La strana storia del termine “eresia”
di Elio Rindone
Si sa che il significato delle parole cambia col passare del tempo, ma che arrivi addirittura a capovolgersi non succede tutti i giorni. È, invece, ciò che è accaduto al termine eresia, che deriva, come è noto, dal sostantivo greco αἵρεσις, e quindi dal verbo αἱρέω, che significa prendere ma anche scegliere. Nel mondo greco era usato comunemente per designare una scuola o setta o corrente di pensiero, come per esempio quella degli stoici o degli epicurei, cui si decideva liberamente di aderire.
In ambito cristiano questo termine, col suo significato originario, compare più volte negli Atti degli apostoli. Qui, per esempio, Paolo, da tempo impegnato nella predicazione del vangelo, dichiara al governatore Felice: «io adoro il Dio dei miei padri, seguendo quella Via che chiamano setta [αἵρεσιν]» (24,14). Il termine, perciò, non ha alcuna valenza negativa, tanto che nel passo citato è usato per designare il cammino indicato da Gesù, ed eretico era quindi colui che aderiva a un determinato movimento religioso, scelto per libera convinzione.
Ma col passare degli anni e col sorgere di divisioni e contrasti all’interno delle comunità cristiane, ecco che il termine eresia comincia ad acquistare un significato negativo. La seconda lettera di Pietro, per esempio, avverte la necessità di mettere in guardia i fedeli: «Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri, i quali introdurranno fazioni [αἱρέσεις] che portano alla rovina» (2 Pietro 2,1).
E man mano che il messaggio evangelico si diffonde e si differenziano le sue interpretazioni, il termine eresia non indica più una corrente di pensiero, scelta liberamente, ma un errore, una deviazione, una corruzione della verità, o almeno un’accettazione parziale di essa che ne compromette l’integrità. Tanto che già con Giustino (100-162) e Ireneo (130-202) si sente la necessità di combattere i movimenti cristiani considerati devianti.
Quando poi la nuova religione viene riconosciuta dal potere politico, essa è imposta con la forza, e non solo le interpretazioni differenti di essa ma anche le altre religioni vengono ridotte al silenzio. Basti qui ricordare il Concilio di Nicea convocato da Costantino nel 325, che ha condannato come eresia l’arianesimo, o l’Editto di Tessalonica di Teodosio del 380, col quale unica religione ufficiale dell’impero diventa quella professata dal pontefice romano.
La verità contro l’errore
Da secoli, dunque, il significato originario del termine eresia è stato capovolto: da espressione di libera scelta è diventato sinonimo di errore, che non può essere tollerato perché compromette la salvezza e disgrega la società. All’autorità, sia religiosa che politica, spetta il compito di difendere la verità con ogni mezzo, perché con l’errore non si può venire a patti: l’eretico o si pente o va condannato. E infatti quella del cristianesimo è una lunga storia di eresie e di relative condanne, e ancora oggi, con la Congregazione per la Dottrina della Fede che ha preso il posto del Sant’Uffizio, la Chiesa cattolica continua a vigilare sull’ortodossia dei suoi teologi.
In effetti, se da una parte c’è la verità e dall’altra c’è l’errore, non ci può essere dialogo, confronto, arricchimento reciproco. Rifiutata l’idea che ogni uomo debba fare liberamente le proprie scelte in campo religioso, filosofico, politico, morale…, per secoli ogni novità, ogni ricerca, ogni dissenso – superfluo sottolineare quanto tutto ciò abbia ostacolato il cammino dell’umanità! – sono stati a priori combattuti e rigettati.
La lotta contro l’eresia è stata, di fatto, la lotta contro il libero pensiero, e infatti proprio i sostenitori della libera ricerca erano considerati i nemici più pericolosi. Si capisce, quindi, come sia stato necessario arrivare alla metà del XIX secolo per trovare un’ampia e articolata difesa del valore della libertà, senza che il suo autore, l’inglese John Stuart Mill (1806-1873), corresse i gravi rischi personali che ancora era impossibile evitare nel Seicento e nel Settecento.
Il suo saggio Sulla libertà è del 1859, ma ancora oggi, in questi problematici primi decenni del terzo millennio, vale la pena riproporne gli argomenti, perché sarebbe un errore credere che in questo campo tutti i problemi siano risolti. Stuart Mill dichiara subito il suo obiettivo: fissare il criterio che deve regolare «i rapporti di coartazione e controllo tra società e individuo, sia che li si eserciti mediante la forza fisica, sotto forma di pene legali, sia mediante la coazione morale dell’opinione pubblica».
E il criterio che propone è chiaro: «il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. […] Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano». La libertà è, dunque, «quella di perseguire il nostro proprio bene come meglio crediamo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro, né li ostacoliamo nei loro tentativi per conseguirlo. Ognuno è il vero custode della propria salute, sia essa corporea, mentale o spirituale. L’umanità trae maggiori vantaggi se permette a ciascuno di vivere come meglio crede, anziché costringerlo a vivere come gli altri ritengono meglio».
Nessuna autorità, perciò, ha il diritto di decidere cosa è bene per i singoli cittadini: non ha, per esempio, il diritto di proibire, come accade ancora in tanti Paesi, l’eutanasia o l’uso delle droghe. Ciascuno, se non danneggia gli altri, ha il diritto di fare ciò che meglio crede: la libertà dell’individuo ha un solo limite, e cioè il rispetto della libertà altrui.
Se ci fossero verità assolute e immutabili, l’autorità avrebbe certo il diritto di imporle, ma questa tesi è smentita senza ombra di dubbio dall’esperienza: «Nessuna epoca e quasi nessun paese» seguono le stesse regole; eppure «la soluzione di un paese o epoca è lo stupore degli altri». Ciò si spiega facilmente se si considera la forza dell’abitudine, per cui «gli uomini di qualsiasi singolo paese, o epoca, non ne sospettano mai le difficoltà, come se l’umanità fosse sempre stata unanime su questo argomento. Le regole secondo cui vivono sembrano loro ovvie e autogiustificantesi. Quest’illusione del tutto universale è un esempio della magica influenza della consuetudine, che non è solo, come afferma il proverbio, una seconda natura, ma viene continuamente scambiata per la prima».
Liberarsi da tale illusione è, dunque, la condizione per imparare a pensare e scegliere liberamente. La prima libertà riguarda «la sfera della coscienza interiore, […] libertà di pensiero e sentimento, assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo, scientifico, morale, o teologico». La libertà di pensiero implica poi necessariamente quella di «esprimere e rendere pubbliche le proprie opinioni» e quella di «modellare il piano» della propria vita e dei propri comportamenti secondo le proprie convinzioni.
Violare la libertà di pensiero e di parola, «impedire l’espressione di un’opinione», anche quella che può sembrare più infondata, costituisce per Stuart Mill un vero “crimine”, perché «significa derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi», di possibili nuove scoperte, mentre la consapevolezza di essere ricercatori più che possessori della verità ci rende disponibili alle novità. Possiamo infatti conservare con tanta più sicurezza le nostre idee quanto più esse hanno superato, scrive Stuart Mill anticipando Karl Popper, la prova della falsificazione: «Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate».
Il male peggiore non è perciò lo scontro, anche duro, fra opinioni nettamente contrapposte, perché «finché la gente è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte, c’è sempre speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in pregiudizi, e la stessa verità cessa di avere effetto perché l’esagerazione la rende falsa». Disposti, invece, a rivedere le nostre certezze, «possiamo sperare che, se esiste una verità migliore, essa venga scoperta quando la mente umana sarà in grado di recepirla; e nel frattempo possiamo avere la sicurezza di esserci avvicinati alla verità nella misura a noi possibile».
E Stuart Mill sintetizza così le ragioni che giocano a favore della libertà di opinione e di espressione, libertà necessaria, sottolinea, per il «benessere mentale dell’umanità (da cui dipende ogni altra forma di benessere)»:
1. «ogni opinione costretta al silenzio può […] essere vera. Negarlo significa presumere di essere infallibili». 2. «anche se l’opinione repressa è un errore, può contenere, e molto spesso contiene, una parte di verità; [… perciò] è soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha una probabilità di emergere». 3. «anche se l’opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce l’intera verità, se non […] contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l’accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali». 4. una dottrina non criticata «perderà il suo effetto vitale sul carattere e il comportamento degli uomini: come dogma, diventerà un’asserzione puramente formale e priva di efficacia benefica, e costituirà un ingombro e un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita, derivante dal ragionamento o dall’esperienza personale».
Un ulteriore merito di Stuart Mill è quello di avere individuato il potere che non solo l’autorità ma anche l’opinione pubblica esercita sugli individui. Infatti, «la protezione dalla tirannide del magistrato non è sufficiente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo – e a prevenire, se possibile, la formazione – di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello».
E, inoltre, non solo riconosce l’influenza che l’opinione pubblica ha sull’individuo, ma anche, in singolare sintonia con Marx, mette in evidenza che
«dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. L’etica dei rapporti tra principi e sudditi, tra padroni e servi, tra uomini e donne è stata per la maggior parte creata da questi interessi e sentimenti di classe, e i sentimenti così generati reagiscono a loro volta sulla morale dei membri della classe dominante nei loro rapporti reciproci. Dove, d’altra parte, una classe non sia più dominante, o il suo predominio sia impopolare, i sentimenti morali prevalenti sono frequentemente improntati a un’impaziente avversione per la sua superiorità».
Con queste osservazioni, come nota Carlo Sini, Stuart Mill si è dimostrato capace di intuire con molto anticipo esperienze di cui noi siamo oggi testimoni: egli ha «compreso per primo che una nuova e forse più grave forma di schiavitù minaccia l’individuo […], la schiavitù nei confronti della pubblica opinione» [1]. E la nostra società è andata oltre le peggiori previsioni: «la società consumistica e postindustriale dei nostri giorni, ipnotizzata dai mass media, […] dalla cultura da supermercato delle idee […] ha verificato in pieno i timori di Mill relativi alla sottile […] minaccia di una totale schiavitù delle coscienze, depotenziate, incretinite, abbassate ad ‘anime da televisione’, sulle quali facilmente speculare e dominare da parte di coloro che sono privi di scrupoli e riducono la civiltà dei mezzi tecnici al loro personale tornaconto» [2].
Se la dimensione religiosa, nella società odierna, non ha più il ruolo che aveva in passato, l’eredità di questa lunga intolleranza per il libero pensiero è però ancora presente. Gli Stati totalitari del Novecento, infatti, hanno appreso presto la lezione, imponendo un’unica ideologia, e negli Stati democratici il potere non ha affatto rinunciato ad usare strumenti, certo molto più raffinati, per controllare l’opinione pubblica.
E il risultato, che è sotto i nostri occhi, è proprio quello previsto da Stuart Mill: «Uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi, e che la perfezione meccanica cui ha tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per far funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire».
A giudicare la situazione attuale del nostro Paese, e non solo del nostro, non pare che Stuart Mill avesse proprio ragione? Non corriamo davvero il rischio di vivere in società costituite sempre più da ‘piccoli uomini’, con un sempre più basso livello culturale, un ridotto senso critico e un ripiegamento su obiettivi grettamente borghesi?
Se le cose stanno così, all’inevitabile domanda che fare? non si può che rispondere con Hans Jonas: «Le grandi decisioni, per il bene e per il male, avvengono […] sul piano politico. Ma noi tutti possiamo preparare in modo invisibile il terreno cominciando da noi stessi. L’inizio, come tutto ciò che è buono e giusto, è ora e qui» [3].
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Note
[1] C. Sini, I filosofi e le opere. L’età contemporanea, Milano 1986: 250.
[2] Ivi: 251.
[3] H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Torino 1997: 54.
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