“Adista/Segni nuovi”
2.10.2021
Don Pino Puglisi: chi raccoglierà il suo tstimone ?
In un articolo pubblicato su “Repubblica-Palermo” in occasione dell’anniversario del martirio di don Pino Puglisi (15 settembre 1993), l’Arcivescovo Corrado Lorefice ha saputo tratteggiare, con sobria autenticità, la figura del parroco. Ma quel modello di prete, a quasi tre decenni di distanza, quanto viene apprezzato e riprodotto dalle nuove generazioni di presbiteri? Su questo aspetto della questione don Lorefice ha glissato. Ed è un silenzio tanto più significativo quanto più deludenti, anzi laceranti e dolorose, si stanno rivelando alcuni passaggi di testimone da coetanei e amici di don Pino Puglisi (come don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di S. Francesco Saverio all’Albergheria di Palermo) a preti più giovani solo anagraficamente.
Ci si sarebbe aspettato qualche cenno almeno di autocritica ecclesiale, almeno su tre punti cruciali.
Primo: di don Pino Puglisi, monsignor Lorefice scrive – pertinentemente – che “era veramente un pedagogo, aveva nel sangue una capacità maieutica: far crescere l’altro e condurlo alla vita adulta, alla piena statura dell’intrinseca e inalienabile dignità umana, alla libertà dei figli
di Dio”. Ma i preti della diocesi palermitana sono, in maggioranza, sulla stessa linea emancipativa o mostrano diffidenza, paura, talora disistima nei confronti dei fedeli laici delle proprie comunità? L’arcivescovo sa quanti sono i suoi preti (soprattutto – cosa ancor più triste – giovani) arroccati nella propria posizione di ‘capi’, incapaci di condividere responsabilità e funzioni con donne e uomini della parrocchia, molto spesso più ‘maturi’ e più ‘saggi’ di loro. E’ chiaro che non dipende da un arcivescovo la mentalità dominante dei suoi presbiteri; che egli deve fare il pane con la farina a disposizione, costruire case con gli operai a disposizione. Ma ammettere, pubblicamente, che ancora troppi parroci si interpretano e si comportano come ‘boss’ cui si deve rispetto e obbedienza, sarebbe un atto di trasparenza evangelica. Un prete, come ognuno di noi, può essere segnato da vari limiti e difetti: se però è incapace di farsi suscitatore di carismi e artefice di comunione, non c’è dubbio che abbia sbagliato mestiere.
Secondo aspetto: secondo monsignor Lorefice, don Pino Puglisi, convinto che “il Vangelo diventa lievito di trasformazione della storia”, “si era battuto per avere
scuole, centri per anziani e giovani, spazi aggregativi e di confronto, coinvolgimento delle istituzioni”. Ebbene, anche su questo versante, quando si ode la voce delle comunità parrocchiali per chiedere, a fianco dei cittadini di ogni appartenenza religiosa o partitica, che le istituzioni funzionino almeno decentemente a presidio della legalità sostanziale? Il clericalismo, denunziato tante volte dall’attuale papa-pastore Francesco, è solitamente congiunto a un devozionismo auto-referenziale: la vitalità di una parrocchia viene misurata sul numero delle ‘prime comunioni’ e delle ‘cresime’ che vi si celebrano, non sulla incidenza reale nel tessuto sociale circostante, al cui degrado ci si abitua come a dati naturali immodificabili. Il proposito di evangelizzare senza preoccuparsi della promozione umana è semplicemente illusorio: un’evangelizzazione senza la cura per i corpi e per i luoghi dei fedeli non è evangelizzazione, ma catechizzazione ideologica.
Infine, un terzo aspetto della questione: memore della ricerca intellettuale in cui era impegnato il parroco di Brancaccio, l’arcivescovo di Palermo (che nel suo discorso di presentazione dal balcone del Municipio citò Peppino Impastato accanto a don Puglisi) ricorda che “l’antimafia vera è quella di uomini e di donne che nella fedeltà agli impegni della loro vita personale, familiare e sociale, erodono il campo alla cultura e alla prassi mafiosa che arreca un grave pregiudizio allo sviluppo economico, sociale e culturale dei nostri territori”. Perfetto ! Ma per contrastare la cultura e la prassi mafiose bisognerebbe conoscerle, o no? Avere delle cognizioni essenziali, ma scientificamente serie e aggiornate. Tranne qualche lodevole eccezione di preti ben noti (che, tra l’altro, dopo essere stati isolati dai propri confratelli come fastidiosi grilli parlanti, sono andati o si avviano ad andare in quiescenza per ragioni di età) e di qualche laico-credente (che, comunque, percepisce se stesso come voce clamante nel deserto), una formazione sulla mafia – sulla sua storia, sulla sua struttura attuale, sui legami con la politica e l’economia, sulla sua visione del divino e dell’etica – è pressoché assente sia nel percorso di studi teologici dei nuovi preti sia nelle catechesi parrocchiali per giovani e per adulti. Così anche negli ambienti ecclesiali, come nel resto della società italiana, la mafia c’è se spara e fa stragi col tritolo; non c’è se chiede il pizzo all’ottanta per cento dei commercianti e degli imprenditori di ogni settore; se ricicla somme da capogiro mediante banche compiacenti; se corrompe funzionari pubblici ad ogni livello per lucrare sullo smaltimento dei rifiuti o sullo spaccio delle droghe illegali. L’ignoranza sul vero volto del sistema mafioso – sulla sua ammirevole capacità di mantenere l’identità tradizionale adattandola alle svolte epocali – è un regalo che le agenzie educative (dunque anche le chiese cristiane) non dovrebbero permettersi di omaggiare agli uomini e alle donne del disonore.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Grazie Augusto
per questo richiamo che riprende alcune osservazioni che avevi già offerto, ma che sottolinea la necessità del passaggio di testimone, del quale tante volte mancano le condizioni adeguate.
Un abbraccio a voi per un buon fine settimana,
C-
Posta un commento