RESTARE NELLA PROPRIA CITTA’ PER LAMENTARSENE O ANDARSENE ALTROVE?
In estate, per qualche giorno o per qualche settimana, per una collina vicina o per un altro continente, si lascia la propria città. E la si può guardare come dall’alto di una mongolfiera. Questo distanziamento può diventare – direbbe Pierre Hadot – un ottimo “esercizio spirituale” filosofico se ci suggerisce, ad esempio, la domanda su che rapporti ciascuno di noi intrattiene con la propria città.
Per alcuni è il rapporto del neonato con le poppe materne: ci si resta attaccati, soddisfatti del guscio protettivo, pronti a frignare ogni volta che si è frustrati in qualche necessità o desiderio. Parafrasando J. F. Kennedy, si potrebbe affermare che – per questi cittadini – la preoccupazione costante gravita intorno a ciò che la città può fare per loro, senza mai chiedersi che cosa essi possano fare per la città.
Da questa fase infantile, altri escono per passare a un atteggiamento adolescenziale di protesta e di rifiuto, di fuga: mentale e – quando possibile – fisica. Tanta insofferenza è quasi sempre, e quasi del tutto, giustificabile (un po’ come, in genere, l’insofferenza giovanile verso il sistema socio-culturale in cui ci si trova a nascere e a crescere): come sopportare un assetto fondato sulla disparità strutturale fra chi possiede molto e chi possiede poco o niente; fra chi si gode la vita senza lavorare e chi lavora tutto il giorno, e tutti i giorni, senza potersi godere la vita; fra chi ha molte strade professionali spianate dalla protezione familiare e chi viene privato della possibilità di mostrare le proprie doti; fra chi può imporre al resto della società il suo potere (specie, ma non esclusivamente, maschile) e chi deve subire senza prospettive di emancipazione (specie, ma non esclusivamente, se donna) il potere altrui ...Chi emigra dalla città – specie se all’amarezza comprensibile non congiunge disprezzo per chi resta – merita rispetto.
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