"Il Tetto"
La storia delle chiese cristiane è contrassegnata, sin dalle origini, dal culto dei martiri. Dovremmo dire – dal momento che ‘martire’ è il vocabolo greco per designare il ‘testimone’ – dei martiri per eccellenza: di quei testimoni ‘ordinari’ che, di fronte alle minacce estreme, hanno preferito morire anziché rinnegare la fede, diventando così ‘straordinari’.
Sino a qualche decennio fa questo schema è rimasto, sostanzialmente, immutato: la chiesa cattolica (come le chiese ortodosse) propone alla venerazione dei fedeli solo chi cade assassinato da infedeli a causa della sua fede religiosa. Ma la storia del Novecento e del nostro secolo registra casi che mettono in crisi tale schema. Per esempio, Massimiliano Kolbe è stato trucidato da cristiani (cattolici e protestanti) obbedienti a Hitler: si può dire che sia stato un “martire della fede”? Paolo VI coniò per lui la formula “martire dell’amore”. E, in effetti, sarebbe logico separare la “fede” dall’ “amore” se non riducendo la prima – da atteggiamento complessivo dell’esistenza – ad accettazione intellettualistica di una serie di dottrine ritenute “rivelate”?
In tempi più vicini a noi, anche il Meridione italiano ha registrato degli eventi inediti: cattolici ferventi (come Angelo Rosario Livatino, Paolo Borsellino, don Pino Puglisi, don Peppino Diana), attivamente impegnati nel contrasto al dominio mafioso, che vengono assassinati da altri (sedicenti) fedeli cattolici. Come porsi di fronte a questi che Urs von Balthasar avrebbe definito “casi seri” ?
Un primo orientamento – condiviso, per ragioni opposte, in ambienti vaticani e in aree ‘laiche’ del movimento antimafia – è stato di tener ferma la distinzione ‘tradizionale’ fra sfera religiosa e sfera civile. Se un magistrato o anche un prete vengono uccisi non in quanto cattolici, ma in quanto oppositori del regime mafioso, la chiesa non ha né il dovere né il diritto di pronunziarsi: si tratta di vittime della giustizia degli uomini, della legalità statuale. La chiesa non può compromettere il suo prestigio prendendo posizione su questioni tutto sommato ‘basse’, riguardanti la dialettica ‘temporale’ fra istituzioni civili e criminalità. Essa vola più in alto rispetto alla perenne contesa fra guardie e ladri (ben sapendo che spesso i ruoli si invertono e solo troppo tardi ci si accorge dell’inganno). D’altronde – è questo il tasto su cui hanno insistito gli ambienti dell’antimafia esterni al mondo ecclesiale – perché la chiesa, abitualmente estranea alle strategie di contrasto alla criminalità organizzata, dovrebbe ‘mettere il cappello’ su alcune vittime? Esse erano cattoliche ma non sono state assassinate in quanto cattoliche, bensì perché impegnate professionalmente o socialmente. La loro eredità spirituale è, essenzialmente, civile: e va affidata esclusivamente alla memoria dei concittadini (di qualsiasi convinzione ideale e ideologica).
Questo primo orientamento – che sembrava tanto solido da risultare immodificabile – è stato gradualmente ripensato ad opera di teologi cattolici particolarmente sensibili alle tematiche storico-sociali. La radice di questo ripensamento – come viene illustrato nel volume a più mani, curato da M. Naro e S. Tanzarella, Martiri per la giustizia, martiri per il Sud. Livatino, Puglisi, Diana, testimoni della speranza (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2021, pp. 229, euro 23,00) – è una lettura esegeticamente più attenta dei vangeli, dalla quale si evince che Gesù ha proposto ai discepoli non tanto l’adesione a un insieme di ‘verità’ dogmatiche sull’altro mondo, bensì l’impegno per realizzare il ‘regno di Dio’ (cioè una convivenza pacifica, solidale, compassionevole) in questo mondo. Queste nuove acquisizione ‘scientifiche’ sul modo di leggere la Bibbia hanno comportato dei rivolgimenti enormi (anche se comunicati all’opinione pubblica in maniera felpata, rassicurante) anche nella ‘pastorale’ (come viene definita, con termine inopportunamente bucolico, la pedagogia ecclesiale): come è evidente dal Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 1965) in poi, l’ ‘evangelizzazione’ va intrecciata, inseparabilmente, con la ‘promozione umana’. Se è così, il fedele non si santifica soltanto quando annunzia con le labbra il vangelo, lo predica, lo spiega ai ragazzini nel corso delle catechesi…ma, almeno altrettanto, quando difende i diritti dei deboli, le ragioni della giustizia, gli spazi della libertà. E il martire va venerato come tale, dunque, anche se muore assassinato da altri (sedicenti) cattolici come i mafiosi. Ogni ‘beatificazione’ di una persona che – secondo la felice formula di Giovanni Paolo II muore “martire della giustizia e, indirettamente, della fede” (9 maggio 1993, Agrigento) – è, o potrebbe essere se venisse correttamente interpretato, un duplice monito.
Innanzitutto ai mafiosi, ai loro complici, ai cittadini ignavi che perseguono un’impossibile ‘neutralità’ fra Stato democratico e organizzazioni criminali: ogni volta che aggredite un 'giusto' - di qualsiasi orientamento culturale e politico (magistrato o prete, imprenditore o giornalista, sindacalista o avvocato) – voi tradite - lo sappiate o meno - il messaggio di Cristo (di cui vi dichiarate seguaci).
Ma un secondo monito va all’intera popolazione (sedicente) cattolica: non illudetevi che catechesi e liturgie, devozioni e processioni, elemosine e lasciti testamentari esauriscano il vostro compito di credenti. Poiché fede e giustizia non sono separabili, una fede senza giustizia è ipocrita. Occuparsi del territorio in cui si vive o in cui si è parroci, rispettare e far rispettare le leggi vagliate come costituzionali, combattere ogni minima concessione alla corruzione, prendere le parti degli impoveriti della propria società e più ampiamente del pianeta, difendere l’equilibrio ambientale e la sensibilità dei fratelli più piccoli che sono gli altri animali…questi e tanti altri ambiti di vigilanza e di operatività non appartengono all’optional. Chi cade combattendo su questi fronti, merita la gratitudine di tutti i cittadini (di qualsiasi convinzione personale); ma merita anche la gratitudine di chi si dichiara credente cristiano perché martire “indirettamente” del vangelo.
Il libro è impreziosito da due capitoli dedicati, rispettivamente, al presbitero rumeno Vladimir Ghika ( 1873- 1954 ), passato dalla chiesa ortodossa alla chiesa cattolica, e al pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945): due casi analoghi ai martiri del Meridione italiano, benché distanti nello spazio e nel tempo, dal momento che le motivazioni ufficiali del loro calvario e della loro morte non sono state la ‘fede’ cristiana ma l’attività diplomatica sgradita al regime social-comunista (nel caso di Ghika) e la partecipazione all’attentato (fallito) ai danni di Hitler (nel caso di Bonhoeffer).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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