al di là dell’illusione antropocentrica – se non antropoteistica – di poter disporre della “sovrumana storia dell’universo” come si trattasse di una delle “nostre umanissime creazioni storiche” (p. 42), ma anche della tentazione di “rifugiarsi in determinismi (genetico, socio-economico, geo-ambientale) o in fatalismi, spesso invocati nel tentativo di legittimare il proprio non assumersi responsabilità appellandosi a riduzionismi biologici o ad argomentazioni sostanzialmente metafisiche su necessità sovrannaturali” (p. 43).
Accrescere sapere e saggezza
Sopportare i mali inevitabili e impegnarsi a ridurne al minimo l’impatto doloroso, su noi e gli altri viventi, sarebbero frutti pedagogici incompleti, per quanto preziosi, se non integrati da - o forse meglio: radicati in - un accrescimento di sapere e di saggezza. Di questa evoluzione cognitivo-etica fanno parte alcune acquisizioni.
La prima: non si può vivere alla giornata, senza una propria interpretazione della vita, Senza “maturare liberamente e criticamente anche una «propria concezione del mondo» (Gramsci)” grazie, innanzitutto, a un costante “dialogare socraticamente e laicamente con gli altri con-filosofanti” (p. 47). Le trasformazioni storico-sociali sono sì effetto di mobilitazioni collettive, ma tali movimenti macroscopici originano nella “coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea” (Gramsci, cit. a p. 47).
La seconda acquisizione è una specificazione/esplicitazione della precedente: l’attività filosofica a cui sono chiamati non solo i professionisti della storia della filosofia, ma i cittadini e le cittadine in quanto esseri pensanti, va intesa come indagine critica sui fenomeni illustrati dalle scienze empiriche e finalizzata a “vivere come si deve” (per dirla con Montaigne citato a p. 3) o a fare degli “uomini”, non dei “libri” (per dirla con Feuerbach citato a p. 11) . Dunque una filosofia scevra da complessi di superiorità rispetto alle “scienze naturali e umane, la conoscenza storica, la cultura umanistica nel senso più ampio (arte, teologia, antropologia, diritto, economia)” e immune dalla tentazione del teoreticismo aristocratico (secondo cui si vivrebbe per filosofare, dimenticando che, invece, si filosofa per dare il proprio contributo alla “crescita individuale e civile”, p. 6).
Si potrebbe aggiungere una terza acquisizione ‘sapienziale’: un simile modo di praticare la filosofia, per quanto concentrato sul presente e aperto alla progettazione del futuro, non si sottrae a
“l’inquietudine e la pena che nascono dal passato: da comportamenti e fatti su cui grava il peso dell’irrevocabilità. E talvolta del rimpianto. Il conoscere-apprendere attraverso la sofferenza - ammoniva Eschilo – è un dono che costa travaglio: fa scendere nel nostro cuore, anche durante il sonno, qualche goccia di tormentoso ricordo del male” (p. 116).
Una filosofia che non ripiega in una sorta di “anti-pedagogia della dimenticanza” pur di evitare il pungolo dell’interazione con
“le testimonianze più significative delle sofferenze patite sulla Terra: quelle dei sommersi” (p. 115).
Una quarta lezione che potremmo trarre dalla “sindemia” in corso riguarda l’ampliamento del nostro orizzonte di preoccupazioni:
“alle sofferenze che hanno sempre accompagnato la vita e la storia si stanno affiancando ferite ecologiche che ormai coinvolgono l’intero pianeta” (p. 122).
Alla globalizzazione dei mali non si può reagire frammentariamente, secondo la logica tribale, ma convertendosi – gradualmente – a “un cosmopolitismo all’altezza dell’Antropocene” (p. 59) consapevole del fatto che “nessuno si salva da solo” (p. 77); che “le frontiere che contano ormai sono solo quelle del pianeta” (p. 60), tra i cui cittadini vanno inclusi gli “altri «agenti animati » che vivono sulla Terra” (ivi).
Siamo entrati, infatti, nell’
“Antropo-cene, un’era geologica di cui è artefice l’agire umano (Anthropos) e che è del tutto nuova (come ci ricorda il suffisso -cene, dal greco kainos) rispetto ai precedenti Olocene e Pleistocene , durati rispettivamente migliaia e milioni di anni” (p. 53)7.
Possiamo far finta di niente oppure – seguendo il pressante invito già di Jonas – assumerci la “responsabilità” di questa nuova condizione dell’uomo nel cosmo: attrezzarci di un’ “etica dell’eco-appartenenza” (p. 50).
Una quinta lezione, infine, potrebbe riguardare più direttamente la consapevolezza dei rischi intrinseci alle nostre attuali risorse scientifico-tecniche:
“gli odierni rampolli di Homo sapiens dispongono di conoscenze scientifiche e capacità tecnologiche davvero formidabili, ma stentano a utilizzare con moderazione, solidarietà e lungimiranza la potenza che esse mettono nelle loro mani, e che in precedenza l’umanità non ha mai posseduto. Spesso infatti questa potenza viene finalizzata non tanto a una più giusta estensione di beni comuni quali cibo, salute, istruzione, liberazione di tempo da dedicare alla fruizione di cultura e bellezza, bensì agli interessi economici, politici, militari dei paesi e dei gruppi sociali più influenti” (pp. 122 – 123).
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http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lesperienza-della-sofferenza-tra-filosofia-e-pedagogia/
1 Si pensi alla “rigida avversione per ogni «positiva gioia di vivere […] e un disprezzo per il corpo e per la vita dei sensi» (M. Pohlenz) che rendono a dir poco problematiche non solo la benevolenza cosmopolitica e la sopportazione dei mali care agli stoici, ma anche lo stesso, concreto vivere secondo natura da essi perseguito” (pp. 100 – 101).
2 “E’ al servizio della volontà di potenza che egli [Nietzsche] ha suggerito di mettere l’umana – anzi: sovrumana – capacità di sopportazione, spingendosi perfino a chiedere ai propri discepoli di essere disponibili non solo a soffrire, ma anche a infliggere sofferenze” (p. 105) : “ai più deboli – al gregge degli uomini allevato dalle moderne democrazie” (p. 107).
3 Ci si riferisce ovviamente all’ “uso delle biotecnologie” “volto a produrre superuomini post- o trans-umani” (p. 41). Alcuni passaggi di testi stoici (ad esempio l’esortazione di Seneca: “Sopportate da forti [ferte fortiter]. In questo superate anche Dio: egli è esente dalla sopportazione dei mali [patientia malorum], voi siete superiori alla sopportazione”, p. 101) suggeriscono l’idea che non siamo proprio all’opposto dell’antropocentrismo nietzschiano e che l’invito di Epitteto a darsi pensiero solo di occupare il proprio posto nel mondo “con disciplina e sottomissione a Dio” (p. 103) non riesce a occultare del tutto l’orgoglio che sospinge a una “apatia” sovrumana, al di là del ‘bene’ e del ‘male’ (intesi, questa volta, in senso fisico e socio-economico, non morale come sarà per Nietzsche).
4 Secondo Franceschelli, dunque, “l’attività filosofica è ben lungi dal coincidere con lo «staccarsi da tutte le cose esteriori» e con «l’abbandonarsi alla contemplazione di Lui»: con l’entrare in conversazione con Dio o «indiarsi» , come secondo Plotino accadrebbe sempre «a chi abbia molto contemplato»” (p. 19). La filosofia non coincide con la mistica, insomma (e concordo); ma neppure – noterei sommessamente -la esclude. Ovviamente, per dirimere la questione, bisognerebbe preliminarmente convenire sul significato del vocabolo ‘mistica’ che per qualcuno significherebbe, da Meister Eckhart a Hegel, “l’approfondimento spirituale, in senso assolutamente razionale” (M. Vannini, Escatologia e/o mistica in AA.VV., Sulle cose prime e ultime, Augustinus, Palermo 1991, p. 27) e, di conseguenza, addirittura il nucleo essenziale e irriducibile sia della fede cristiana che della filosofia occidentale.
5 La circolarità dialettica pensare-fare necessita di almeno due condizioni. La prima (inficiata, come si è visto, dall’idealismo post-kantiano) è che la soggettività ‘spirituale’ non sia tutto; che si riconosca alla realtà naturale extra-umana una consistenza su cui operare. La seconda condizione è che il soggetto non sia in tutto e per tutto omologo all’oggetto; che possegga una qualche forma di trascendenza ‘critica’ verso la materia di cui pure impastato. Franceschelli rivendica, legittimamente, la presenza in Marx della prima condizione, il realismo gnoseologico e ontologico, difendendolo (sulla scia di Lukács) dall’accusa di un pragmatismo che eliminerebbe “tanto dalla teoria che dalla prassi ogni rapporto con la realtà oggettiva” (p. 33). Non altrettanto forte mi è sembrata la sua preoccupazione di rivendicare, i Marx, la seconda condizione: a mio avviso, infatti, Marx supera i materialismi settecenteschi non solo perché “teorici” (poco attenti alla dimensione attiva, pratica, dell’essere umano), ma anche perché troppo unilateralmente…materialisti. Dietro la facciata del suo attivismo (non perdiamo più tempo in dispute teoretiche, filosofiche, interpretative del mondo: cfr. qui p. 46) mi viene da sospettare che celasse il dubbio che l’uomo, pur non essendo solo ‘spirito’, fosse anche tale. Non era così ingenuo da ignorare che recepire la lezione degli idealisti sul “lato attivo” della soggettività umana significasse, inseparabilmente, mutuarne l’istanza meta-materialistica: se sono esclusivamente un aggregato di materia, perché non dovrei beatamente accontentarmi di essere trascinato nel suo flusso perenne? Lo stesso Franceschelli cita passaggi dei Grundrisse in cui Marx tratta del rapporto tra le “forze della natura e dello spirito” (p. 36): egli li cita per segnalare “il rischio di sopravvalutare l’attività dell’uomo e svalutare la naturalità del mondo” (ivi), ma potrebbero essere anche indici a favore del mio sospetto. Il nodo teoretico resta comunque la identificazione o meno di ‘natura’ e ‘materia’: la materia è certamente natura, ma non tutta la natura. Si potrebbe azzardare: la materia è la natura prima che attui, e manifesti, alcune delle sue numerose (forse innumerevoli) potenzialità
6 Engels si dichiarava “convinto che col marxismo la filosofia sarebbe stata «cacciata dalla natura e dalla storia». Non a caso invece, per un interprete delle Tesi su Feuerbach dell’importanza di Gramsci la filosofia «in quanto filosofia della prassi non è abolita e sostituita dalla pratica, come parrebbe dalla tesi XI e dalle sue consuete interpretazioni». Appunto: da cacciare dalle nostre visioni dei rapporti tra realtà naturale e storia umana non è la filosofia, ma la prassi senza filosofia, il fare e l’attivismo senza pensare” (pp. 40 – 41).
7 “Il dibattito sulle cause, sulle conseguenze e sulle potenzialità di questa nuova epoca […] è indubbiamente arricchito dal contributo degli studiosi propensi a definire non Antropo-cene ma Capitalo-cene il periodo storico in cui viviamo, visto che il «deragliamento geologico» del sistema Terra è stato causato non tanto dall’agire di un’indifferente umanità (dall’Anthropos) quanto dal saccheggio capitalistico delle risorse naturali […], anche nella versione sovietica e cinese” (p. 53).
1 commento:
Caro Augusto,
che bella, ricchissima e profonda discussione! e hai proprio ragione: anche chi interagisce con la sofferenza inserendosi in una prospettiva escatologica è, come scrivi, "intanto e prima di tutto inserito nel binomio-mondo".
Se ci pensiamo, forse siamo le prime generazioni di filosofi e cittadini che possono dialogare a questo livello. Grazie ovviamente anche alla rivoluzione teologica che -lo so bene- vi vede impegnati da tempo. Se anche il mio naturalismo un pò riesce a contribuire, ne sono sempre ben lieto.
Orlando
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