Cara Elena,
caro Edoardo,
la vostra professoressa mi ha chiesto una pagina per riflettere insieme sulla tragedia che – oggi come ieri, forse più di ieri – è la matrice di tutte le tragedie dell’umanità: l’indifferenza. Ecco la ragione di questa breve lettera alla quale, spero, dedicherete, prima di cestinarla, qualche minuto di attenzione.
Alla vostra età la vita mi appariva bella. Solo bella. Come un grande buffet apparecchiato di ogni pietanza: avevo solo l’imbarazzo della scelta di cosa mangiare dapprima. Poi, crescendo, ho imparato che nella vita ci sono sì tante rose da poter cogliere, ma altrettante spine. La vita è bella, ma anche zeppa di cose brutte.
Contro alcuni mali della vita possiamo fare poco, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze scientifiche: non possiamo evitare che un bambino si ammali di cancro né l’eruzione improvvisa di un vulcano.
Contro altri mali, invece, possiamo fare molto: sono i mali che non provengono dal travaglio evolutivo della natura, ma dalle scelte di noi esseri umani. Sono i mali di cui siamo responsabili.
Quando diciamo ‘noi’ intendiamo sia ciascuno di noi da solo (uno per uno) sia la nostra società(nel suo insieme).
Accorgerci dei mali che ciascuno di noi provoca personalmente – accorgercene e provare a rimediarvi – è abbastanza facile. Basta dedicare ogni sera dieci minuti alla riflessione silenziosa su come è andata la giornata, su cosa abbiamo fatto bene e in cosa abbiamo sbagliato; su cosa possiamo fare il giorno dopo per riparare gli errori eventualmente commessi. Sono stato sgarbato con una compagna di classe? Ho preso in giro un anziano barbone un po’ brillo? Ho tradito la fiducia di un genitore raccontandogli frottole e spingendolo a dubitare in futuro dei miei racconti?
Più difficile è accorgerci dei mali che provochiamo non come individui, ma come società. Sin da bambini ci abituiamo ad accettare certe usanze tradizionali come ovvie e, ammesso che intuiamo che si tratta di usanze perverse, ci convinciamo che siano inevitabili. Immodificabili. Se fossimo nati in India durante la dominazione della Gran Bretagna o negli Stati Uniti d’America durante il razzismo, avremmo pensato che non ci fosse nulla da fare. Avremmo, molto probabilmente, accettato come ineluttabile la situazione. E le cose non sarebbero cambiate se alcuni leader (come Gandhi in India o Martin Luther King negli Stati Uniti d’America) non avessero organizzato e guidato movimenti popolari di liberazione. Così è stato in Italia durante il fascismo nella prima metà del Novecento: la maggioranza degli italiani ha accettato passivamente che Mussolini togliesse, uno dopo l’altro, i principali diritti politici e civili a varie categorie di persone (gli oppositori politici, le donne, gli omosessuali, gli ebrei…) e, infine, a tutti i cittadini e a tutte le cittadine. Solo quando degli italiani e delle italiane particolarmente coraggiosi e coraggiose si sono organizzate in squadre di “partigiani” è iniziata la “Resistenza” contro il regime fascista e la liberazione dell’Italia dall’invasione nazista.
Ciò che è accaduto tante volte nella storia sotto le dittature è ben espresso in questo testo – riferito al periodo nazifascista - che alcuni attribuiscono al poeta e drammaturgo tedesco Bertolt Brecht:
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
Anche oggi, per la verità, noi italiani assistiamo a tanti drammi della storia di fronte a cui ci sentiamo impotenti. Uno per tutti: i flussi migratori dall’Asia e dall’Africa. Centinaia di migliaia di persone – uomini, donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine– fuggono per terra e per mare da territori devastati dalle guerre civili, dalle epidemie, dalle carestie, dall’impossibilità di svolgere lavori minimamente dignitosi e minimamente remunerati…Fuggono e spesso muoiono annegati nel Mediterraneo o di freddo e stenti per le montagne dell’Europa continentale. E se arrivano trovano muri, fili spinati, centri di ‘accoglienza’ che sono più simili a grandi prigioni a cielo aperto.
Di fronte a queste tragedie enormi, davvero non possiamo nulla?
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