martedì 17 maggio 2022

FALCONE, BORSELLINO: IL PUNTO TRENT'ANNI DOPO LE STRAGI


 FALCONE, BORSELLINO: FACCIAMO IL PUNTO TRENT’ANNI DOPO

 

Siamo a trent’anni esatti dalle stragi mafiose del ’92 (23 maggio: Capaci, con eccidio di Falcone, la moglie Morvillo, 3 uomini di scorta; 19 luglio: via D’Amelio, con eccidio di Borsellino e cinque guardie del corpo). Ricordarle comporta il rischio di vacua retorica, tacerne la colpa dell’ingratitudine. Quasi sottovoce, dunque, possiamo solo confessare il desiderio di perseverare lungo la stessa strada percorsa da questi due giudici, come da tante persone prima e dopo. Non pedissequamente, ma creativamente. Che potrebbe significare ciò in concreto?

Innanzitutto, autenticarsi con le azioni prima, e più, che con le parole. Le denunce, le invettive, le esortazioni sono necessarie, non sufficienti. Esse traggono linfa dalla professionalità di chi – magistrato o politico, giornalista o prete, sindacalista o insegnante – le pronunzia e diffonde. Ognuno nel proprio ambito di lavoro è posto ogni giorno davanti a bivi : ascoltare la coscienza o gli umori della maggioranza, dire ciò che si ritiene vero o ciò che so risultarmi utile, operare nell’interesse del corpo sociale o della propria corporazione, dedicarsi a colmare le lacune della propria preparazione o a nasconderle con la brillantezza dell’eloquio? Più si conoscono i dettagli della vita dei nostri martiri civili, più si capisce che la loro morte è decifrabile solo come epilogo di un certo modo di esistere. E che non sono grandi perché sono stati uccisi, ma sono stati uccisi perché grandi. 

La loro statura professionale si presta ad essere apprezzata da varie angolazioni tra le quali vorrei sottolinearne una poco visitata: la forza con cui seppero combattere la mafia senza adottare metodi violenti. Non posso in poche righe sintetizzare ciò che ha scritto in proposito il mio amico, sociologo, Vincenzo Sanfilippo (cfr. https://www.augustocavadi.com/2018/07/lotta-nonviolenta-alla-mafia.html ), ma qualche motivo lo voglio accennare.

L’atteggiamento nonviolento autentico non è debolezza, rinunzia al conflitto, resa al nemico: è volontà di combattere e di vincere in maniera più incisiva e duratura di quanto non consentano le armi tradizionali. Ma per fare questo devi saper distinguere, già nel tuo sguardo, l’errore dall’errante o, come diceva Paolo Borsellino a sua sorella Rita, il mafioso dalla persona umana. Il primo lo devi destrutturare, l’altro lo devi sollecitare a ritrovare il suo sé più profondo. 

Questa (non facile) distinzione è possibile se, con Giovanni Falcone, ammettiamo una verità scomodissima: che ogni mafioso, lungi dall’appartenere a una razza mostruosa a parte, ci rassomiglia due volte. 


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3 commenti:

Maria D'Asaro ha detto...

Bellissimo pezzo. Lo sottoscrivo. Grazie.

Anonimo ha detto...

Un'analisi attenta all'umano, che coglie, aldilà dei soliti superficiali stereotipi dei giornalisti, il senso più profondo dell'opera di Falcone e di Borsellino.

Mauro Matteucci ha detto...

Sono l'autore del commento precedente. Grazie di nuovo, Augusto, per le tue analisi, mai scontate, ma sempre concrete e vere!