Tra i contributi una mia Intervista a Maurizio Pallante, teorico della decrescita felice.
Augusto: Sei laureato in Lettere e svolgi una vasta attività divulgativa nell’ambito delle tecnologie am- bientali. Quando ti ho invitato nell’estate del 2021 sulle Madonie, al Festival Una montagna di filosofia, per introdurre una “colazione col filosofo” sul tema portante della tua missione – la “decrescita felice” – sei rimasto stupito? E, comunque, come ti sei trovato nel ruolo per te insolito di ‘maieuta’ filosofico?
Maurizio: Poteva stupirmi la tua richiesta di partecipare a un convegno di filosofia? Mi ha fatto pensare che tu avessi percepito la valenza filosofica delle mie riflessioni sulla decrescita. Mi sono preoccupato soltanto per la mia inadeguatezza a trasformarle da intuizioni in un sistema di pensiero organico. Io ho solo risposto a un imperativo etico che mi ha indotto a cercar di capire le cause della crisi epocale – ecologica, economica, sociale, culturale e politica – in cui l’umanità sta sprofondando e a tentare di individuare una via per evitare che si trasformi in una catastrofe irrecuperabile. Ho maturato la convinzione che la ricerca scientifica e tecnologica sono indispensabili per percorrerla, ma solo se non saranno più usate come strumenti di dominio della specie umana sulle altre specie viventi. Solo se muteranno le finalità con cui verrà utilizzato il loro enorme potere e i loro progressi saranno misurati con la capacità di rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale. Quando gruppi di persone che non si sono lasciate irretire dalla demonizzazione della decrescita felice ad opera del pensiero dominante, e intuiscono le prospettive che può aprire, mi chiedono di aiutarle a capire le sue implicazioni, la mia relazione con loro tu chiamala, se vuoi, maieutica.
Augusto: In effetti, sin da quando ti ho ascoltato e poi anche letto – ormai quasi venti anni fa – ho intuito la preziosità della tua riflessione per chi, come me e i colleghi di “Phronesis”, siamo molto attenti alla valenza ‘pratica’ (dunque esistenziale ed etico–politica) del filosofare. E questo non solo quando gestiamo incontri di piccoli gruppi, ma anche nei colloqui a due: riteniamo infatti che molte sofferenze individuali originino da contesti socio–culturali ed economici ingiusti e che sia dunque da miopi tentare di perseguire il benessere soggettivo ignorando il malessere collettivo. È illusorio cercare di essere felici – o per lo meno sereni e in grado di convivere con tante sofferenze che ci assediano da ogni lato – in una società ingiusta, inquieta, priva di riferimenti valoriali minimi condivisi. Se tu dovessi individuare un centro cruciale, una radice decisiva, degli errori e degli orrori della società attuale, cosa nomineresti?
Maurizio: Probabilmente, la matrice di tante perversioni operative è nella prospettiva filosofica (di cui si ha per giunta scarsa consapevolezza collettiva) dell’antropocentrismo.
Augusto: Puoi illustrare meglio il nesso fra critica (filosofica) all’antropocentrismo – che secondo Hans Jonas accomuna i sistemi liberalcapitalisti e i sistemi socialcollettivisti – e proposta (economico–politica) della decrescita?
Maurizio: Per risponderti in maniera argomentata, devo chiederti un po’ di pazienza e partire da una premessa all’apparenza troppo remota: non tutti coloro che sostengono la necessità di una decrescita economica attribuiscono lo stesso significato a questa parola. Io penso che per definire cosa sia la decrescita occorre innanzitutto ripristinare la distinzione tra il concetto di beni e il concetto di merci. I beni sono oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio. Le merci sono oggetti e servizi che si comprano. Si tratta, pertanto, di due concetti diversi, ma non contrari. Il contrario di beni non è merci, ma oggetti che oggettivamente non rispondono ad alcun bisogno e non soddisfano alcun desiderio: gli sprechi di energia termica negli edifici non ben coibentati, il cibo che si butta, l’acqua che si disperde nelle reti idriche ecc. Il contrario di merci non è beni, ma oggetti e servizi che non sono in vendita: o autoprodotti per autoconsumo, o scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo nell’ambito di rapporti comunitari: l’economia vernacolare, secondo la definizione di Ivan Illich.
L’indicatore della crescita economica, il prodotto interno lordo, si calcola sommando i prezzi di vendita degli oggetti e dei servizi a uso finale scambiati con denaro nel corso di un anno. Pertanto cresce se cresce la quantità delle merci vendute e comprate, anche se non hanno alcuna utilità, o creano danni; mentre non cresce se cresce la produzione di beni vernacolari, che sono per definizione utili. Il Pil non può pertanto essere considerato un indicatore di ben-essere. La decrescita, secondo la definizione che io ne do, è la riduzione della produzione di merci che non sono beni e l’aumento della produzione di beni che non assumono la forma di merci. Non si identifica col segno meno davanti al Pil, ma col meno quando è meglio. Non è la recessione, ovvero la diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci, quelle utili e quelle inutili, che crea una disoccupazione crescente. Al contrario la diminuzione degli sprechi non solo richiede l’adozione di tecnologie più evolute, che comportano una riduzione dell’impatto ambientale (minor consumo di risorse naturali e di emissioni di scarti per unità di pro- dotto), ma contribuisce a creare un’occupazione utile che paga i suoi costi con i risparmi che consente di ottenere. La decrescita così intesa utilizza criteri di valutazione qualitativi del fare umano. Propone di sostituire il fare bene al fare sempre di più.
La finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci utilizza la scienza e la tecnologia come strumenti di dominio della specie umana su tutte le altre specie viventi, considera la biosfera un serbatoio illimitato di risorse a sua disposizione, con una capacità illimitata di metabolizzare le sostanze di scarto derivanti dai processi produttivi e dalla trasformazione degli oggetti in rifiuti al termine della loro vita utile. È la realizzazione più compiuta dell’antropocentrismo. La decrescita, nella definizione che io ne do, è il capovolgimento di questa concezione.
Augusto: Si può dunque affermare che la tua teoria della decrescita non ha solo una valenza economica, ma veicola una concezione delle relazioni, sia tra gli esseri umani, sia tra la specie umana le altre specie viventi e la biosfera?
Maurizio: Certo. Aggiungerei che questa concezione della posizione dell’uomo nel cosmo da me condivisa è totalmente diversa rispetto alla concezione del mondo che caratterizza il modo di produzione industriale. Uso questo concetto per definire la fase della storia che si è aperta nella seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale e ha avuto due varianti: la variante vincente del capitalismo e la variante perdente del socialismo “scientifico”, sconfitta definitivamente con l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989. Le due varianti erano unite dalla concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio della specie umana sulla natura per accrescere la sua capacità di estrarne quantità crescenti di risorse da trasformare in quantità crescenti di merci. Si dividevano sulla scelta dei modi più efficaci di organizzare la società per raggiungere il fine che le accomunava – il mercato e la democrazia parlamentare da una parte, la pianificazione economica e i soviet dall’altra – e sui criteri di distribuzione tra le classi sociali dei profitti derivanti dalla crescita della produzione di merci – ad opera del mercato da una parte e dello Stato dall’altra. Il giorno dopo l’abbattimento del muro di Berlino si sono formate file di 40 chilometri di Trabant su cui i tedeschi dell’est andavano ad appiccicare il naso sulle vetrine dei negozi dell’ovest, che contenevano maggiori quantità di merci e merci tecnologicamente più evolute di quelle disponibili nei negozi dell’est. La variante capita- lista aveva fatto crescere l’economia più della variante socialista scientifica.
Augusto: Come giudichi questa vittoria della variante capitalista (sia quando è totale, o quasi, come nel mondo occidentale sia quando è parziale, ibridata, come in Cina)?
Maurizio: La fase storica aperta dal modo di produzione industriale ha apportato grandi benefici a una parte limitata dell’umanità, ma ha accresciuto le diseguaglianze tra gli esseri umani e ha superato le capacità della biosfera sia di fornirle le quantità crescenti di risorse di cui ha bisogno, sia di metabolizzare gli scarti che produce. L’overshoot day ...
Augusto: Scusa, come si potrebbe tradurre in italiano questo inglesismo?
Maurizio: L’overshoot day è il giorno in cui l’umanità arriva a consumare le risorse rinnovabili che la fotosintesi clorofilliana rigenera nel corso dell’anno. Nel 2021 è sceso il 29 luglio. Le emissioni di anidride carbonica, che eccedono le capacità della vegetazione di assorbirle con la fotosintesi e si concentrano nell’atmosfera, hanno raggiunto le 418 parti per milione rispetto alle 270 dell’epoca pre-industriale. Di conseguenza la temperatura media della terra è aumentata più di 1,1 gradi centigradi. Per invertire questa tendenza non basta abbandonare la finalizzazione dell’economia alla crescita perché non basterebbe per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, occorre diminuire il consumo delle risorse e l’emissione di sostanze di scarto. Occorre una decrescita, che, per non essere devastante soprattutto per le fasce più deboli della popolazione mondiale, deve essere selettiva e governata. Si deve realizzare come diminuzione della produzione di merci prive di utilità e aumento della produzione di beni autoprodotti e scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo.
Augusto; Sarebbe difficile contestare il rigore logico, basato su dati empirici, della tua proposta. Ma altrettanto difficile negare che la sua traduzione in scelte quotidiane individuali e in politiche economiche governative comporterebbe la rinunzia a troppi privilegi, a troppe comodità. Proprio a questa difficoltà di fornirsi di motivazioni etiche, talmente forti da superare le spinte egoistiche di segno contrario, ha dedicato l’ultimo libro Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, 2019).
Maurizio: Bisogna riconoscere che tra il dire – o il pensare – e il fare resta sempre di mezzo il mare... Affinché questo cambiamento trovi il consenso sociale necessario alla sua attuazione, occorre anche un cambiamento del sistema dei valori. Da laico ho voluto dedicare uno dei miei testi più recenti alla valorizzazione della ‘spiritualità’, declinandola in una maniera che, poi, ho constatato vicina alle tue riflessioni su una spiritualità a-confessionale, ‘filosofica’: Spiritualità, dono del tempo, contemplazione. Un approccio laico (Edizioni Messaggero Padova, 2021).
Augusto: Già, mentre il materialismo come teoria filosofica, ontologica, da Democrito e Lucrezio sino ai nostri giorni, ha una sua altissima dignità, non altrettanto può dirsi di quel materialismo pratico, agito inconsapevolmente, di cui parlò Pier Paolo Pasolini all’inizio degli anni Settanta.
Maurizio: In effetti, Pasolini denunziava l’appiattimento materialistico come una vera e propria mutazione antropologica. La sfida in atto è di una gravità largamente sottovalutata dai ceti dirigenti, dai cosiddetti intellettuali, dai professionisti dell’educazione... Non si tratta di opporre – vanamente – slogan a slogan. Piuttosto di promuovere, anche con esperimenti concreti, la riscoperta dell’economia del dono e la sostituzione dei rapporti sociali basati sulla competizione con rapporti sociali basati sulla collaborazione; la lentezza al posto della frenesia; la conoscenza disinteressata al posto del sapere per utilizzare; la contemplazione della bellezza alla distruzione dell’ambiente e del patrimonio artistico.
Augusto: Critica dell’ antropocentrismo , critica della società industriale (nella sua duplice versione di ‘destra’ e di ‘sinistra’), rivalorizzazione di una spiritualità basica... In realtà le tue considerazioni si inanellano formando una collana con una sua coerenza logica, filosofica, che potrebbe sfuggire a chi ti legge sul piano meramente socio–economico e, al massimo, politico-istituzionale.
Maurizio: Hai ragione e sono contento che tu lo sta evidenziando: il paradigma culturale della decrescita che io sostengo non si limita all’ambito dell’economia e della tecnologia, ma ha una valenza filosofica. Si fonda sulla convinzione che l’epoca storica iniziata nella seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale è arrivata al capolinea. Se non si costruiscono i tasselli di un paradigma culturale alternativo capace di accompagnare la nascita di una nuova epoca storica, l’esito non potrà che essere l’estinzione della specie umana.
3 commenti:
Io penso che sia molto difficile per l'umanità costruire tasselli di un paradigma culturale alternativo,possiamo solo sperare di fare qualche passo,ma intanto,si perde il mondo
L'esito sarà l' estinzione dell' umanità
Intervista preziosa. Grazie.
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