Questo post è volutamente senza immagini (nessuna sarebbe adeguata a rappresentare l'orrore di una guerra) e molto esteso (in modo che il lettore, impaziente di pontificare sulla politica internazionale, sia costretto a leggerne almeno un po' prima di digitare la sua sentenza circa gli orientamenti dell'autore 'pro' o 'contra' Putin). AVVERTENZA IMPORTANTE: un caro amico, Giovanni Bonafé, mi segnala che questo articolo non è di questi giorni, ma del 2015. Dunque va letto come documento di un momento storico ormai superato:i riferimenti alla composizione del governo ucraino non sono più validi, dato che i partiti di estrema destra non sono presenti nell'attuale compagine di governo. Mi pare però che come anamnesi storica mantenga intatto il suo interesse.
5.03.2022
Crisi ucraina, radici storiche e possibili soluzioni
di Matthew Evangelista
insegna al Department of Government presso la Cornell University (Ithaca, New York), dove dirige anche il Peace Studies Program, ed è visiting professor presso l'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri) dell'Università Cattolica di Milano.
Cento anni dopo quella che fu definita allora «la guerra che porrà fine a tutte le guerre», la guerra è tornata in Europa. La crisi ucraina è già stata testimone delle morti di centinaia di civili innocenti, inclusi i passeggeri del volo malese MH17, abbattuto da un missile terra-aria. Durante l’estate 2014 i combattimenti hanno inoltre causato un flusso di profughi di un’intensità sconosciuta all’Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Più di 800.000 sono infatti fuggiti in Russia e circa 300.000 sono rimasti sfollati in Ucraina.
Come per la maggior parte delle crisi, anche per quella ucraina possono essere rintracciate cause di breve, medio e lungo periodo. La causa più immediata è stata rappresentata dalla fine violenta del governo ucraino guidato da Viktor Yanukovych nel febbraio 2014 e dalla reazione del presidente russo Vladimir Putin: l’annessione forzata della Crimea e l’ingerenza militare e la destabilizzazione delle aree orientale e meridionale dell’Ucraina. Le cause intermedie risalgono invece alla fine della Guerra fredda, e in particolare alla decisione della Nato di espandere la sua influenza fino ai confini della Russia e di impegnarsi in una guerra contro la Serbia, a sostegno della regione secessionista del Kosovo. Le cause di lungo periodo forniscono infine un quadro storico d’insieme indispensabile per comprendere i differenti e fragili lineamenti della società ucraina tuttora evidenti. E si tratta in questo caso di fattori che risalgono a più di mille anni fa.
Nell’area occidentale, la parte dell’attuale Ucraina che non fu annessa alla Moscovia era invece controllata dalla Polonia e dal regno polacco-lituano, pur rimanendo costantemente sotto la minaccia di diverse altre aree. Si riesce ad avere una buona percezione di quanti governanti abbia avuto questa regione – generalmente nota come Galizia – quando si considera il numero di nomi che ha assunto la sua capitale Leopoli: L’vov, L’viv, Lwów, Lemberg. Il suo nome è infatti stato tradotto in russo, ucraino, polacco e tedesco. Nel 1704 la città cadde addirittura sotto l’attacco di un esercito svedese. (Il fatto che in questo articolo ci si riferisca alla città come L’viv non deve essere inteso perciò come riflesso di un pregiudizio politico.) Fino alla fine del XVIII secolo, l’Ucraina occidentale fu inoltre controllata dagli Asburgo, prima in quanto parte dell’Austria, poi come parte dell’impero austro-ungarico. La maggioranza della popolazione di L’viv era composta da polacchi ed ebrei, seguiti dagli ucraini, e la lingua principale della città era il polacco.
Con la sconfitta nella Prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’impero asburgico, ucraini e polacchi combatterono per le sorti della Galizia e di L’viv, che finì all’interno di uno Stato polacco indipendente. Prima della Seconda guerra mondiale, nel 1939, Hitler e Stalin conclusero un accordo per spartire tra i due Paesi la Polonia e altre regioni. A quel punto l’Unione Sovietica incorporò quattro ex province asburgiche dell’Ucraina occidentale all’interno della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Quando Hitler ruppe il patto con Stalin e invase l’Urss, nel giugno 1941, l’Ucraina occidentale cadde sotto l’occupazione tedesca per tre anni, fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa e delle truppe polacche. Questo fu il periodo in cui, per mano dei nazisti e dei loro collaborazionisti locali, morirono milioni di cittadini, in particolare ebrei. Dopo la guerra, in seguito agli accordi tra i Paesi alleati e alle decisioni della conferenza di Potsdam, i confini dell’Europa centro-orientale furono nuovamente ridefiniti. Lo Stato polacco, appena ricostituito, estese i propri confini occidentali, incorporando alcuni territori della Germania e riacquistando aree che precedentemente i tedeschi gli avevano sottratto. Diversi milioni di tedeschi fuggirono o furono espulsi con la forza. A est la Polonia cedette alcuni territori all’Unione Sovietica, e così circa un milione di polacchi fu espulso, mentre i loro territori furono incorporati nelle repubbliche sovietiche dell’Ucraina, della Bielorussia e della Lituania.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla fine del 1991 l’Ucraina rimase parte dell’Unione Sovietica. Ma le zone orientali risultavano molto più integrate di quelle occidentali, che erano state incluse con la forza all’interno dell’Urss e nelle quali la guerriglia contro le autorità sovietiche era proseguita durante gli anni Cinquanta. La maggior parte della popolazione nelle regioni orientali e meridionali, inclusa la zona industriale dove si produceva carbone, conosciuta come Bacino del Donec, parlava russo anziché ucraino (così come tante persone a Kiev). Tuttavia non dobbiamo sopravvalutare le differenze linguistiche. Molte persone in Ucraina, specialmente nelle zone rurali, parlano un mix delle due lingue, chiamato surzhyk (suržik). Non ci sono dunque identità culturali o “civili” molto chiare. In un recente sondaggio, a Donetsk il 30% degli intervistati definisce le proprie tradizioni culturali come russe, ma il 32% le indica come sovietiche (P. Pomerantsev, Do you speak Surzhyk?, Lrb blog, «London Review of Books», 29 January 2014). Le divisioni politiche dunque non combaciano perfettamente con le differenze linguistiche e resistono a molte categorizzazioni superficiali. La storia non è un destino. Ma tutti gli aspetti di questo conflitto richiamano eventi storici e recriminazioni, quindi è utile tenerli a mente.
Nelle settimane successive alle proteste alla Maidan Nezalezhnosti (Piazza dell’Indipendenza) a Kiev e alla caduta del governo guidato da Yanukovych nel febbraio 2014, la Crimea ha conquistato il centro dell’attenzione internazionale, insieme alle forze militari russe e agli alleati locali che hanno sottratto il controllo della penisola alle autorità ucraine. L’annessione della Crimea alla Russia è divenuta così un fatto compiuto sulla scia della drammatica violenza che ha avuto come teatro le aree orientali e meridionali dell’Ucraina, ma vale la pena di ricordare anche la storia alquanto particolare di quest’area.
La penisola ha avuto storicamente una popolazione eterogenea, con un gran numero di tartari, la cui lingua originaria è il turco, così come ci sono stati molti russi, ucraini, qualche bulgaro, greci, ebrei, perfino coreani. La Crimea divenne parte dell’impero russo nel tardo XVIII secolo, quando la Russia stabilì il suo unico porto in “acque calde” a Sebastopoli. Nella metà del XIX secolo, la Russia dichiarò guerra alla Turchia ottomana, rivendicando il suo diritto a proteggere i cristiani ortodossi presenti nell’impero ottomano.
Sentiamo echi di questo approccio ancora oggi, quando il presidente russo afferma il diritto del suo Paese a difendere i russofoni presenti in altri Paesi (ma in queste parole abbiamo percepito anche gli echi più inquietanti delle giustificazioni che condussero la Germania nazista a invadere la Cecoslovacchia, a occupare il Sudetenland e a promuovere l’annessione con l’Austria). Durante la Guerra di Crimea, la Gran Bretagna e la Francia combatterono al fianco degli ottomani e distrussero la flotta russa. La Crimea fu inoltre teatro di numerose battaglie anche durante entrambe le guerre mondiali, ma con la sconfitta della Germania nazista finì saldamente sotto l’influenza dell’Unione Sovietica (prima come parte della Repubblica Russa, ma dopo il 1954 come parte dell’Ucraina). Nel corso della Seconda guerra mondiale Stalin deportò l’intera popolazione tartara della Crimea, accusandola di complicità con i nazisti, e la stessa cosa fece d’altronde con molti popoli del Caucaso settentrionale compreso nei confini russi e con i ceceni. Solo durante gli anni Ottanta del secolo scorso i tartari ebbero la possibilità di tornare nella loro patria. Oggi, tornati sotto il controllo russo, si trovano nuovamente ad affrontare discriminazioni e temono di perdere il loro patrimonio culturale e la loro autonomia, se non molto di più.
Purtroppo – e ovviamente Putin sarà il primo a farlo notare – gli Stati Uniti non detengono certo un primato positivo su questi temi, dopo aver invaso illegalmente l’Iraq nel 2003 e la Serbia nel 1999 a sostegno dell’autonomia della provincia del Kosovo. In quest’ultimo caso, gli Stati Uniti e la Nato giustificarono il loro intervento in termini di aiuto umanitario, come reazione alla repressione dei civili kosovari da parte delle forze serbe. Oggi Putin utilizza cinicamente una giustificazione del tutto simile, perché dice di temere un “genocidio” ai danni dei russofoni che vivono all’estero. Pochi in Occidente credono però a queste parole e a qualche battuta estemporanea circa un possibile intervento russo in Israele o nel quartiere di Brighton Beach a Brooklyn, in cui vivono molti russi emigrati. Ma i sondaggi di opinione in Russia dimostrano una crescente preoccupazione per i russi che vivono negli Stati che appartenevano all’ex Urss, senza dubbio anche come conseguenza della martellante propaganda governativa (Diskriminatsiia russkikh na postsovetskom prostranstve, Levada Center, Mosca, 5 May 2014).
I leader occidentali hanno notevoli responsabilità per questo stato di cose. Il fatto che noi continuiamo a parlare di “Occidente” in opposizione a una “Russia Altra” è indicativo. Nei primi anni Novanta, le condizioni per un’integrazione della Russia nel campo occidentale erano molto realistiche. La Russia aveva superato la sua ideologia comunista, sciolto il suo sistema di alleanze, ridotto il suo armamentario militare e nucleare, si era unita alle principali organizzazioni europee e occidentali, e non rappresentava più una minaccia nucleare per i suoi vicini occidentali. Ora appare molto minacciosa (Andrea Tarquini, Putin a Poroshenko: «Se voglio in due giorni le mie armate a Riga, Vilnius, Tallinn, Varsavia, Bucarest», «la Repubblica», 18 settembre 2014). Tutto questo deve essere considerato come un fallimento della politica di sicurezza occidentale? I leader riformisti dell’Unione Sovietica – Mikhail Gorbaciov e il suo ministro degli esteri Eduard Shevardnadze – quando nel 1990 acconsentirono alla riunificazione della Germania, all’interno della Nato, avevano piena fiducia nel fatto che gli Stati Uniti si fossero impegnati a non estendere l’alleanza più a est. Ammesso che avessero fatto bene – e non tutti lo credono – furono ingenui nel non formalizzare tale accordo con un trattato formale (Mark Kramer, The Myth of the No-Nato-Enlargement Pledge to Russia, «Washington Quarterly» 32, 2, April 2009; Mary Elise Sarotte, A Broken Promise? What the West Really Told Moscow About Nato Expansion, «Foreign Affairs», September-October 2014). Nonostante non ci fosse più una ragione militare per continuare a esistere ancora – la minaccia sovietica era scomparsa – la Nato estese la propria membership includendo al suo interno tutti gli ex alleati sovietici e tre aree costitutive dell’Unione Sovietica, la Lettonia, la Lituania e l’Estonia. E una simile iniziativa portò di fatto l’alleanza ai confini con la Russia. La Nato cercò inoltre di avviare un processo di adesione per la repubblica ex-sovietica di Georgia: proprio questo tentativo secondo molti fu alla base della decisione di Putin di invadere il Paese nel 2008, correndo in aiuto di due regioni separatiste dopo che la Georgia aveva cercato di riannettere una di queste con la forza. (Si veda il forum La Russia può essere di nuovo un nemico?, «Vita e Pensiero», 6, 2008.) La “guerra di agosto” avvenne solo sei mesi dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo dalla Serbia, con il supporto degli Stati Uniti.
Se la guerra con la Georgia aveva iniziato a sollevare sospetti circa le reali intenzioni della Russia, la crisi in Ucraina li ha confermati in pieno. Il segretario di Stato americano John Kerry ha accusato la Russia di «un incredibile atto di aggressione». «Non è ammissibile comportarsi nel XXI secolo come ci si sarebbe potuti comportare nel XIX secolo, invadendo un altro Paese sulla base di un pretesto totalmente inventato», ha dichiarato Kerry (Will Dunham, Kerry condemns Russia’s «incredible act of aggression» in Ukraine, «Reuters», 2 May 2014). Tuttavia, dal punto di vista russo, tali considerazioni vengono percepite come un’ipocrisia. Come spiega Michael Ignatieff, i russi (e i cinesi) da molto tempo hanno smesso di credere alla prospettiva statunitense di un ordine mondiale pacifico: «Mentre la questione legata alla Crimea e la vicenda del volo MH17 indicano il momento di conclusione dell’ordine internazionale creatosi dopo il 1989, per i russi e i cinesi, la frattura si è consumata quindici anni prima quando gli aerei militari della Nato hanno bombardato Belgrado e colpito l’ambasciata cinese [...]. Il precedente del Kosovo – una secessione unilaterale orchestrata, senza l’approvazione delle Nazioni Unite, da una grande potenza – ha fornito a Putin una giustificazione per l’azione in Crimea» (Michael Ignatieff, The New World Disorder, «The New York Review of Books», 24 September 2014). È interessante notare che Ignatieff, un politico liberale canadese e studioso presso l’Università di Harvard, aveva appoggiato l’invasione del Kosovo da parte della Nato (così come nel 2003 l’invasione dell’Iraq e l’uso della forza militare in Libia e in Siria). Il suo commento è dunque più una constatazione che una critica.
Quando i funzionari statunitensi hanno formulato ai loro superiori le stesse osservazioni circa le preoccupazioni dei russi, le loro opinioni sono state ignorate. Si consideri il memorandum del febbraio 2008, preparato da William Burns, ambasciatore americano in Russia, e pubblicato da Wikileaks. Dalle sue discussioni con funzionari e studiosi russi, Burns ha tratto questa conclusione preveggente circa l’impatto dell’espansione della Nato e della possibilità che l’Ucraina e la Georgia potessero diventarne membri: «Le aspirazioni della Nato sull’Ucraina e la Georgia non solo toccano un nervo scoperto in Russia, esse generano serie preoccupazioni circa le conseguenze per la stabilità della regione. Non solo la Russia percepisce l’accerchiamento, e il tentativo di minarne l’influenza nella regione, ma teme anche conseguenze imprevedibili e incontrollate che potrebbero alterare seriamente gli interessi di sicurezza russi. Gli esperti ci dicono che la Russia è particolarmente preoccupata che le forti divisioni presenti in Ucraina a proposito della Nato, con la maggior parte della comunità etnica russa contraria all’adesione, possano trasformarsi in una grande spaccatura, che potrebbe evolvere in violenza o, al peggio, in guerra civile. Qualora si verificasse tale eventualità, la Russia dovrà decidere se intervenire o meno; e si tratta di una decisione dinanzi alla quale la Russia non vuole trovarsi di fronte». Senza dubbio l’ambasciatore Burns aveva preso seriamente le preoccupazioni della Russia. Ha fatto anche in modo che il suo punto di vista fosse il più chiaro possibile, dando al memorandum questo titolo: «Nyet significa Nyet: linea rossa per l’allargamento della Nato in Russia» (Nyet Means Nyet: Russia’s Nato Enlargement Redlines, Memorandum of Ambassador William J. Burns, 1 February 2008).
Molti osservatori, specialmente nel governo americano e a Bruxelles, hanno ancora difficoltà nel credere che i leader russi abbiano percepito le politiche della Nato come una minaccia. Pensiamo all’espansione della Nato per includere gli ex alleati sovietici e parti della stessa vecchia Unione Sovietica e alla pianificazione per la distribuzione di sistemi missilistici anti-balistici nell’Europa orientale: non sono state poche le occasioni durante le quali i funzionari degli Stati Uniti hanno utilizzato espressioni come «ridicole» o «bizzarre» per definire tali preoccupazioni (queste erano le espressioni preferite da Condoleezza Rice, ex studiosa del mondo sovietico e segretario di Stato degli Stati Uniti: si veda, per esempio, David Alexander, Rice says Russian missile shield reaction «bizarre», «Reuters», 20 August 2008; Isabel Gorst, Rice in “pre-Nato” pact with Georgia, «Financial Times», 10 January 2009).
Otto mesi dopo che l’ambasciatore Burns aveva avvertito il proprio governo circa le preoccupazioni russe dovute all’interesse della Nato in Georgia e in Ucraina, e due mesi dopo che la Russia era entrata in guerra contro la Georgia rendendo manifeste le sue preoccupazioni, l’assistente segretario di Stato Daniel Fried chiarì che lui e i suoi colleghi non erano ancora in possesso del messaggio. Nell’ottobre 2008, scrisse inoltre quanto segue, descrivendo come la Russia si sarebbe dovuta porre davanti a tale situazione: «L’adesione alla Nato per i Paesi dell’Europa occidentale durante la Guerra fredda portò la pace in nazioni che avevano conosciuto secoli di guerra. L’adesione alla Nato per i Paesi dell’Europa centrale e orientale dopo la Guerra fredda ha esteso questa pace. Infatti, l’allargamento della Nato, e l’allargamento dell’Unione Europea che ne è seguito, sono stati i fattori principali che hanno reso la regione a ovest della Russia la più stabile e la meno pericolosa che ci sia stata nella storia della Russia. Non mi aspetto che la Russia ci ringrazi per questo atto, ma dovrebbe farlo» (Daniel Fried, Georgia, the US, and the Balance of Power: An Exchange, «New York Review of Books», 23 October 2008).
L’argomentazione di Fried è certamente sostenibile. Ma ugualmente non ci si può aspettare che i leader russi possano essere d’accordo. Infatti, durante la predisposizione dei primi piani per l’allargamento, era molto difficile trovare anche fra i politici liberali russi più filo- occidentali – persone come Grigorii Iavlinskii e Aleksei Arbatov – qualcuno che pensasse che l’estensione della Nato fosse una buona idea (Matthew Evangelista, Why Russia Opposes Expansion: Nato Stay Away From My Door, «The Nation», 5 June 1995). Ora però è impossibile trovare quelle persone, perché non ci sono liberali filo-occidentali nel parlamento russo o nel governo.
Uno dei concetti chiave negli studi di politica internazionale è il “dilemma della sicurezza”, e cioè l’idea che le misure prese da una parte per scopi puramente difensivi possano essere fraintese dall’altra parte e considerate come una minaccia, e che la risposta difensiva di questa parte possa a sua volta apparire come minacciosa per l’altra. L’approccio ottimistico di George Harrison, «with every mistake we must surely be learning» («da ogni errore si può trarre sempre un insegnamento»), evidentemente non può essere applicato alla politica internazionale.
Nel bel mezzo della crisi i funzionari statunitensi provarono a influenzare l’esito dello scontro in maniera improvvida e cercarono anche di portare al potere politici ucraini a loro vicini. La trascrizione di una conversazione telefonica fra l’assistente segretario di Stato Victoria Nuland e Geoffrey Pyatt, ambasciatore americano in Ucraina, è apparsa su YouTube, a quanto pare intercettata dai servizi segreti russi (Jonathan Marcus, Ukraine crisis: Transcript of leaked Nuland-Pyatt call, Bbc Europe, 7 February 2014). Putin era già convinto del fatto che le “rivoluzioni colorate” – la Rivoluzione delle Rose in Georgia nel 2003 che portò al potere un politico filo-americano, e la Rivoluzione Arancione che annullò un’elezione truccata e indusse Yanukovych a cedere il potere nel 2004 – fossero stati complotti occidentali. Oggi esprime la medesima convinzione anche a proposito delle proteste di massa contro il suo ritorno al potere a Mosca nel 2012. Ascoltare Nuland e Pyatt che discutono su quali politici ucraini dovrebbero entrare nel governo, e su quali invece dovrebbero rimanerne fuori, potrebbe rafforzare le sue paure. Dalla conversazione è trapelato infatti che Nuland aveva organizzato una telefonata fra il vicepresidente americano Joseph Biden e i leader dell’opposizione ucraina e la visita di funzionari degli Stati Uniti. Inoltre, il fatto che Nuland escludesse dai suoi piani l’Unione Europea («F*** Ue» è il passaggio che ha avuto maggiore attenzione sui media) può aver rassicurato Putin, ma allo stesso tempo lo ha incoraggiato a continuare la sua politica approfittando delle divisioni dell’Occidente.
Il 21 febbraio, i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia furono mediatori di un accordo fra Yanukovych e i leader dell’opposizione che prevedeva la fine delle violenze e un accordo per l’indizione di elezioni presidenziali anticipate. Molti manifestanti rimasero però insoddisfatti dell’accordo, tanto che il gruppo armato Pravyi Sektor e i militanti di Svoboda posero un ultimatum a Yanukovych per indurlo alle dimissioni, minacciando i membri del parlamento delle regioni orientali e meridionali e distruggendo i loro uffici. Molti di loro fuggirono per salvarsi la vita. Lo stesso Yanukovych fuggì da Kiev il giorno successivo, quindi fu formalmente rimosso dal suo incarico e da quel che rimaneva del parlamento, il quale – violando l’accordo del 21 febbraio – posticipò le elezioni fino al 25 maggio. Nonostante l’accusa che le sue azioni fossero incostituzionali, il parlamento rimosse poi cinque giudici della Corte costituzionale. Il 23 febbraio, il nuovo parlamento approvò una risoluzione che revocava una legge del 2012 sull’uso della lingua, la quale prevedeva l’utilizzo del russo e di altre lingue minori negli affari economici nelle regioni dove le minoranze linguistiche rappresentassero almeno il 10% della popolazione. Sotto le pressioni internazionali e come conseguenza delle proteste in Crimea e nell’Ucraina meridionale e orientale, in qualità di presidente, Oleksandr Turchynov pose il veto su questa decisione quattro giorni dopo la sua adozione. Ma il danno era stato fatto e lo scenario era pronto per un intervento armato della Russia a sostegno dei movimenti separatisti.
Non è affatto sorprendente che anche molti fra quanti hanno disprezzato Yanukovych (gran parte della popolazione ucraina, la quale ha rifiutato energicamente la sua brutale violenza contro i manifestanti) abbiano considerato questa serie di interventi come un colpo di Stato e come un segnale del fatto che il governo promosso da Piazza Maidan minaccerebbe gran parte degli interessi dell’Ucraina. Il partito Svoboda, che ha raccolto solo il 3% dei voti nelle elezioni precedenti, ora ha ottenuto la guida di quattro dicasteri su venti nel nuovo governo guidato dal primo ministro Arseniy Yatseniuk. Il 60% dei suoi ministri e funzionari proviene dalle ex province asburgiche, un terzo dei quali da L’viv stessa. Come ha osservato Keith Darden: «Una regione che contiene il 12% della popolazione, ma controlla la maggior parte delle posizioni di vertice nel governo, sarebbe una ricetta per l’instabilità in qualsiasi Paese – anche in uno che non ha un grande e potente vicino. Aggiungendo il fatto che il governo, è salito al potere attraverso una rivolta popolare, e che si è allontanato dagli storici centri di potere e dagli attuali centri di ricchezza, è sorprendente constatare come l’Ucraina stia ancora in piedi» (Keith Darden, How to Save Ukraine, «Foreign Affairs», 14 April 2014).
Il passato di Vladimir Putin come agente del Kgb e la sua idea secondo la quale la fine dell’Unione Sovietica ha rappresentato una grande catastrofe del XX secolo potrebbero aiutare a fare luce sulle sue intenzioni. La guerra brutale condotta contro la Cecenia ha dimostrato la sua disponibilità a un uso estremo della violenza. L’utilizzo che fa della tecnica di propaganda della Grande Menzogna e la pretesa di difendere ovunque i russofoni suggeriscono inquietanti parallelismi con la Germania di Hitler. L’ingresso clandestino delle forze speciali e il supporto alle frange estremiste in Crimea, a Luhansk, a Donetsk e altrove, spiegano bene gran parte degli schemi di violenza in queste aree. Ma per una completa comprensione della crisi in Ucraina – e per individuare possibili soluzioni – è indispensabile una buona conoscenza delle sue cause di lungo, medio e breve periodo, e solo alcune di queste sono legate alle prese di posizione di Putin o della Russia.
(Traduzione di Antonio Campati)
Matthew Evangelista
1 commento:
grazie Augusto, molto prezioso
Posta un commento