DAVID TUROLDO A TRENT’ANNI DALLA MORTE
Nel 1992 – dunque proprio trent’anni fa – si è spento un protagonista della vita sociale, culturale e religiosa del nostro Paese che merita di essere conosciuto, almeno sommariamente, anche da quelle generazioni che, per ragioni anagrafiche, ne ignorano l’esistenza. A lui è stata dedicata una monografia di 447 pagine, accurata nella documentazione, gradevole nella forma letteraria e molto equilibrata nei giudizi - David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916 – 1992) - scritta da Mariangela Maraviglia e pubblicata nel 2016 dall’editrice Morcelliana di Brescia: ad essa non possiamo non rimandare il lettore che, incuriosito da queste brevi note, voglia ampliare lo sguardo e approfondire le vicende private e pubbliche del frate dell’Ordine dei Servi di Maria.
Nascere in una famiglia di contadini friulani nel bel, anzi orrido, mezzo della Prima guerra mondiale significava crescere sapendo di dover lavorare precocemente e, nonostante ciò, sperimentare costantemente la fame. Al punto che, alla richiesta di entrare in seminario per farsi prete, il papà reagisce con sospetto: non è che questo ragazzino, più che rispondere a una chiamata divina, più prosaicamente voglia assicurarsi pancia piena e vita comoda? Ma le vicende successive smentiranno decisamente questi timori: padre Davide, per tutti i 76 anni di vita, sarà un operaio infaticabile nella vigna del suo Signore. E anche fuori.
Proprio questa sua affezione irresistibile per le zone di confine fra il mondo cattolico (avvertito quasi sempre come retrivo, ipocrita, oppressivo) e il mondo, anzi i mondi, esterni e estranei sarà la causa principale dei suoi guai di ‘religioso’ vincolato ai vertici del suo Ordine dal triplice voto di povertà, castità celibataria e soprattutto obbedienza: questo giovane frate che frequenta la borghesia più danarosa, sia pur per convincerla a condividere con i più poveri la ricchezza, e gli intellettuali più prestigiosi, sia pur per testimoniare la profondità del messaggio cristiano e la sua fecondità anche in campo letterario e artistico, non è contagiato dallo spirito mondano di cui s’illude d’essere il terapeuta? Preoccupazioni che gli esponenti della mia generazione – quindicenni al momento della conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II – stentiamo a intendere, ma che erano all’ordine del giorno nei decenni immediatamente precedenti. E che procurarono intense, quanto inutili, sofferenze a Turoldo come a tanti altri protagonisti della storia cattolica con cui egli ebbe modo di incrociarsi: da don Primo Mazzolari a don Zeno Saltini, da don Lorenzo Milani a padre Ernesto Balducci, da padre Giovanni Vannucci a Carlo Falconi (autore, dopo la rinunzia all’esercizio del presbiterato, del volume significativamente intitolato Gli spretati o Del diritto all’apostasia).
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Sulla scorta della ponderosa biografia della Maraviglia potremmo distinguere, nella lunga e fervida esistenza di p. David Maria Turoldo, sette fasi principali.
Una prima fase ( 1916 – 1941) è identificabile con gli anni della formazione, dalla frequenza della parrocchia della nativa Coderno di Sedegliano (Udine) e gli studi filosofici e teologici all’interno dell’ordine religioso (allora fiorente) dei Servi di Maria sino all’assegnazione al convento di San Carlo a Milano. Sono anni di travaglio non solo nella storia politica europea e italiana, ma anche nell’animo del giovane che, da una parte, aspira a una vita di totale dedizione alla relazione con Dio e al servizio degli uomini, ma, dall’altra, si trova inserito in un ambiente soffocante e repressivo, in cui è vietato leggere non solo L’origine della specie di Charles Darwin ma, addirittura, la Bibbia (recintata da “un cordone protettivo, stavo per dire sanitario: hic sunt leones”).
Una seconda fase è costituita dal periodo milanese (1941 - 1953 ) in cui il neo-frate è impegnato, senza risparmio d’energie, nell’assistenza ai civili bombardati dagli aerei dell’Alleanza anti-nazista; nel sostegno ai partigiani della Resistenza anti-fascista; nella predicazione domenicale nel duomo affidatagli, nonostante la giovane età, dall’arcivescovo, il celebre cardinale Schuster; nell’animazione culturale dei cattolici, subito dopo la caduta del regime fascista, attraverso la fondazione e la diffusione del periodico “L’Uomo”; nel sostegno alla costituzione del “Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà”, di fatto – se non ufficialmente – promosso dal Partito comunista; in un viaggio di esplorazione nei lager nazisti appena espugnati dalle Forze alleate; nella frequentazione, come studente di filosofia e presto anche come cappellano, dell’Università cattolica del Sacro Cuore fondata da p. Gemelli; in una breve esperienza accademica all’Università di Urbino e in una ben più vasta e durevole rete milanese di amicizie con studiosi di varia appartenenza ideologica e partitica, molti dei quali (a cominciare da Mario Apollonio) coinvolti nella pubblicazione di un nuovo periodico, “Il Chiostro”; nella pubblicazione di varie raccolte di sue liriche; nella stretta collaborazione con don Zeno Saltini e la sua innovatrice esperienza di “Nomadelfia”; nella fondazione del Centro di formazione e cultura “Corsia dei Servi”…Questa vulcanica attività attirò sul frate friulano grande ammirazione (Anna Maria Cicogna scriveva che lo riteneva “un prete ideale, come se ne vorrebbero incontrare tanti e come ve ne sono invece purtroppo pochi”) e altrettanto grandi ostilità (“Giuda della Chiesa cattolica” ). Prevalsero le preoccupazioni, le diffidenze, i sospetti: e all’inizio del 1953 egli fu costretto, su ordine perentorio dei Superiori del suo Ordine, a lasciare l’amata Milano.
Ufficialmente trasferito in Austria, Turoldo preferì vagabondare di convento in convento, non senza puntate – clandestine o quasi – nella stessa Milano da cui era stato esiliato. Una soluzione di compromesso, per uscire dalla situazione ibrida di confine fra obbedienza e disobbedienza, gli apparve il trasferimento a Firenze con il quale si apre la terza fase della sua vita (1954 - 1958). Una fase intessuta di vecchie e nuove amicizie (dal sindaco Giorgio La Pira all’arcivescovo illuminato Elia Dalla Costa, da p. Giovanni Vannucci a p. Ernesto Balducci, da don Lorenzo Milani al poeta Carlo Betocchi) e densa di iniziative caleidoscopiche: dalla “Messa della carità” celebrata nel santuario della SS. Annunziata al cineforum, dalla “trasformazione del periodico dei Servi fiorentini da bollettino di carattere devozionale, agiografico e informativo” in “rivista formativa, aperta alle voci del dibattito ecclesiale e teologico” a vari interventi mediante gli scritti e la parola in presenza. Troppa vivacità per il nuovo arcivescovo Ermenegildo Florit che ne decretò, “sempre in combutta col S. Uffizio”, l’espulsione dal capoluogo toscano.
Al breve periodo fiorentino segue, dunque, una quarta fase (1958 – 1964) caratterizzata da una sede ufficiale (Londra) e da un vasto nomadismo planetario: prediche, conferenze, interviste in Canada, negli Stati Uniti d’America, infine a Udine (dove l’infaticabile frate costituì una casa di produzione cinematografica in vista della creazione di un film, Gli ultimi, rivelatosi un vero e proprio flop).
Finalmente, con la fondazione della “Casa di Emmaus” (“casa di preghiera e di studio, iniziativa di Laici e per i Laici” ) e l’insediamento nella millenaria abbazia di san’Egidio – presso Fontanella, frazione del comune di Sotto il Monte (Bergamo) , dove era nato papa Giovanni XXIII - , p. Turoldo trova un ubi consistam per la quinta e ultima fase della sua esistenza (1964 – 1992). Ovviamente la nuova dimora fu per lui un “luogo raccolto” dove “dedicarsi allo studio e occuparsi di un’attività lontana dall’agitazione”, ma anche un’oasi dove accogliere “ospiti di ogni sorta, anche solo bisognosi di riposo” , un centro di “studi e d’incontri ecumenici” e la pista di decollo per infiniti viaggi per il mondo, sino all’Unione sovietica, dovunque fosse utile – all’interno e all’esterno della Chiesa cattolica - una voce forte e inequivoca a favore della pace, della libertà, della cooperazione internazionale.
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Non è possibile in poche pagine evocare la miriade di iniziative realizzate da Turoldo nell’ultimo trentennio della sua vicenda terrena, di cui la monografia della Maraviglia restituisce un’idea adeguata. Qui vorrei tentare, in punta di piedi e per quanto possibile, di gettare uno sguardo all’interno dell’enigma costituito dalla sua potente personalità.
Se poesia è creazione, capacità di porre in essere ciò che non pre-esiste (al punto che, secondo l’espressione di Torquato Tasso, solo Dio e il poeta sono creatori), Turoldo è stato essenzialmente un poeta: la sua produzione lirica ha costituito solo una porzione, per quanto simbolicamente eloquente, della sua creatività più ampia, concretizzatasi in una serie di iniziative mirate a diradare ignoranza, a curare ferite, a saziare fame di pane e di giustizia. Non ho avuto il privilegio di incontrare mai David Turoldo quando era vivo, ma ho incontrato – condividendone talora pezzi di strada – molte personalità poetiche (o, in termini biblici, profetiche) non dissimili. Ebbene: in tutte queste soggettività il pregio della convinzione appassionata ha comportato, quasi inevitabile risvolto, l’insistenza unilaterale sulla tematica intuita.
Provo a esemplificare con un esempio, a proposito di un tasto non certo secondario della sua predicazione orale e scritta. In una lettera del 15 novembre 1960 all’amico Mario Gozzini, il frate – dopo aver espresso comprensibile amarezza per “la vigliaccheria e l’equivoco” che l’hanno costretto a subire i continui trasferimenti decisi dai Superiori del suo Ordine religioso (“Niente Firenze, niente Milano, forse domani niente altre città”) – così conclude: “Tutto mi sarebbe permesso, ma allineato con il «cristianesimo potente», ma con uno spirito che aiuta a conservare non a turbare, posto a servizio della categoria più antitetica al cristianesimo: la borghesia”. Formulazioni del genere sono interamente vere, illuminanti; e interamente false, insostenibili.
Vere perché la borghesia è la classe (o il ceto o la fascia sociale) che ha inventato il capitalismo e soprattutto l’armamentario ideologico utile a legittimarlo: il culto dell’individuo, l’esaltazione della competizione, il nazionalismo imperialistico, l’antropocentrismo predatorio nei confronti degli altri esseri viventi, la produttività in perenne espansione come fine primario al posto della contemplazione, l’uti consumistico al posto del frui eudaimonistico, l’avere come orizzonte privilegiato rispetto alla dimensione dell’essere…
Ma anche interamente false perché la borghesia ci ha liberato con un processo ‘rivoluzionario’ (secondo il riconoscimento degli stessi Marx ed Engels) dal peggio del feudalesimo medievale prima, dalla cappa dell’assolutismo monarchico e del connubio fra il trono e l’altare dopo; ha “illuminato” le tenebre del tradizionalismo e del conformismo stimolando nelle chiese cristiane l’emancipazione dagli assetti fondamentalistici e assicurando ai cristiani stessi “i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino” (rivendicati al cospetto delle istituzioni ecclesiastiche prima ancora che delle organizzazioni ostili). Allora il messaggio cristiano, ‘inculturato’ nell’ebraismo e nell’ellenismo dei primi secoli, poi via via nelle civiltà occidentali succedutesi nei due millenni, non è “antitetico” a nessuna “categoria” sociale: da tutte ha ricevuto e riceve come a tutte ha trasmesso e trasmette idee, modelli di comportamenti, precetti, divieti, itinerari individuali e collettivi. Per un verso, dunque, Turoldo ha ragione: il cristianesimo non deve rinunziare a “turbare” gli equilibri via via attuati nei diversi sistemi socio-economici, la funzione critico-profetica gli è essenziale dal momento che non ci sono (almeno sino ad oggi) sistemi socio-economici perfettamente compatibili con esso. Tuttavia bisogna stare attenti a non demonizzare un assetto socio-economico rischiando di far supporre che altri assetti siano certamente meno perversi, inumani. Per restare nell’esempio: delle conquiste intellettuali e tecnologiche della borghesia hanno beneficiato non sono solo i borghesi, ma l’intera società umana (cristiani per primi), comprese le classi indigenti. Così come gli errori prospettici e interpretativi della borghesia hanno contaminato l’intera società umana (cristiani per primi), comprese le classi indigenti: lo ‘spirito’ borghese è riuscito a mutilare le splendide risorse antropologiche dei ricchi, dei poveri e dei ceti medi (e di quanti, nelle organizzazioni sindacali e partitiche di ‘sinistra’, si sono proclamati dalla parte degli sfruttati). Se avessimo saputo criticare il capitalismo reale senza lasciar supporre – a ragione o a torto – una certa indulgenza verso il socialismo reale, forse oggi non ci troveremmo nel deserto motivazionale di generazioni rassegnate alla propria disperazione: ma un riformismo social-liberale rigoroso, testardo, costante e coerente ha maestri, profeti e pionieri?
Anche a proposito di questa tematica, come di molte altre, risulterebbero dunque appropriate osservazioni come queste rivolte a p. Davide da suoi amici sinceri come il milanese Giuseppe Ricca: “Noi abbiamo bisogno di te, ma tu ora hai bisogno di fermarti, e di studiare, e di meditare, e di pregare; e di non disperderti. Alcune tue esasperazioni, alcune tue impazienze sono sbagliate e non sono ministero: sono temperamento” .
L’invito a “fermarsi”, “studiare”, “meditare”, “pregare” - al di là delle intenzioni del mittente e del contesto preciso in cui è stato rivolto – avrebbe potuto aiutare Turoldo ad orientarsi meglio in un’altra tematica, più congeniale alla sua ‘vocazione’ di intellettuale e di pastore. Mi riferisco al vasto e delicato ambito della riflessione teologica, nel quale ho maturato l’ipotesi che la sua consapevolezza sia stata insufficientemente spregiudicata. Turoldo – a somiglianza di alcuni suoi amici (Barsotti in primis) e a differenza di altri compagni di strada altrettanto vicini (Balducci in primis) – non ha mostrato l’adeguata consapevolezza che, nel XX secolo, il cristianesimo fosse stato posto dinanzi al drastico bivio di cambiare radicalmente o morire. Gli studi biblici, infatti, hanno minato alle basi la dogmatica (e conseguentemente la liturgia, la morale e la spiritualità) strutturatasi dal IV al XIX secolo: dalla divinità in senso ontologico e unico di Gesù alla dottrina della Trinità, dall’interpretazione storico-letterale del peccato ‘originale’ alla teoria della sofferenza riparatrice sino alle credenze sul destino ultra-mondano delle ‘anime’… Chi ha capito e accettato questo mutamento epocale di ‘paradigma’, è uscito (almeno interiormente) dall’appartenenza ecclesiale; chi non l’ha capito o, avendolo capito, non l’ha accettato, ha dovuto per così dire alzare la voce al fine di coprire i dubbi sempre più prepotenti e invasivi, dentro di sé prima ancora che negli animi degli interlocutori. Da questa angolazione specifica ho trovato perfetto, illuminante, l’appellativo che alcuni confratelli più giovani avevano coniato per lui (e per il suo inseparabile Camillo De Piaz): “rivoluzionario tradizionalista”.
I tanti episodi significativi e le tante citazioni suggestive che questa bella e completa monografia della Maraviglia riporta mi hanno richiamato alla memoria un incontro nello studio del padre gesuita Bartolomeo Sorge, presso l’Istituto “Pedro Arrupe” di Palermo, in preparazione di un ‘triduo’ di conferenze che avremmo dovuto tenere a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) lui, un missionario ed io (nella qualità di ‘fedele-laico’). Al momento di dare un titolo complessivo alla ‘missione’, il più giovane e fervente di noi tre propose: “Cristo, la risposta alle domande dell’uomo!”. Eravamo a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso: provai un senso indistinto di perplessità ma non osai obiettare nulla. Fu invece l’ormai anziano gesuita ad osservare con un sorrisetto tra l’ironico e il mesto: “Lo slogan è roboante, ma potrebbe promettere troppo. Perché non scriviamo: «Cristo, una risposta ad alcune domande dell’uomo»?”. Cominciai a capire che il mondo teologico in cui mi ero sino a quel momento aggirato (una visione dell’universo cristocentrica ed ecclesiocentrica) era crollato e che mi attendeva un esodo lacerante verso la liberazione dalla confortevole prigionia del passato: avrei attraversato il deserto privo delle certezze garantite dall’autorivelazione di Dio stesso, non più proclamando con toni decisi annunzi strabilianti, bensì suggerendo sommessamente ipotesi sottoposte a continua verifica. Forse – e sottolineo il forse – padre Davide, a differenza di altri coetanei come dom Giovanni Franzoni (di soli due anni più giovane), non ha misurato sino in fondo il terremoto avvenuto o si è illuso di poterlo attraversare e superare affidandosi alla potenza del suo sentimento lirico e del suo afflato mistico (come si può dire di altre figure di rilievo quali Carlo Carretto o Adriana Zarri).
Comunque siano andate le cose, mi viene spontaneo interpretare le riserve e le perplessità (ora acide e polemiche, ora preoccupate e affettuose) di cui il frate friulano è stato destinatario, anche come sollecitazione a curare con più attenzione la differenza dei canali comunicativi. Infatti, in aggiunta alla necessità che ci accomuna tutti di calibrare e precisare continuamente i nostri giudizi sul reale, ci corre obbligo di rispettare la tipicità dei vari registri comunicativi: parlare non è scrivere; parlare o scrivere in pubblico non è parlare o scrivere in privato; parlare o scrivere da docenti non è parlare o scrivere da pastori…Chi ha il dono di sapersi esprimere un po’ su tutti i livelli della gamma variegata, non può sottrarsi alla cura di modulare il proprio pensiero rispettando i canoni e le peculiarità di ciascuno di essi: ciò che si può perdonare al poeta o al profeta (anzi, che si può ammirare in loro) non sempre è accettabile in chi si esprime da teologo o da pastore.
In più di un caso, comunque, Turoldo ha saputo donare in versi delle intuizioni folgoranti, a mio parere condivisibili anche su registri linguistici diversi dal poetico. Così, dovendo chiudere uno scritto in cui avevo provato a sintetizzare l’eredità più preziosa dei filosofi frequentati nei primi sessantacinque anni di vita, non ho trovato di meglio che ricorrere ad alcune righe di David Maria Turoldo:
Fratello ateo, nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio
che io non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo oltre
la foresta delle fedi
liberi e nudi verso
il nudo Essere
e là
dove la Parola muore
abbia fine il nostro cammino.
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https://www.iltettorivista.it/articoli/227-augusto-cavadi-davide-turoldo-a-trent-anni-dalla-morte
E’ quanto documenta, esaminando punto per punto il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992, p. Ortensio da Spinetoli nel suo Bibbia e catechismo. Il credo, i sacramenti, i comandamenti (Paideia, Brescia 1999), sul quale cfr. la mia lunga recensione Quale catechesi giovanile da parte delle Chiese cristiane? in “Dialoghi mediterranei”, 1.1.2021. Purtroppo pochissimi altri studiosi hanno la stessa franchezza nel dire come stanno le cose, senza giri di parole né altre astuzie verbali: tra questi - oltre J. S. Spong prima citato - Raimundo Panikkar, Eugen Drewermann, Roger Lenaers, Franco Barbero.