E' scaricabile on line, gratuitamente, il nuovo numero del bimestrale "Dialoghi mediterranei" dell'Istituto euro-arabo di Mazara del Vallo.
Qui di seguito il mio contributo sull'ultimo libro dell'astrofisico Guido Tonelli.
1.1.2022
GENESI DELLL’UNIVERSO SECONDO L’ASTROFISICA CONTEMPORANEA
Secondo il racconto biblico, Dio ha plasmato il cielo e la terra in sei giorni. Per secoli non pochi esponenti delle religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) hanno inteso la narrazione come un resoconto scientifico veridico. Quando gli studi astronomici e geologici hanno dimostrato inconfutabilmente che tale interpretazione letterale era insostenibile, alcuni autori hanno tentato un’ultima resistenza ripiegando dal ‘letteralismo’ al ‘concordismo’: i sei giorni non andavano intesi come sei cicli di 24 ore ciascuno, ma come sei epoche. Neppure questa scappatoia ha però retto allo sviluppo incredibile delle scienze fisiche, in generale, e astrofisiche in particolare. Insomma, aveva ragione Galileo Galilei: la Bibbia non intende dirci come si è costituito il ‘cielo’ materiale, ma come si possa andare al ‘cielo’ in senso metaforico, figurato, spirituale.
Il libro molto istruttivo di Guido Tonelli, Genesi. Il grande racconto delle origini (Feltrinelli, Milano 2019), non intende riesumare nessun ‘fondamentalismo’ biblico; se mai tentare un’operazione inversa: raccontare come, secondo le scienze contemporanee, è nato e si è sviluppato l’universo utilizzando i sei giorni del Primo Testamento come artificio letterario. Insomma: veicolare contenuti empirici e logici servendosi di schemi mitici. Perché mai? Perché Tonelli è convinto che, se si vogliono diffondere le scoperte scientifiche nell’opinione comune, non si può usare solo il linguaggio astratto – dunque preciso, ma freddo – delle scienze esatte: bisogna ricorrere anche a linguaggi più immaginifici. L’immaginario collettivo è colonizzato dalla visione geocentrica dell’universo, anche grazie a capolavori poetici come la Commedia di Dante; le opere filosofico-letterarie di Giordano Bruno e soprattutto la letteratura e la filmografia fantascientifiche hanno in parte abbattuto le pareti dell’antropocentrismo; ma ancora manca una proposta artistica proporzionata all’immensità che da alcuni decenni sappiamo caratterizzare l’universo (o il pluriverso). L’operazione dello scienziato Tonelli è analoga a quella di pensatori come Platone che si sono serviti di miti pre-esistenti e ne hanno inventato di nuovi per poter parlare dell’indicibile o per poter parlare del dicibile anche a un pubblico di non iniziati.
E ripercorriamo, a volo di uccello, questi sette ‘giorni’ genesiaci secondo l’astrofisica contemporanea.
Il primo giorno in realtà dura 10 alla meno 35 secondi, “un intervallo di tempo talmente insignificante che non riusciamo neanche a pensarlo”, nel quale una “minuscola bollicina” (p. 55), del tutto simile alle altre che si formano e si disperdono nel Vuoto cosmico, investita dalla “irruzione di un soffio inarrestabile” (pp. 55 – 56), “si gonfia in maniera parossistica”. “Poi, di colpo, tutto si calma e la strana cosa che sembra avere ormai una vita propria continua a espandersi, seppure a un ritmo immensamente ridotto. Abbiamo assistito alla nascita di un universo, il nostro. Termina il primo giorno, ed è nato un universo che contiene già tutto quello di cui avrà bisogno per evolvere nei 13,8 miliardi di anni successivi” (p. 56).
Nel secondo giorno (“un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang”) “la temperatura si abbassa al di sotto di una certa soglia” e “i bosoni di Higgs, che fino a un attimo prima scorrazzavano liberi, congelano e si cristallizzano”: danno luogo a un “campo a essi associato” che “acquista un valore specifico”. “Molte particelle elementari, attraversandolo, subiscono una forte interazione e la loro velocità diminuisce, cioè acquistano una massa” (p. 76): questo “tocco delicato” ha “cambiato le cose, per sempre” (p. 77). “Quell’oggetto infinitesimo, miliardi di volte più piccolo di un protone, subisce una crescita esponenziale che segue un ritmo furibondo da far scomparire il più frenetico dei crescendo rossiniani. In un battibaleno diventa un oggetto macroscopico. Quando esce da questa fase parossistica ha dimensioni paragonabili a quelle di un pallone da calcio e contiene già tutta la materia e l’energia di cui avrà bisogno per evolvere nei miliardi di anni a venire” (p. 61). E’ la così detta “inflazione cosmica”, dal “latino inflare, gonfiare” (p. 62). Non è trascorso molto tempo dal giorno precedente: “sono passati solo 10 alla meno 11 secondi” (p. 77).
Nei tre minuti successivi (il terzo giorno) i quark (che sono le particelle di materia più elementari sinora ipotizzate) si aggregano formando neutroni e protoni; a loro volta, “quando un protone si fonde con un neutrone, diventa un nucleo di deuterio; se due nuclei di deuterio si fondono tra loro, nascono i primi nuclei di elio”, e costituiscono “i nuclei fondamentali dell’universo” (p. 117). “Ci vorrà molto tempo prima che l’energia cali abbastanza da permettere la formazione dei primi atomi di idrogeno” (pp. 117 – 118), ma il processo aggregativo è già partito.
“Dopo il periodo di pochi minuti in cui si formano i nuclei, per migliaia di anni non succede nulla di rilevante”. Ma nel corso del quarto giorno (che dura circa 380.000 anni) l’universo si espande e si raffredda: da “oggetto enorme, caldissimo e buio”, grazie ai “fotoni” “diventa di colpo trasparente e un immenso bagliore lo attraversa” (p. 121). Tanta luminosità non è però sufficiente a illuminare l’intero universo: in esso è presente sino ad oggi “una grossa componente di materia oscura” (come la chiamò nel 1933 l’astrofisico svizzero Fritz Zwicky) (p. 122) che, secondo i calcoli dell’astronoma statunitense Vera Rubin, dovrebbe “essere almeno cinque volte più abbondante di quella luminosa” (p. 124)[1]. Nell’universo raffreddato gli elettroni potranno “legarsi stabilmente ai protoni e nasceranno i primi atomi, soprattutto idrogeno ed elio, poi litio, berillio e qualche altro componente leggero” (p. 127). La “immensa e rarefatta nuvola di idrogeno e di elio occuperà l’universo intero e sarà la sua evoluzione a determinare il senso della storia. [ …] La nuova epoca porterà alla formazione di galassie, stelle e pianeti fino allo sviluppo di forme materiali complesse che saranno gli organismi viventi” (p. 128).
La costituzione delle prime stelle avviene molto lentamente (“duecento milioni di anni” dopo il Big Bang) nel corso della “quinta giornata” (p. 138). E’ un mondo – questo delle stelle – molto differente da come appaia a occhio nudo. Intanto, grazie alla “sua apparente persistenza e immutabilità”, sembra rassicurarci, proteggendoci “dalla paura dei cambiamenti e delle catastrofi”. Invece, se “si indaga nei meccanismi che agitano gli strati più interni di questi astri meravigliosi, siamo al cospetto di processi materiali di una violenza spropositata ed è difficile trovare sistemi più instabili e turbolenti”. Inoltre le stelle appaiono piccoli lumini e perfino il nostro Sole (“erede di una lunga catena di generazioni di stelle primordiali”, p. 143), che pur ci incute una certa reverenza, tendiamo a vederlo come un disco rosso che occupa una zona limitata dell’orizzonte all’alba e al tramonto. In realtà, il suo “raggio è cento volte maggiore di quello della Terra che, al confronto, diventa un puntino insignificante” e, nonostante ciò, è “una nana gialla, una stella di grandezza medio-piccola, una delle tante che abbondano nella nostra galassia. Nulla a che vedere con i giganti della categoria, come la stella maggiore del sistema di Eta Carinae, un mostro che ha una massa quasi cento volte superiore quella del Sole” (p. 139).
All’interno delle megastelle i processi nucleari portano alla formazione di elementi via via più pesanti (“carbonio, azoto, ossigeno e tutto il resto degli elementi sino al ferro”): “al termine del loro ciclo vitale, la struttura delle grandi stelle fu squarciata da titaniche esplosioni, che distribuirono tutto nello spazio circostante. Dopo numerosi cicli, da queste polveri stellari ricche di elementi pesanti, compresi molti metalli, nacquero alte stelle e altri pianeti, come il Sole e la nostra Terra” (p. 147). “Tutti i nuclei che compongono il nostro corpo – il calcio delle ossa, l’ossigeno dell’acqua, il ferro dell’emoglobina – hanno attraversato questo passato burrascoso e terribile. Ora gli atomi che hanno formato si sottomettono docilmente alle reazioni chimiche e biologiche che garantiscono la nostra esistenza. Se solo potessero raccontarci qualche storia della loro infanzia così avventurosa…o magari l’incubo di quella nascita così traumatica: prima prodotti nelle condizioni estreme di temperatura e pressione del cuore di una stella, poi scaraventati a velocità mostruose nel vuoto più assoluto, per miliardi di anni, in attesa che si crei una nuova aggregazione” (p. 148).
Il “sesto giorno” (p. 159) è ancora più lungo del quinto: perdura infatti per miliardi, non più per milioni, di anni. Più precisamente, “più di nove miliardi di anni” , nel corso dei quali “l’universo è ormai popolato da una miriade di galassie” (“alimentate da giganteschi buchi neri”) (p. 177): “le stime più recenti parlano di oltre duecento miliardi di galassie” (p. 163).
“Quando inizia l’ultima giornata, la settima”, in un angolo marginale dell’universo si forma “un grande disco di gas e polvere che ruota attorno al centro, dove si addensa il grosso della massa, soprattutto idrogeno”. “Una porzione della grande nube collassa sotto la forza della propria gravità e forma una nebulosa solare al cui centro sta nascendo una stella” (p, 180): questa stella sarà il Sole, attorno al quale si formeranno, prima, “i grandi pianeti gassosi” e, poi, “quelli rocciosi”. Tra questi ultimi uno (la Terra) “sarà particolarmente fortunato. La collisione catastrofica con un altro pianeta in formazione, anziché devastarlo per sempre e ridurlo in mille frammenti, gli regalerà un grande satellite” (la Luna), che “contribuirà a stabilizzargli l’orbita nei miliardi di anni a venire. Sarà investito, come gli altri, da una pioggia di comete e meteoriti che lo arricchiranno di elementi importanti e tutto questo, assieme all’attività vulcanica che lo accompagnerà, giocherà un ruolo decisivo per gli sviluppi successivi. [ …] Orbiterà abbastanza vicino al Sole da riceverne energia sufficiente per uscire dal freddo cosmico che lo circonda, ma non troppo da essere investito da un calore incompatibile con molte reazioni chimiche. L’acqua, di cui in gran parte si coprirà, potrà rimanere allo stato liquido per miliardi di anni, e proprio nelle sue profondità nasceranno forme chimiche molto particolari. Strutture semplici ma dotate di un’attrezzatura geniale, che potenzia le capacità di adattamento e sviluppo: […] sono le prime forme di vita, che possono evolversi e riprodursi rispondendo alle condizioni dell’ambiente” (p. 181). “L’organizzazione del vivente offre tali vantaggi che darà origine allo sviluppo delle forme sempre più complicate, dagli organismi unicellulari a piante e animali, compresi noi. Siamo quasi alla fine della storia quando, in alcune strane scimmie antropomorfe, con forti relazioni sociali, la selezione naturale svilupperà un nuovo strumento che fornirà loro un ulteriore vantaggio evolutivo: la capacità di immaginare, avere una visione del mondo e una qualche forma di coscienza di sé. […] Termina la settima giornata e la genesi finisce quando sono passati 13,8 miliardi di anni” (p. 182).
La storia dell’umanità non ha una data d’inizio certa. Circa un milione di anni fa, in Africa, vi sarebbe la comparsa dell’Homo erectus, dal quale si sarebbe successivamente evoluto l’ Homo Heidelbergensis. Questa specie avrebbe imboccato due strade: alcuni, rimanendo in Africa, sarebbero diventati Homo sapiens; altri, spostatisi in Europa, avrebbero dato luogo ai Neanderthal.Successivamente (circa 40.000 anni fa) anche i Sapiens si spostano in Europa e incrociano le loro esistenze con i Neanderthal. L’incrocio non è problematico perché “le due specie, evolvendo in ambienti e contesti completamente diversi”, avevano sviluppato “caratteri differenti ma, dal punto di vista genetico, rimangono molto vicine; stiamo parlando di parenti stretti, se non proprio fratelli sicuramente cugini” (p. 202).
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Questo libro si apre con una domanda di Sergio Marchionne all’autore: “Lei, professore, crede in Dio?” (p. 12). In nessuna pagina c’è risposta: e questa mi è sembrata la risposta migliore. Perché Guido Tonelli ne potrà avere una (a meno che non sia perfettamente scettico). Ma il “professore” Tonelli, in quanto astrofisico, no.
(Aggiungo, fra parentesi, che il premio Nobel Giorgio Parisi si è espresso in questa stessa direzione in una lettera del Giorgio Paris del 12/10/2021al direttore di “Avvenire” che aveva avuto da obiettare su un’intervista rilasciata, dallo stesso scienziato, a “Repubblica”: «Gentile direttore, quando ho letto la bella intervista di Gnoli, anche io sono stato colpito dalla frase “Dio, per me, non è neanche un’ipotesi ”. Era un tentativo di sintetizzare quello che avevo detto, ma a volte le sintesi estreme sono traditrici. Avevo pronunciato parole che testualmente erano simili, ma che avevano ben altro significato. Commentando la frase di Laplace sull’ipotesi Dio, “non ho avuto bisogno di questa ipotesi”, ho detto che l’esistenza di Dio non può essere usata alla stregua di una qualsiasi ipotesi scientifica: è qualcosa di diverso che trascende la scienza, e non può essere oggetto di indagine scientifica. Penso che anche lei concordi con me che sarei un pessimo teologo se cercassi di fare un esperimento per dimostrare l’esistenza di Dio e che sarei un pessimo scienziato se cercassi di spiegare i miei dati sperimentali ipotizzando l’esistenza di Dio. Sono fermamente convinto della separazione tra scienza e fede in quanto hanno scopi diversi. La prima si occupa del mondo fisico e cerca di spiegare il mondo in maniera autonoma, la seconda interpreta il mondo basandosi su qualcosa che lo trascende, che esiste indipendentemente dal mondo. Vorrei aggiungere che sono sempre infastidito quando nelle interviste mi domandano le mie opinioni religiose. Non mi pare che lo domandino mai a calciatori, cantanti, modelle, categorie per le quali ho il massimo rispetto. Implicitamente gli intervistatori assumono che gli scienziati posseggano una conoscenza privilegiata di Dio, ma non è vero»).
Torniamo al testo di Guido Tonelli.
Le scienze naturali provano a spiegarsi la storia dell’universo (o dei pluriversi) dal primo attimo (se c’ stato un inizio temporale) o da sempre (se l’universo è eterno) sino alla sua fine (se ne avrà una). Ma, per così dire perpendicolarmente a questa traiettoria lineare, può cadere una domanda radicalmente altra: questo universo ha in sé stesso il suo senso ? In altri termini: esiste perché non può non esistere (‘necessariamente’) o esiste di fatto, ma avrebbe potuto non esistere mai (esiste, dunque, ‘contingentemente’)? In esso ogni ente, ogni fenomeno, ogni evento è ‘in relazione con’ (‘relativo ad’) altri enti, fenomeni, eventi: ma la somma di questi relativi è ‘assoluta’ o anch’essa relativa a qualcosa di ‘assoluto’ (di in-dipendente, di sciolto-da) ? La molteplicità diveniente che s’impone evidente alla nostra osservazione scientifica ha in se stessa la ‘ragion d’essere’ o presuppone un Principio, un Fondamento, un’Essenza che gliela conferisca momento per momento? La lotta di tutti contro tutti (sincronica) e la successione di impermanenti (diacronicamente) sono intelligibili anche senza ipotizzare un Logos che ‘leghi’, che tenga insieme, gli opposti ? La sfera dell’apparire fenomenico (l’esperienza empirica) esaurisce la sfera del reale (l’Intero ontologico) ? Sono tutte domande meta-fisiche (‘al di là’ del punto di vista fisico) ma che riguardano la sfera fisica in ciò che ha – o che non ha – di più intimo: un senso. Forse l’umanità non ha mai risposto pertinentemente, forse vi risponderà un giorno o mai: quel che è indubbio è che si tratta di domande per le quali nessuna delle scienze naturali è attrezzata. Ad esse potrà rispondere l’intuizione teoretica e/o poetica. O – come proponeva Kant – la “fede razionale” basata sull’universalità del senso morale. O anche nessuno.
La domanda sul Fondamento, necessario e assoluto, del molteplice in divenire – per quanto centrale – non esaurisce lo spettro dell’indagine filosofica. Così la lettura di queste pagine suggerisce tanti altri interrogativi ai confini fra l’ottica scientifica e la prospettiva meta-fisica. Esaminiamo qualche caso.
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“Sotto l’apparenza del Cosmos si nascond[e] il Caos” (p. 28). E’ un’affermazione di enorme peso ‘ontologico’: se vera, conferma – per così dire sperimentalmente – tutto il filone ‘nichilistico’ del pensiero occidentale che da Gorgia (l’Essere, ammesso che sia, è inconoscibile), passando per Nietzsche (“In principio era l’Assurdo”) arriva sino a Sartre (“Ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezzza e muore per combinazione”). Se la Physis, la Natura, il Grembo originario, la Matrice prima, l’Essenza universale è contraddittoria, dunque inintelligibile e a-nomica, perché l’umanità dovrebbe cercare – e soprattutto come potrebbe trovare – un assetto logico, armonioso, legale? Se la stiva è sfondata e la nave condannata al naufragio irrimediabile, che senso ha darsi delle regole di convivenza a bordo? Ma – potrebbe obiettarsi – il nostro sguardo umano è abbastanza ampio da cogliere l’intero universo (anche ammettendo che esso coincida con l’intera realtà e che non siano ipotizzabili dimensioni del reale meta-empiriche) sì da poter pronunziare sentenze così drastiche? E’ interessante che lo stesso Tonelli, proprio nella pagina successiva, sembri contraddire – o per lo meno stemperare – l’affermazione del primato del Caos sul Cosmos : “La materia sul piano microscopico segue implacabilmente le leggi della meccanica quantistica, dominate dal caos e dal principio di indeterminazione. Nulla sta fermo, tutto ribolle in una straordinaria varietà cangiante di stati e possibilità. Ma quando osserviamo grandi numeri di queste particelle, quando le strutture diventano macroscopiche, i meccanismi che ne regolano la dinamica acquistano, quasi magicamente, regolarità, persistenza, ordine ed equilibrio. La sovrapposizione di un numero spaventoso di fenomeni microscopici casuali, che si sviluppano in tutte le direzioni possibili, produce stati macroscopici ordinati e persistenti. Forse è il caso di utilizzare un concetto nuovo per descrivere questo dato che sembra realmente strutturale: Caos cosmico potrebbe essere l’ossimoro giusto per mettere in relazione le due entità che nell’universo si rincorrono e giocano a rimpiattino” (p. 29).
“Per capire la nascita dell’universo dovremo abbandonare, insieme a molti altri, il pregiudizio dell’ordine” (p. 30). La tesi che il Caos possa co-governare, anzi sgovernare, l’universo è strettamente legata (se non addirittura logicamente derivata) dalla convinzione che gli eventi naturali (dall’esplosione di una stella allo scontro fra due asteroidi) avvengano per ‘caso’. Ma il caso esiste davvero o è solo un’etichetta che ci serve per nascondere la nostra irrimediabile ignoranza di alcuni nessi causali? Se passeggio per strada e una tegola mi colpisce in testa, mi verrà spontaneo affermare che è stato un caso. Con ciò escludo – e a ragione – che la tegola sia caduta per effetto di un’azione intenzionale da parte di qualcuno. Ciò significa anche che l’evento fosse imprevedibile? Rispetto alle conoscenze medie abituali dell’uomo comune, senz’altro. Ma se quella tegola, per ragioni scientifiche, fosse stata oggetto di osservazione da alcuni anni; se con appositi strumenti tecnici si fossero monitorati i flussi ventosi, le incidenze piovane, il deterioramento del materiale, la forza di gravità e così via, la caduta della tegola sarebbe stato un evento prevedibilissimo. E’ davvero tutto diversa la situazione in fisica subatomica? Che di fatto noi esseri umani non riusciamo a prevedere la direzione di un elettrone è certo. Che questa impossibilità di fatto sia anche un’impossibilità di principio – perché i nostri strumenti modificano l’elettrone nel momento in cui lo osservano - è altrettanto certo (se ha ragione Heisenberg) o, comunque, molto probabile. Ma la imprevedibilità a parte hominissignifica imprevedibilità in sé, assoluta? Non è sintomo di presunzione antropocentrica l’equivalenza fra inconoscibilità di un evento da parte dell’essere umano e l’inconoscibilità dello stesso evento anche da parte di una (ipotetica) Intelligenza assoluta? Se io non riesco a trovare la causa di un effetto, posso legittimamente dedurre che quell’effetto non ha alcuna causa? Si badi: la questione non ha immediate e univoche implicazioni teologiche. Posso benissimo affermare che tutti gli eventi dell’universo sono concatenati causalmente – e dunque escludere il ‘caso’ in senso radicale e assoluto – senza perciò ammettere che Qualcuno abbia preordinato tale concatenazione: Baruch Spinoza o Pierre Simon de Laplace non erano certo credenti (almeno nell’accezione prevalente in ambito monoteistico).
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“Alla più difficile delle domande: cosa c’era prima del Big Bang”, possiamo rispondere: “In principio era il vuoto” (p. 31). Ma – aggiunge saggiamente Tonelli – a due condizioni. Prima condizione: sapere che “chiederci cosa c’era prima che nascesse il tempo” (lo “spazio-tempo” che “entra in scena assieme alla massa-energia”) è un “paradosso” (p. 31). Seconda condizione: che il vuoto di cui parliamo è “un sistema fisico molto peculiare che, nonostante il nome francamente fuorviante, è tutt’altro che vuoto. Le leggi della fisica lo riempiono di particelle virtuali che appaiono e scompaiono a ritmi forsennati, lo affollano di campi di energia i cui valori attorno allo zero fluttuano continuamente” (p. 31): dunque, questo “vuoto” non è da nessun punto di vista niente (o nulla). E’ qualche cosa: è un ess-ente, un ente, per giunta pervaso da “leggi” fisiche. La domanda ontologica (meta-fisica o intra-fisica o più-che-fisica) che ci ponevamo tradizionalmente, e ingenuamente, sull’universo - come appare a prima vista - resta identica: muta solo l’oggetto ‘materiale’ che la suscita. Adesso è di questo “vuoto” (che, “come sistema fisico è, per certi versi, il contrario del nulla”, p. 46) che possiamo – forse dobbiamo – chiederci se sia ingenerato e autosufficiente o se presupponga un Fondamento che lo abbia generato (meglio: lo continui incessantemente a generare) e gli conferisca una ragion d’esistere.
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Ma chiederci se l’universo abbia un senso, una ragion d’essere, una qualche finalità non è solo manifestazione di antropocentrismo? Nella vita quotidiana siamo abituati a porre un’azione in vista di uno scopo più o meno chiaro: così, se vediamo un’azione di un soggetto (o il prodotto/effetto di un’azione di un soggetto) , ci viene spontaneo chiederci per quali motivi e con quali intenzioni quell’azione (o quel prodotto/effetto di un’azione) sia stata eseguita. Ma non è abusivo estendere questa logica all’intero universo? Non potrebbe essere un ente – o un complesso di enti reciprocamente intrecciati – senza nessun altro fine che la sua stessa esistenza? Una sorta di enorme rosa di Silesio che fiorisce perché fiorisce?
Vorrei riflettere sull’espressione “siamo abituati” (a cercare una causa, efficiente e/o finale) per spiegare un dato sperimentato. Qualche filosofo (D. Hume) ha sostenuto che la causa (!) del nostro “principio di causalità” sia, appunto, la mera “abitudine”: vedendo che ‘dopo’ l’accensione di un cerino, almeno solitamente, si accende un mucchietto di paglia, ci convinciamo (quasi per una sorta di “fede”) che il post hoc (dopo questo) sia un propter hoc (a causa di questo). A qualche altro filosofo questa spiegazione è apparsa insufficiente: poiché trovava strano che, in ogni tempo e in ogni luogo, gli umani acquisissero la stessa “abitudine” (e, di conseguenza, la stessa “fede”), Kant ha supposto che la ‘causa’ (!) dell’universalità del “principio di causa” fosse da ricercare nella struttura congenita della nostra mente. Noi umani condivideremmo un “intelletto” che non può, in certe condizioni, non collegare due fenomeni mediante il nesso causale. Si esce, così, dal soggettivismo individuale per entrare nel soggettivismo inter-soggettivo (Kant usa il termine “trascendentale”). La mia domanda – alla scuola di Aristotele – è dunque: il principio di causalità è solo logico o è logico in quanto, originariamente, ontologico? In altri termini: perché affermare che siamo noi che colleghiamo il cerino alla paglia infuocata (e che ignoreremo per sempre ciò che davvero avviene) e non che vediamo, scopriamo, prendiamo atto del nesso oggettivo, effettivo, reale, fra l’uno e l’altra?
A mio parere, il principio di causalità è fondato (o, almeno, strettamente imparentato) con il principio di non-contraddizione, secondo il quale non è possibile passare dal non-essere all’essere (e viceversa). Il divenire attesta che qualcosa che non era, è; e qualcosa che era, non è. Questo è il referto del senso comune e delle scienze sperimentali più raffinate e aggiornate. Posso fermarmi a questa constatazione oppure problematizzarla filosoficamente. Mi pare che, se si riflette a fondo, gli scenari principali possibili siano due. In una prima prospettiva, da Parmenide a Severino, il divenire – essendo razionalmente inconcepibile – è illusorio: l’Essere, nella sua totalità, è sempre Identico, Immobile, Indiveniente. Nonostante, a prima vista, sembri opposta, un’altra versione di questo primo scenario ammette che il divenire sia reale, ma nega che esso offra davvero qualcosa di novum, di inedito: non c’è qualcosa che non fosse e che inizia ad essere, ma solo qualcosa che è sempre stata e inizia a palesarsi, ad “emergere” dall’ombra. Leggiamo in uno dei testi più recenti del movimento “post-teista”: “Il cosmo è un grande sistema con ‘proprietà emergenti’. La vita e la coscienza emergono da un processo di auto-organizzazione a partire dalla materia o energia primordiale. Tutto è costituito da una materia dinamica e creativa da cui sorgono successivamente molteplici ‘proprietà emergenti’. In ultima istanza non ci sono confini definiti tra la sfera fisica, quella vivente e quella mentale” (J. Arregi – T. Brun – G. González – J. M. Vigil – S. Villamayor, Per un cristianesimo post-teista, “Adista/Documenti”, 35, 9.10.2021, p. 4). Anche in questa versione, il monismo ontologico azzera qualsiasi scandalo razionale: non c’è alcun passaggio dal non-essere all’essere. Scandalo che, invece, permane e inquieta chi ritiene che uno zigote, e a maggior evidenza un neonato o un soggetto adulto, sia un quid novi rispetto allo spermatozoo paterno e all’ovulo materno. Fenomenologicamente siamo polvere di stelle: ma il passaggio dal carbonio a Beethoven è davvero ovvio, scontato, a-problematico? Chi non lo ritiene tale, ma non vuole neppure rassegnarsi né a cancellarlo come mera illusione antropologica né ad ammettere l’assurdo di un essere che provenga dal non-essere, è indotto ad ipotizzare un secondo scenario: che la sfera dell’empirico diveniente sia reale (contra Parmenide e discepoli), ma non sia tutto il reale (contra immanentisti di varia matrice); che in essa venga all’esistenza sì qualcosa di realmente inedito, ma non ex nihilo; piuttosto come effetto, prodotto, 'dono' di un Essere integralmente tale, dunque preservato dalla contraddizione del divenire quale passaggio dal non-essere all’essere (e viceversa). In questa prospettiva, l’evoluzione cosmica non è la mera epifania di una Materia che squaderna i suoi tesori nascosti da sempre, ma il teatro di eventi che, sulla base esclusiva delle battute iniziali, sarebbero stati imprevedibili: un’evoluzione ontologicamente creata (e perciò reale), piuttosto che creatrice (auto-creatrice) ( e perciò o apparente o illogica).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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Per la versione 'illustrata' si può cliccare qui:
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