“Le frontiere della scuola”
n. 57. Dicembre 2021
IL SESSANTOTTO: FU VERA TRASGRESSIONE ?
Scrivere su un segmento di storia che si è vissuto in prima persona è lavorare con una lama a doppio taglio. Per un verso, infatti, si è favoriti perché si tratta di vicende che ci hanno visto spettatori (e, sia pur in minima parte, attori); ma, proprio perché le si è attraversate dall’interno restandovi coinvolti, è difficile guadagnare la distanza emotiva necessaria. Ecco perché, sul tema proposto dal Direttore della rivista, non posso che offrire delle pagine un po’ ibride, fra la testimonianza personale e la riflessione critica.
Parto subito dalla questione centrale: il Sessantotto ha segnato una fase di trasgressione? Indubbiamente sì. Che mi risulti, ogni generazione è trasgressiva rispetto ai parametri etici della precedente: se così non fosse, l’umanità sarebbe più o meno all’età della pietra. Tuttavia alcune generazioni premono il pedale dell’acceleratore più di altre e, per un concorso di fattori non sempre facilmente individuabili, operano una rottura più marcata e più durevole. Almeno nella percezione soggettiva di molti di noi, gli eventi del 1968 e più ampiamente i mutamenti socio-culturali del decennio 1968 – 1977 costituirono davvero un cambiamento ‘epocale’. Ciò detto, va però immediatamente aggiunto che sin da subito si è operata – con entusiasmo o con preoccupazione – una sorta di mitizzazione del Sessantotto, con il risultato che la frattura reale fu enfatizzata nella rappresentazione pubblica e nell’immaginario collettivo, dimenticando gli elementi (altrettanto indiscutibili) di continuità. Novità e persistenza di strutture mentali e sociali precedenti: senza la convergenza di queste due prospettive temo che si scivoli nella retorica del Sessantotto e non si veda che esso costituì una rivoluzione (vera), ma dimidiata. Promise molto, mantenne poco. In che senso? E perché? Potrei rispondere in termini generali (e diciamo pure generici): distruggere è facile, costruire difficile. Contestare il marcio è giusto, ma sterile se non si elabora una proposta alternativa credibile e praticabile. La mia generazione – la generazione di chi ha compiuto i 18 anni proprio nel 1968 - ha usato bene, o almeno discretamente, il piccone; ma non ha avuto altrettanta energia, fantasia e pazienza per riedificare.
Cosa c’era da contestare ?
Già negli anni caldi della contestazione globale si levavano, perfino tra giovani miei coetanei, le voci – stupite e amareggiate – di quanti si chiedevano cosa mai ci fosse da contestare nel ‘sistema’ in cui eravamo nati e cresciuti. E poiché l’evidenza non si può dimostrare, ma solo mostrare, cercavamo di indicare col dito le storture, le contraddizioni, nella sfera della politica, dell’educazione, della religione e della cultura. Ovviamente invano: il dito altrui serve solo a chi ha occhi e vuole aprirli davvero alla realtà oggettiva.
La politica era dominata, a livello planetario, dalla contrapposizione fra mondo occidentale (a guida USA) e mondo orientale (a guida URSS): fra due superpotenze, dotate di armi atomiche, ugualmente imperialiste, esperte nell’utilizzare valori sacrosanti (la libertà a Ovest, l’eguaglianza a Est) per mascherare ‘ideologicamente’ una smisurata volontà di neo-colonizzazione. In molti Paesi, come in Italia, la contrapposizione planetaria si riproduceva come contrasto (almeno ‘ufficiale’, dichiarato) fra partiti filo-atlantici come la Democrazia cristiana e partiti filo-sovietici come il Partito comunista italiano. Ci raccontavano che non vi fosse spazio per una terza via, che bisognasse scegliere fra l’arsenico e il cianuro: ma molti non ci credemmo. Chi su un fronte, chi sul fronte opposto, ma in molti protestammo contro questa semplificazione diabolica, convinti che la libertà senza uguaglianza (tendenziale) fosse altrettanto micidiale di un’uguaglianza (imposta coattivamente) senza libertà. Uno dei miei primissimi saggi editi lo dedicai a Ignazio Silone, di cui riportai la determinazione, una volta abbandonata l’esperienza social-comunista (da cui «ci si libera […] come si guarisce da una nevrosi»), di non «sacrificare i poveri alla libertà, quest’è certo, né la libertà ai poveri, o, più precisamente, ai burocrati usurpatori eretti sulle loro spalle» [1].
Non migliore la situazione dal punto di vista dei sistemi educativi (famiglia, scuola, università). I genitori, gli insegnanti, i professori si consideravano – ed erano considerati del tutto pacificamente – i padroni dei figli e degli alunni. Il loro ruolo li esonerava dal giustificare argomentativamente atteggiamenti, comportamenti, azioni e reazioni. Un simile impianto non poteva produrre che conformisti repressi o ribelli autolesionisti[2]. Scardinarlo era l’unico modo per rendere possibile un’obbedienza critica, propositiva, dialettica a norme – prodotte dalle istituzioni democratiche repubblicane – da rispettare non in quanto legali ma in quanto eque, ragionevoli, condivisibili.
La politica e la pedagogia non erano le uniche sfere in cui si respirava un clima intollerabile. Anche la religione – che in Italia e in tante altre nazioni del mondo significava la Chiesa cattolica – si era andata strutturando come un sistema dogmatico e repressivo, gerarchico e autoritario, che cercava disperatamente di salvarsi dal naufragio a colpi di scomunica verso i Modernisti e, più in generale, verso i teologi, i preti e i fedeli desiderosi di pensare con la propria testa in accordo con i progressi delle scienze naturali e umane. Fu addirittura un papa, Giovanni XXIII, a sostenere che, per rendere l’atmosfera ecclesiale respirabile, bisognasse «aprire le finestre e far entrare un po’ d’aria fresca». Chi ignora la storia della teologia del XX secolo non può rendersi conto della radicalità del capovolgimento di prospettiva operato dal Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 1965): un capovolgimento che, secondo più di un osservatore, ha costituito un precedente rilevante (e quasi una con-causa) del movimento contestatario del ’68.
Politica, strutture educative, organizzazioni religiose erano comunque, in misura differente, condizionate dalla situazione globale della cultura (qui intesa, più che in senso genericamente antropologico, nell’accezione riduttiva di visione-del-mondo). Le “grandi narrazioni”, che avevano dato risposta alla domanda di senso di miliardi di esseri umani, erano crollate più o meno miseramente: il liberalismo si era ridotto poco più che a legittimazione del capitalismo borghese più sfrenato; il comunismo era ridotto a una sorta di clone ipocrita del nazi-fascismo che esso stesso aveva fortemente contribuito ad abbattere; il cristianesimo si era ridotto a bandiera dell’Occidente neo-colonialista e sfornava movimenti sempre più pericolosamente fondamentalisti…Queste ormai antiquate auto-interpretazioni dell’umanità, pur nelle differenze tra l’una e l’altra, erano accomunate da due convinzioni strettamente intrecciate: l’antropocentrismo e l’androcentrismo. Liberali e comunisti, fascisti e cristiani si basavano infatti sulla convinzione che l’essere umano fosse l’apice, il centro e il padrone assoluto dell’universo; anzi, più precisamente, che lo fosse il genere maschile del genere umano. La natura e la donna (con tutto ciò che questo binomio ha storicamente comportato: materialità, corporeità, sessualità, adeguamento ai ritmi stagionali, ammirazione per la bellezza in tutte le sue manifestazioni spontanee…) erano le due grandi prigioniere della cosmo-visione occidentale tradizionale. Non è un caso che tra i frutti più duraturi del Sessantotto siano stati, a mio avviso, il rilancio della coscienza ecologica e l’esplosione del femminismo (come fenomeno sociale, non più come battaglia di avanguardie elitarie).
Oggi, dopo la tempesta
Dopo queste imperdonabilmente rapide pennellate il lettore potrebbe convincersi che, dopo la tempesta sessantottina, il pianeta ha conosciuto una nuova primavera paradisiaca. Evidentemente non è così.
Non lo è dal punto di vista politico. La contrapposizione frontale fra l’Occidente capitalistico e l’Oriente social-comunista ha ceduto il posto a una miriade di contrapposizioni fra Stati grandi e piccoli in competizione – e, in decine di casi, in guerra vera e propria – gli uni con gli altri. I maggiori protagonisti della scena mondiale attuale (USA, Russia, Cina, India), al di là di qualche residuo simbolico, condividono la logica produttivistica e consumistica tipica del capitalismo (privato e statuale, in dosi differenti da caso a caso). L’ Unione europea, che potrebbe inserirsi nel gioco internazionale in rappresentanza di eredità classiche preziosissime (dall’Atene dei filosofi alla Parigini degli illuministi), non solo stenta a completare il processo di unificazione al proprio interno, ma – quando si interfaccia al resto del mondo – assume un volto diffidente, ripiegato sui propri interessi finanziari, spesso perfino xenofobo, che contraddice proprio quegli ideali umanistici di cui dovrebbe farsi testimone credibile.
Il sistema pedagogico-scolastico ha segnato, insieme a indubbi passi avanti, altrettanto indubbi arretramenti. Nell’impossibilità di riprendere qua le analisi proposte nel saggio La scuola che ho trovato, la scuola che lascio in “Annali” del Liceo classico G. Garibaldi di Palermo, Anni 2002 – 2009 (nn. 38 – 45), Maggio 2011 , pp. 234 – 239 (https://www.augustocavadi.com/2011/10/la-scuola-che-ho-trovato-nel-68-e-che.html) , mi limito a una sola constatazione: il Sessantotto ha giustamente rifiutato la scuola come agenzia di selezione classista, ma ha indotto a perseguire l’eguaglianza non secondo la prassi di don Milani (incentivare lo studio dei deprivati socio-economicamente), bensì secondo una sua grottesca caricatura (abbassare il livello medio delle conoscenze in modo che gli alunni appartenenti a fasce privilegiate ne sappiano quanto gli alunni deprivati). Questo modello di scuola sposta la selezione dal suo interno all’esterno (all’interno siamo tutti felicemente livellati su un piano di mediocrità cognitiva; all’esterno, poi, i giovani della media e alta borghesia troveranno le occasioni per perfezionare la formazione e per inserirsi, anche grazie a supporti clientelari, nel mondo del lavoro), sottraendo ai “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” , la possibilità effettiva di compensare lo svantaggio socio-economico di partenza. Emblematica la polemica contro la ‘meritocrazia’: inaccettabile se “dovesse comportare che gli inidonei a insegnare o a operare chirurgicamente debbano essere emarginati dal contesto lavorativo tout court, e non trovare mansioni adatte alle loro meno brillanti capacità”, ma – in sé - di gran lunga preferibile all’assetto alternativo per cui si accede alle cattedre universitarie per diritto ereditario o si diventa primari in ospedale “per la tessera di partito o di sindacato” che si ha in tasca[3]. Nell’era pre-sessantottina la maggior parte dei magistrati proveniva da famiglie di magistrati (o comunque dell’alta borghesia professionale), in coerenza con l’impianto pedagogico-scolastico di Giovanni Gentile: e ciò non poteva accettarsi. Ma se la situazione attuale, come si legge periodicamente da anni sulla stampa, è che molti posti di rilievo istituzionale - messi a concorso pubblico – restano vuoti perché non si trovano candidati (di qualsiasi estrazione sociale) in grado di affrontare le prove di esame, non mi pare che dal punto di vista del Bene comune si possa parlare di progresso.
Anche nell’ambito ecclesiale le innovazioni conciliari hanno comportato modifiche più di facciata che di sostanza: se si incontra un vescovo, invece di inginocchiarsi e baciargli l’anello, gli si stringe la mano o ci si scambia un bacio sulle guance; ma il vescovo rimane il detentore di ogni autorità e il prete, la suora o il fedele ‘laico’ rimangono i sudditi cui, in ultima analisi, spetta “obbedir tacendo” esattamente come in caserma. Gli studi esegetici e storici hanno abbondantemente dimostrato che la teologia della Chiesa cattolica, così come il suo impianto gerarchico verticistico, non poggiano su basi bibliche, a cominciare dal dato ormai incontestabile che Gesù di Nazareth non ha voluto fondare una nuova religione né, tanto meno, secondo il modello imperiale romano. Queste acquisizioni scientifiche talora vengono insegnate nelle università pontificie e negli istituti superiori di scienze religiose: ma, sul piano effettivo della vita ecclesiale, non se ne trae nessuna conclusione. Il calo di prestigio della Chiesa “Mater et Magistra” è lampante: ma di un’alternativa davvero costruttiva, basata sulla rivalutazione del ruolo dei ‘laici’ e in particolare delle donne, non si vede all’orizzonte neppure l’ombra. Perfino l’attuale papa Francesco non intende – o non riesce a – andare oltre il maquillage e la politica dell’immagine, come attestato dall’esito del Sinodo sull’Amazzonia (in particolare sull’ipotesi di conferire il ministero presbiterale a uomini sposati). Anche su questo versante – segnato dall’abbandono della confessione cattolica da milioni di persone, non poche delle quali presbiteri o appartenenti a congregazioni religiose – i reduci del Sessantotto, guardandoci attorno, non possiamo che biascicare sommessamente i versi di Montale:
«Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Alla radice dell’incompiutezza della trasgressione generazionale simbolicamente rappresentata dal Sessantotto vi è, come accennavo sopra, un’insufficienza di pensiero e di conversione etica. Le ideologie dominanti sino alla prima metà del Novecento avevano fallito, è vero: ma cosa si era elaborato in alternativa? Il post-ideologico (che è poi un’etichetta elegante per spacciare il “pensiero unico” produttivistico e consumistico) è un esito preferibile? Si può procedere senza un’ipotesi di percorso, senza un modello di società almeno sommariamente delineato? O non aveva ragione Vitezslav Gardavsky quando, parafrasando Marx, asseriva: “Gli uomini hanno trasformato il mondo (e devono continuare a trasformarlo); oggi però è necessario interpretarlo in modi diversi” [4] ? Provare a costruire una teoria politica che, assumendo il positivo delle dottrine moderne, le sorpassi proponendo scenari inediti è essenziale. Ma già il nostro Antonio Gramsci legava in una sorta di endiade (“riforma intellettuale e morale”) l’obiettivo cognitivo al compito etico. Ai movimenti del Sessantotto – a tanti capi e capetti che essi hanno lasciato emergere dalla melma della demagogia parolaia – sono state rivolte critiche di vario genere, di vario segno e di varia pertinenza: da Figliuoli miei, marxisti immaginari (Rizzoli, Milano 1975) di Vittoria Ronkey a Il 68 pensiero (Rizzoli, Milano 1987) di Luc Ferry e Alain Renaut, sino a Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia che Alberto Giovanni Biuso ha pubblicato una prima volta nel 1998 (Guida, Napoli) e una seconda volta nel 2012 (Villaggio Maori, Catania). Personalmente, se dovessi concentrarmi sull’essenziale, direi che l’errore radicale – e perdurante sino ai nostri giorni – è stato decostruire ogni sorgente di energia etica nell’intento di smantellare quelle morali tradizionali all’epoca dominanti (e quasi del tutto insopportabili): distruggere le basi della moralità pur di far piazza pulita dei moralismi. Il risultato è concisamente scolpito da G. Friedmann: “Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni” [5]. Volere la rivoluzione, ma con la medesima determinazione allenarsi ad esserne “degni”: liberi dall’ambizione, dalle gelosie, dalle invidie, dalla bramosia di beni materiali, dalla presunzione di sapere tutto senza bisogno di imparare da nessuno, dall’egoismo di chi vede negli altri esseri viventi esclusivamente strumenti per soddisfare le proprie voglie ed è impermeabile alle loro sofferenze fisiche e psichiche. Tutto questo viene oggi bollato come ‘buonismo’, ‘bigottismo’ nostalgico, ‘ingenuità’ pre-nietzschiana, ma a mio sommesso parere sarebbe trasgredire davvero la trasgressione che la mia generazione ha saputo realizzare nel Sessantotto. Una trasgressione imperfetta perché effettiva, ma non completa. Le rivoluzioni a metà comportano alti costi: come dimostra la fase politico-culturale - dominata dai Berlusconi, i Renzi e i Salvini - toccataci come conseguenza logica e meritata punizione.
Augusto Cavadi
[1] La citazione, da Uscita di sicurezza, è in A. Cavadi, Silone: un uomo di confine in “Annali del Liceo classico G. Garibaldi di Palermo, 5 – 6 (1968 – 1969), Palermo 1969, p. 189.
[2] «La lotta contro l’autorità era ormai diventata inevitabile, non essendo più sopportabile il suo essere stata esercitata in modo fortemente autoritario per non dire anche talvolta disumano. Ricordo perfettamente che, quando ero bambino, la reazione alle punizioni, che erano sempre corporali, si manifestava con lo sfogo, accompagnato da pianto e singhiozzi, mediante parole minacciose del tipo “quando mi faccio grande…!”. Sognavamo di diventare grandi per liberarci da quella inferiorità rispetto agli adulti, che ci facevano sentire impotenti e più cresceva la sensazione di impotenza e più aumentava il desiderio di diventare grandi e di volerci ribellare e cambiare il mondo. Forse ciò che ha fatto più male e che ha scatenato la rivoluzione è stata la delusione che, raggiunta la maggiore età, si continuava ad essere impotenti perché il mondo adulto era organizzato gerarchicamente per età, per cui continuavi ad essere sottomesso a qualcuno» (M. Baldino, Urge la pedagogia. L’emergenza educativa esige la pedagogia della libertà, Brenner, Cosenza 2019, p. 181). L’autore – già maestro elementare e poi dirigente scolastico, oggi in quiescenza – si riferisce a quella «rivoluzione del ‘68» che è «sembrata a molti una ubriacatura tanto da considerare l’intero movimento sessantottino come qualcosa da dimenticare e, appunto, da accantonare» (ivi). Invano, dal momento che «esso ha inciso profondamente nella cultura, perfino di quella popolare» (ivi, p. 182).
[3] A. Cavadi, Che significa godere di “buona” reputazione ? in “Le nuove frontiere della scuola”, 53 (novembre 2020), p. 70.
[4] Per i riferimenti bibliografici e la contestualizzazione cfr. A. Cavadi – E. Poma, La bellezza della politica. Attraverso, e oltre, le ideologie del Novecento, Di Girolamo, Trapani 2011, pp. 30 – 34.
[5] Traggo la citazione dell’asserzione di G. Friedmann (La Puissance et la Sagesse) da P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 1988, p. 28.
5 commenti:
Ho apprezzato moltissimo la tua riflessione sugli esiti del sessantotto e, seppure io non lo abbia vissuto (sono entrato all'università nel '79, ma c'erano ancora movimenti 'rivoluzionari'), penso di poter condividere tutto quanto hai detto. Soprattutto mi ha colpito l'affermazione che il Concilio Vaticano II sia stato un fattore rilevante, che ha sollecitato, la contestazione. Grazie.
Salvo
Il 68 non è stato solo trasgressione è stato un movimento di stampo libertario europeo che ha dato spazio a lotte nelle quali predominava l'immaginazione. È stato prodromo all'autunno caldo del 69 e alle grandi lotte operaie degli anni 70 che tanti benefici hanno portato alla classe. Negli anni 70 si è passati dall'anarchismo sessantottino alle organizzazioni extraparlamentari di tipo leninista. La lotta non era trasgressiva ma per il potere, anche se macchiata da evidente avventurismo. Nonostante il nostro avventurismo ci furono risultati concreti: i già ricordati benefici di classe, sindaci a Roma come Petroselli, il PCI per un breve periodo primo partito italiano, il da noi contestato (sbagliando) Berlinguer che ideò un modo nuovo per la conquista del potere in un paese a capitalismo avanzato (compromesso storico e riforme strutturali). Il movimento del 68 e quello successivo degli anni 70 sono stati movimenti che hanno sferzato l'Italia con una ventata che ha portato il popolo italiano ad avere un livello di coscienza politica molto elevato oggi purtroppo perso. Di quegli anni di rivolta a livello strutturale é rimasto poco e quel poco si sta sempre più sgretolando, il capitalismo è un animale che sa cambiar pelle, in quegli anni era economia quindi produzione oggi è finanza quindi mercati finanziari, chi produce nemmeno si sa più. La generazione del 68 si è in parte integrata nel sistema, in parte ha dato vita agli anni di piombo e in parte si è impegnata nel sociale.
Bella e lunga riflessione, caro Augusto. Io mi laureavo nel 1968, e subito intraprendevo la mia vita affettiva e professionale che mi ha portato a come sono adesso. Non ho vissuto dal di dentro né i movimenti culturali del '68 né quelli sociali e politici degli anni '70, impegnato com'ero nella mia realizzazione come professionista e come marito e padre. Cosa allora hanno significato per me quegli anni? Sono serviti a focalizzare meglio le mie idee nel sociale, nel politico e nel filosofico. Sono serviti a indicarmi la via comportamentale nell'attività lavorativa e in quella di educatore. Sono cambiato eccome, nelle mie idee e nei miei convincimenti diventati più coscienti e più responsabili. Prima del'68 molti di noi, generazione del dopoguerra, hanno vissuto in un mondo "facile" e "falso" nello stesso tempo. Sono stati begli anni ad averli vissuti e poi ad averli "superati" con consapevolezza. Adesso, alle porte degli 80 anni, mi domando se ci sarà e quando un altro '68.
Armando Caccamo
Condivico tutta la tua analisi e la ritengo profonda e bene argomentata. Mi permetto di integrare il tuo discorso, dicendo che in linea di massima è vero che si confrontavano due visioni del mondo o meglio due schieramenti, ma c'è stata l'eccezione dei c. d. gruppi spontanei del mondo cristiano progressista, anzi rivoluzionario, con protagonisti eccezionali, a partire da Vladimiro Dorigo, direttore di Questitalia e da Marcello Vigli e di alcuni di noi dell'ADISTA e fino all'esperienza dei cristiani per il socialismo, con personaggi come Giulio Girardi, che proponevano un discorso alternativo che passava attraverso un dialogo tra cristiani e marxiani e per un'esperienza politica partecipata dal basso, come ho messo in luce nel mio Il '68 dei cristiani edito da Luiss unversity.
Analisi lucida, che condivido. Grazie.
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