“Viottoli”2022 / 2
L’EREDITA’ DI UN CAPPUCCINO UN PO’…ORIGINALE
Ogni tanto mi capita di essere invitato a tratteggiare, in incontri pubblici, la figura e l’opera di Ortensio da Spinetoli ( 1925 – 2015). Lo faccio volentieri anche senza vantarmi - come si è tentati di fare con personaggi illustri che ormai non possono più smentirci – di essere stato un suo amico in senso proprio. Ci siamo stimati e voluti bene: ho in libreria molti suoi libri che mi inviava in dono come io gli inviavo, volentieri, i miei. Molti anni fa lo intervistai per una rivista della mia città e, successivamente, volli riportare quel nostro colloquio in una raccolta di dialoghi (Gente bella. Volti e storie da non dimenticare) edita nel 2004 dall’editrice trapanese “Il pozzo di Giacobbe”. Tuttavia al nostro rapporto è mancato un fattore importante dell’amicizia: la consuetudine di vita.
La ragione principale di tale limitata frequentazione è stata la distanza geografica: Recanati e Palermo non stanno certo a un tiro di schioppo ! Inoltre, egli non aveva un gruppo, una comunità, a cui invitarmi per qualche incontro pubblico; ed io, che invece ho un giro di amici interessati a conoscere personaggi interessanti, gli preferivo colleghi con un eloquio più nitido. Già, questo limite della sua persona è evidente anche nei pochi filmati reperibili su internet: parlava velocemente e non scandiva bene i vocaboli decisivi. Ciò lo rendeva più adatto al dialogo con pochi intimi che alla conferenza affollata. Come scrittore era invece molto più efficace: i suoi scritti non hanno certo perduto di attualità né di incisività.
Il filo rosso della sua vita intellettuale
E’ proprio seguendo la successione dei suoi testi che possiamo ricostruire l’evoluzione del suo pensiero che, come in tutti i pensatori autentici, è inscindibilmente l’evoluzione della sua esistenza, del suo modo di stare al mondo. Pur nella varietà dei temi trattati, i suoi scritti sono come perle infilzate da un unico filo rosso: lo studio delle Scritture. Ortensio si è occupato di molte tematiche – cristologia, mariologia, ecclesiologia, morale…- ma sempre da un punto di vista privilegiato, unitario: dall’angolazione del biblista.
Questa linea di continuità non si può considerare una sua prerogativa esclusiva: di ogni biblista si può affermare che tende ad affrontare i grandi interrogativi della vita dal punto di vista della sua specializzazione disciplinare. Ma non di ogni biblista si può affermare che lo faccia con altrettanta libertà intellettuale. Poiché, a mio sommesso parere, è questa testimonianza di libertà rivoluzionaria la sua più preziosa eredità, vorrei soffermarmici un poco.
Uno dei vescovi italiani oggi più noti, quando era solo un parroco di provincia, mi spiegò che nella Chiesa cattolica (erano i tempi di Giovanni Paolo II) la libertà concessa ai teologi avesse la forma di un imbuto: larghissima per i biblisti, più stretta per i ‘dogmatici’ (o sistematici), strettissima (quasi nulla) per i moralisti. I biblisti ne hanno certamente, e lodevolmente, approfittato, ma senza mettere in discussione alcuni presupposti: per esempio che la Bibbia sia parola di Dio, parola divina rivelata miracolosamente ad alcuni agiografi. (Con questa cautela sui fondamenti, alcuni di loro hanno potuto ascendere per le varie tappe del cursus honorum, sino alle soglie della cattedra episcopale di Roma). Ortensio ha avuto il coraggio, assai raro, di interrogarsi intorno al ramo su cui era appollaiato, ben sapendo che rischiava – tagliandolo – di cadere giù e di dover trovare altre basi. E, interrogandosi, è passato dalla tesi che la Bibbia fosse “parola di Dio” alla tesi che fosse “parola di uomini”: le Scritture come un veicolo imperfetto, caduco, attraverso il quale arriva un messaggio prezioso di origine divina in senso ampio, lato, come possiamo affermarlo per tutti i grandi messaggi sapienziali dell’umanità (dalla mitologia babilonese alla filosofia greca, dal buddhismo a Leopardi). E’ stato un atto di detronizzazione epistemologica motivato da nessun altro interesse che la fedeltà alla verità. In un libro, significativamente intitolato Bibbia parola di uomo (La Meridiana, Molfetta 2009), scrive:
«si può sempre continuare a ripetere, nel corso della liturgia, al termine
di una lettura biblica, ‘parola di Dio’, ma sapendo che si tratta di un’affermazione
impropria e persino indebita. L’aver identificato la ‘parola di Dio’ semplicemente
con la Bibbia ebraica o cristiana è stato causa di molteplici fraintendimenti, tutti
a discapito della santità, bontà, sapienza divina. […] Occorre certo essere sempre
pronti ad accogliere eventuali messaggi del cielo, ma non è richiesto di farsi
confondere dalle chiacchiere del primo o dell’ultimo ciarlatano che può ritrovarsi
nascosto nelle pagine della Bibbia, Nuovo Testamento compreso».
Il magistero “sotto” le Scritture
Un secondo sintomo della straordinaria libertà intellettuale di Ortensio, rispetto ad altri pur esperti biblisti, riguarda il nesso fra esegesi biblica e dottrina teologica. Prima del Concilio Vaticano II la Bibbia era come una miniera cui attingere per cercare citazioni – più o meno correttamente interpretate – che potessero suffragare le formulazioni dogmatiche ecclesiastiche. Il Vaticano II invertì la sequenza logica: la Bibbia va studiata non per suffragare i dogmi, ma per capire bene che cosa essa sostiene davvero (indipendentemente dall’uso apologetico rispetto ai pronunciamenti del magistero). Con questo metodo, però, ci si accorse che Bibbia e Magistero scorrono su binari paralleli: la Bibbia, scientificamente studiata, non legittima la stragrande maggioranza dei dogmi. Né quelli in un certo senso ‘periferici’ (per riprendere una proposta di distinzione rahneriana) come, per limitarci a un esempio, la verginità della Madonna “prima, durante e dopo il parto” (infatti quando Isaia preannunzia: “Una vergine darà alla luce un figlio e sarà chiamato l’Emanuele”, il termine ‘vergine’ significa molto semplicemente una ragazza in età da marito) né in quelli in un certo senso ‘centrali’ (come il dogma del peccato originale che non è insegnato nella Bibbia, ma inventato dal IV secolo in poi). La maggior parte dei biblisti si è adagiato su questa duplicità di binari paralleli: noi vi diciamo cosa insegna davvero la Bibbia, poi voi teologi ‘dogmatici’ discuterete con il papa e con i vescovi su che cosa insegnare ai fedeli. Ortensio non si è accontentato di questa divisione del lavoro (che era comunque un passo avanti rispetto alla consuetudine tridentina): ha preso sul serio il criterio – enunciato da alcuni teologi conciliari, fra cui il giovane Ratzinger – secondo cui anche il magistero deve considerarsi sottoposto alle Scritture. Cade la dottrina delle due fonti della Rivelazione (la Bibbia e la Tradizione): esiste una sola fonte - l’insegnamento biblico autentico – che giunge a noi attraverso una Tradizione da verificare, emendare, purificare continuamente con l’approfondimento spirituale e la ricerca intellettuale sempre più raffinata. La distanza fra cattolici e protestanti si accorcia straordinariamente, ma così uno dei dogmi più recenti (l’infallibilità papale del 1870) rischia di andare a gambe in aria: per dirla con Luigi Lombardi Vallauri, si scopre che i papi sono stati infallibili nell’…errare, nel senso che ogni volta che si sono espressi in maniera solenne hanno quasi infallibilmente sbagliato.
Ortensio avrebbe potuto limitarsi ad affermare il primato della Bibbia (sia pur scremata dalle inaccettabili incrostazioni culturali dei sei o sette secoli in cui è stata redatta) senza esplicitare le conseguenze dello studio esegetico ‘scientifico’ sulla storia della dogmatica ecclesiale (non solo cattolica): ciò gli avrebbe consentito di vivere tranquillo all’interno del suo ordine religioso – i Frati Cappuccini – e, probabilmente, come altri biblisti del suo livello, di diventare vescovo o cardinale. Invece ha voluto percorrere la parabola sino alla fine, spiegando puntualmente perché la Bibbia non può essere invocata come base della catechesi ‘ufficiale’ se non a prezzo di gravi forzature. E ha testimoniato tanta parresìa disposto a pagarne le conseguenze, in spirito di povertà evangelica, con l’esclusione dalle cattedre universitarie e l’emarginazione dai circoli cattolici più potenti e più danarosi. Con sincera umiltà ripeteva – secondo la testimonianza di Gianfranco Cortinovis, la persona cui ha affidato la cura anche postuma delle sue opere – che le sue idee più innovative non erano frutto del suo sacco: le trovava nei volumi dell’Istituto Biblico di Roma - in tedesco, francese, inglese… - che pochi leggevano e che, comunque, si guardavano bene dal divulgare oltre la cerchia ristretta degli specialisti. Inoltre aggiungeva che, per quanto molte sue tesi risultassero pericolosamente ‘progressiste’, presto sarebbero state metabolizzate dalla cultura cattolica ‘ufficiale’. Così che egli stesso – nei decenni futuri - sarebbe stato annoverato fra i ‘conservatori’ considerati irrimediabilmente superati.
L’apertura di nuovi orizzonti entusiasmanti
Sino a dove può arrivare la sfrontatezza di un biblista nel contestare la dogmatica tradizionale in nome dell’esegesi bilica più accurata? Per rispondere basterebbe sfogliare uno dei libri a mio avviso cruciali dell’eredità ortensiana, Bibbia e catechismo. Il credo, i sacramenti, i comandamenti (edito dalla Paideia nel 1999) in cui egli passa al vaglio critico l’intero Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 mettendo, spietatamente, in evidenza le discrepanze fra messaggio biblico e insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica. Non riprendo i contenuti del volume, di cui ho dato un dettagliato resoconto in un articolo (facilmente e gratuitamente rintracciabile in rete) del bimestrale “Dialoghi mediterranei” (n. 47 del 1 gennaio 2021). Preferisco limitarmi a evocare alcuni passaggi che esemplificano, in maniera convincente, come un approccio intellettualmente più libero alle Scritture ebraiche e cristiane risulti spiritualmente più liberante per i credenti in senso adulto, maturo: come, insomma, a ogni picconata contro il ‘vecchio’ edificio corrisponda l’apertura di ‘nuovi’ , entusiasmanti, orizzonti (che non di rado coincidono con gli stessi orizzonti biblici originari, ormai seppelliti da secoli di superfetazioni teologiche).
* La profezia come potenzialità universale:
«i profeti s’incontrano nella storia di tutti i popoli e hanno tutti pari diritto di ascolto.
Se per i cristiani il profeta è Gesù di Nazaret, ciò non può impedire che nel corso dei
secoli, nell’immensa latitudine e longitudine del globo, non siano sorti e non sorgano
altri portaparola dell’Altissimo per i popoli e gli uomini che vivono loro accanto.
Iddio, se esiste, è sempre al di sopra dei settarismi dei suoi reali o sedicenti fiduciari.
Perché è Dio e non un uomo, egli dona tutto a tutti e a nessuno nega i suoi favori.
I cristiani pensano di avere un rapporto privilegiato con Dio, ma più verosimilmente
è un’illusione».
* Il paradiso terrestre come progetto:
«La Bibbia offre una versione incantevole dello stato originario dell’uomo. Uscito
dalle mani di Dio egli è libero, onnisciente, saggio, equilibrato, impassibile, immortale,
ma la visione che la paleontologia offre dello stato primordiale è ben diversa. La storia
umana si confonde alle origini con quella dei bruti; l’uomo è semiselvaggio come la terra
che lo ospita; ignora l’arte del vivere, il linguaggio, le altre agevolazioni che riuscirà
pian piano e faticosamente a scoprire. Per la scienza i “progenitori” o i primi uomini sono
da cercare tra il pitecantropo, il sinantropo o il neanderthalense. Per qualsiasi esemplare
si opti si è ben lontani dall’Adamo biblico. Questi infatti non è l’uomo quando esce dalle
mani di Dio, ma come il creatore vuole che egli in definitiva sia, ovvero diventi».
* Gesù di Nazaret “figlio di Dio” in quanto sua icona: Gesù è “figlio di Dio” non in senso ‘ontologico’ ma in senso ‘funzionale’;
«più che nel piano dell’essere è tale nell’operare (Gv. 10, 32)».
A lui, infatti, spetta questo titolo onorifico (diffuso nella tradizione biblica per indicare la tensione di profeti o di sovrani o – nei periodi più felici – dell’intero popolo ebraico ad operare in sintonia con i voleri divini) in quanto
«colui che meglio di ogni altro ha espresso davanti agli uomini
la sua carità, la comprensione, la misericordia verso i bisognosi,
gli afflitti, i poveri, i malati, gli oppressi».
· La ‘fede’ come ortoprassi: dalla identità di Gesù detto il Cristo di Dio – dunque il Consacrato, il Servo, l’Inviato di Dio – consegue che la fede in lui non è
«una adesione ad un sistema dottrinale o l’accettazione di particolari formule teologiche, bensì un modo pratico di comportarsi che ricalchi il suo. Gesù non è un maestro di pensiero, ma di vita. I veri cristiani, ossia i veri credenti, non sono quelli che parlano come Cristo, ma che sono impegnati a vivere come lui».
Un’ osservazione ‘critica’
Come tutte persone sagge, Ortensio sorriderebbe all’idea che si possano evocare la sua persona, la sua testimonianza e i suoi insegnamenti con una devozione totale, senza neppure qualche riserva. Personalmente sono stato colpito da espressioni come:
«si crede […] persino contro la ragionevolezza umana».
Forse le frequenti dichiarazioni di sfiducia nelle potenzialità razionali dell’essere umano, quando esse affrontano le grandi domande della vita come la domanda su Dio, sono un’eco in Ortensio dei testi di matrice ‘protestante’ (più liberi nella ricerca biblica e dunque anche più avanzati), da Lutero a Kierkegaard e Barth diffidenti verso la dimensione filosofica (da loro tendenzialmente identificata con la Scolastica aristotelica). Ma è anche possibile interpretare queste espressioni di Ortensio in maniera accettabile anche da quanti – come me – ritengono ancora irrinunciabile il vaglio della ragion metafisica, pur nella consapevolezza che la fede (soprattutto se intesa non come accettazione di enunciati soprannaturali, ma come affidamento al Mistero Tutto-abbracciante e pro-attività solidale nei confronti dei viventi) sia comunque un andare “oltre” la mera razionalità. Può darsi, infatti, che Ortensio si riferisse con “ragionevolezza” a ciò che – statisticamente – viene ritenuto “ragionevole”: il “buon senso” moderato piccolo-borghese. Rispetto a questo modo cauto, timoroso, un po’ tirchio di concepire e di vivere l’esistenza, la ‘fede’ _ come l’eros, la passione artistica, la dedizione agapica - ha sempre qualcosa di folle. Di divinamente folle.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com