IN PRESENZA E ON LINE DAL 3 NOV. 2021 RIPRENDIAMO
LE MEDITAZIONI DI SPIRITUALITA' LAICA DEL MERCOLEDI'
Il blog di Augusto Cavadi, filosofo-in-pratica di Palermo, con i suoi appuntamenti pubblici in Italia e i suoi articoli.
IN PRESENZA E ON LINE DAL 3 NOV. 2021 RIPRENDIAMO
LE MEDITAZIONI DI SPIRITUALITA' LAICA DEL MERCOLEDI'
Ci sono atteggiamenti esistenziali che appartengono a noi umani in maniera costitutiva: secondo qualche importante filosofo, tra queste propensioni tipiche dell’umano ci sarebbe la cura.
Per dimostrarlo egli risale a un mito greco (che, come tutti i miti, non riferisce fatti di cronaca effettivamente accaduti, ma verità simboliche di valore perenne): la dea Cura impasta del fango appartenente alla Terra e plasma l’uomo (così chiamato perché viene dall’humus) e Giove gli infonde l’anima. Ma scoppia un litigio fra i tre dei: chi di loro sarà il proprietario dell’essere umano? La disputa è risolta con una sentenza salomonica di Saturno: alla morte dell’uomo, l’anima sarà di Giove; il corpo sarà restituito alla Terra; ma – durante il corso della vita- l’uomo apparterrà alla Cura.
Che significa essere caratterizzati strutturalmente dalla ‘cura’?
In una prima accezione la Cura è la radice di ogni angoscia. Nel dialetto siciliano – ma forse in altri dialetti si trovano espressioni simili – esortare qualcuno con “Un ti pigghiari cura !” significa “non aver timore”, “non inquietarti”. L’invito è affettuoso, ma poco efficace: la morte, la malattia, la sofferenza incombono sulla vita nostra, dei nostri cari, dell’umanità, degli altri animali. Possiamo compensare con altre considerazioni la nostra preoccupazione, ma sino a un certo punto: non azzerarla del tutto.
‘Cura’ è anche terapia in senso medico, sanitario: sia in relazione alle malattie fisiche che alle sofferenze psichiche (per altro reciprocamene imbricate). Questa seconda accezione è tanto inevitabile quanto bisognosa di essere arginata. E’ inevitabile perché le patologie non sono inventate, ma oggettive: Giovanni Jervis, collaboratore di Franco Basaglia, anni fa ha scritto un libro autocritico dal titolo enigmatico, Contro il relativismo. Si riferiva al pericolo di cadere nell’errore – in cui egli stesso dichiarava di esser caduto – di ritenere che i disturbi psichiatrici siano tali solo quando determinati comportamenti vengono etichettati così dalle convenzioni socio-culturali dell’epoca. (Chi sa cosa avrebbe detto oggi, se fosse stato vivo, di quei geni che, cattedratici di filologia romanza o lavoratori portuali, dichiarano che il covid-19 è solo un’invenzione giornalistica al servizio delle grandi multinazionali del farmaco e delle oscure trame dei governi antidemocratici…). Certo c’è un margine di relatività anche nella storia della medicina, ma entro paletti abbastanza solidi: di Jacques Lacan si racconta che, irritato dalla relazione con un paziente, a un certo punto sia sbottato con un “Ma Lei è pazzo per davvero!”.
Pur se inevitabile, l’accezione medica del termine ‘cura’ va però maneggiata con prudenza. Da decenni, ormai, è in atto una medicalizzazione del disagio davvero esagerata: ci siamo abituati, senza tema di ridicolo, all’opinione che debba esserci una pillola o una fiala per ogni bambino particolarmente vivace o per ogni anziano rattristato dall’idea di dover morire…Anche se meno diffusa per ragioni economiche, la tendenza si è estesa dall’ambito farmacologico all’ambito delle psicoterapie: anziché imparare a convivere con le nostre problematiche esistenziali, chiediamo a un terapeuta della psiche di liberarcene.
“Adista/Segni nuovi”
2.10.2021
Don Pino Puglisi: chi raccoglierà il suo tstimone ?
In un articolo pubblicato su “Repubblica-Palermo” in occasione dell’anniversario del martirio di don Pino Puglisi (15 settembre 1993), l’Arcivescovo Corrado Lorefice ha saputo tratteggiare, con sobria autenticità, la figura del parroco. Ma quel modello di prete, a quasi tre decenni di distanza, quanto viene apprezzato e riprodotto dalle nuove generazioni di presbiteri? Su questo aspetto della questione don Lorefice ha glissato. Ed è un silenzio tanto più significativo quanto più deludenti, anzi laceranti e dolorose, si stanno rivelando alcuni passaggi di testimone da coetanei e amici di don Pino Puglisi (come don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di S. Francesco Saverio all’Albergheria di Palermo) a preti più giovani solo anagraficamente.
Ci si sarebbe aspettato qualche cenno almeno di autocritica ecclesiale, almeno su tre punti cruciali.
Primo: di don Pino Puglisi, monsignor Lorefice scrive – pertinentemente – che “era veramente un pedagogo, aveva nel sangue una capacità maieutica: far crescere l’altro e condurlo alla vita adulta, alla piena statura dell’intrinseca e inalienabile dignità umana, alla libertà dei figli
di Dio”. Ma i preti della diocesi palermitana sono, in maggioranza, sulla stessa linea emancipativa o mostrano diffidenza, paura, talora disistima nei confronti dei fedeli laici delle proprie comunità? L’arcivescovo sa quanti sono i suoi preti (soprattutto – cosa ancor più triste – giovani) arroccati nella propria posizione di ‘capi’, incapaci di condividere responsabilità e funzioni con donne e uomini della parrocchia, molto spesso più ‘maturi’ e più ‘saggi’ di loro. E’ chiaro che non dipende da un arcivescovo la mentalità dominante dei suoi presbiteri; che egli deve fare il pane con la farina a disposizione, costruire case con gli operai a disposizione. Ma ammettere, pubblicamente, che ancora troppi parroci si interpretano e si comportano come ‘boss’ cui si deve rispetto e obbedienza, sarebbe un atto di trasparenza evangelica. Un prete, come ognuno di noi, può essere segnato da vari limiti e difetti: se però è incapace di farsi suscitatore di carismi e artefice di comunione, non c’è dubbio che abbia sbagliato mestiere.
Secondo aspetto: secondo monsignor Lorefice, don Pino Puglisi, convinto che “il Vangelo diventa lievito di trasformazione della storia”, “si era battuto per avere
scuole, centri per anziani e giovani, spazi aggregativi e di confronto, coinvolgimento delle istituzioni”. Ebbene, anche su questo versante, quando si ode la voce delle comunità parrocchiali per chiedere, a fianco dei cittadini di ogni appartenenza religiosa o partitica, che le istituzioni funzionino almeno decentemente a presidio della legalità sostanziale? Il clericalismo, denunziato tante volte dall’attuale papa-pastore Francesco, è solitamente congiunto a un devozionismo auto-referenziale: la vitalità di una parrocchia viene misurata sul numero delle ‘prime comunioni’ e delle ‘cresime’ che vi si celebrano, non sulla incidenza reale nel tessuto sociale circostante, al cui degrado ci si abitua come a dati naturali immodificabili. Il proposito di evangelizzare senza preoccuparsi della promozione umana è semplicemente illusorio: un’evangelizzazione senza la cura per i corpi e per i luoghi dei fedeli non è evangelizzazione, ma catechizzazione ideologica.
Infine, un terzo aspetto della questione: memore della ricerca intellettuale in cui era impegnato il parroco di Brancaccio, l’arcivescovo di Palermo (che nel suo discorso di presentazione dal balcone del Municipio citò Peppino Impastato accanto a don Puglisi) ricorda che “l’antimafia vera è quella di uomini e di donne che nella fedeltà agli impegni della loro vita personale, familiare e sociale, erodono il campo alla cultura e alla prassi mafiosa che arreca un grave pregiudizio allo sviluppo economico, sociale e culturale dei nostri territori”. Perfetto ! Ma per contrastare la cultura e la prassi mafiose bisognerebbe conoscerle, o no? Avere delle cognizioni essenziali, ma scientificamente serie e aggiornate. Tranne qualche lodevole eccezione di preti ben noti (che, tra l’altro, dopo essere stati isolati dai propri confratelli come fastidiosi grilli parlanti, sono andati o si avviano ad andare in quiescenza per ragioni di età) e di qualche laico-credente (che, comunque, percepisce se stesso come voce clamante nel deserto), una formazione sulla mafia – sulla sua storia, sulla sua struttura attuale, sui legami con la politica e l’economia, sulla sua visione del divino e dell’etica – è pressoché assente sia nel percorso di studi teologici dei nuovi preti sia nelle catechesi parrocchiali per giovani e per adulti. Così anche negli ambienti ecclesiali, come nel resto della società italiana, la mafia c’è se spara e fa stragi col tritolo; non c’è se chiede il pizzo all’ottanta per cento dei commercianti e degli imprenditori di ogni settore; se ricicla somme da capogiro mediante banche compiacenti; se corrompe funzionari pubblici ad ogni livello per lucrare sullo smaltimento dei rifiuti o sullo spaccio delle droghe illegali. L’ignoranza sul vero volto del sistema mafioso – sulla sua ammirevole capacità di mantenere l’identità tradizionale adattandola alle svolte epocali – è un regalo che le agenzie educative (dunque anche le chiese cristiane) non dovrebbero permettersi di omaggiare agli uomini e alle donne del disonore.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
2021, I
ADRIANA ZARRI: UNA CORAGGIOSA ESPLORATRICE A META’ DEL GUADO
Non era prete, anzi neppure un maschio: eppure volle abbracciare la scrittura teologica come missione. Pubblicava su “Avvenire” e “Famiglia cristiana”, ma anche sul “Manifesto”; alternava lunghi periodi di silenzio in eremitaggio a interventi polemici a “Samarcanda” di Santoro; tra i suoi amici vescovi cattolici (come don Luigi Bettazzi) e donne comuniste (come Rossana Rossanda). Nessuna sorpresa, perciò, se Adriana Zarri sia stata tanto amata, stimata, quanto criticata, talora aspramente. Ma chi è stata costei? La storia di questa donna, tra le più significative del panorama culturale e politico italiano del Novecento, è restituita in un libro prezioso - accurato nella documentazione e limpido nell’esposizione – a firma di Mariangela Maraviglia per i tipi del Mulino (Bologna 2020, pp. 220, euro 20,00): Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri.
Il titolo riecheggia un brano autobiografico della protagonista in cui confida che, sin dal periodo giovanile, nella “dialettica tra le opere e la ‘testimonianza’ (…) nelle situazioni ordinarie della vita”, si era riconosciuta nel secondo versante. Poi, però, “la stessa testimonianza mi parve presuntuosa. Ciò che volevo era semplicemente vivere; e, se questa vita a qualcuno diceva qualche cosa, bene”. Se questo è stato l’orientamento di fondo della Zarri, non si può dire che lo abbia rispettato pedissequamente. Ha rinunziato alle forme canoniche dell’apostolato cattolico – nella convinzione, del tutto condivisibile, che “l’apostolato non si fa: si è, essendo la vita in Dio rivissuta tra noi. Ma si vive la vita divina, vivendo con pienezza e nudità, la vita umana” - , ma non si è sottratta, come nota la sua biografa, a “quel ‘dovere’ della polemica avvertito fin dalla giovinezza come forma di testimonianza e di pedagogia evangelica: un ‘dovere’ assolto senza riguardo per i toni offensivi e maschilisti che le venivano riservati, soprattutto sui giornali di destra come ‘Lo Specchio’ e ‘Il Borghese’; senza timore di controbattere con personalità dal riconosciuto valore o di esporsi su questioni di massima delicatezza per la morale e la cultura del tempo”.
Chi sceglie il confronto pubblico deve mettere in conto amarezze interiori e danni oggettivi, ma – come è intuibile – non sempre il ‘profeta’ è contestato perché ha ragione. Nel caso della Zarri, il suo (relativo, parziale) isolamento, emblematicamente rappresentato dal fallimento dei tentativi di mettere su una qualche forma di vita comunitaria, ha avuto certamente origine da inevitabili limiti temperamentali (dei quali ebbi modo di fare esperienza nell’unico, fugace, incontro nel corso di un convegno), ma non solo. Questo libro della Maraviglia – inserendo le opere della Zarri nel contesto del travaglio teologico della stagione postconciliare e riprendendone molti passi significativi – mi ha confermato nell’idea che la scrittrice si sia trovata sola in una terra-di-nessuno fra la solida ortodossia preconciliare (rifiutata) e il paradigma ‘evangelico’ dei progressisti (non accettato integralmente) . Ella è andata sì indietro, ma ha ritenuto sufficiente rifarsi all’era patristica greca e latina. La sua generazione si è trovata, infatti, a ereditare un sistema di dogmi, di celebrazioni liturgiche, di norme morali - concernenti la condotta individuale come la convivenza sociale - che possiamo chiamare cattolicesimo medieval-tridentino. Intuito poetico, sensibilità estetica, attitudine mistica, postura femminile non potevano consentire ad Adriana Zarri di accettare tout court quella cattedrale imponente ma soffocante: da qui le sue polemiche aspre contro Giovanni Paolo II, contro molti vescovi e teologi e politici cattolici che, sostanzialmente, difendevano quella cattedrale. Ma, forse perché non aveva compiuto studi organici di teologia o perché prediligeva l’approccio letterario-sentimentale, non ha accettato neppure di passare al fronte opposto di quei ‘contestatori’ in odore di ‘eresia’ (Raimundo Panikkar, Hans Küng, Tullio Goffi, Enzo Mazzi, Giulio Girardi, Giovanni Franzoni, Paul Knitter, Ernesto Balducci, Eugen Drewermann, Edward Schillebeecks, Giuseppe Barbaglio, Luigi Lombardi Vallauri, Carlo Molari, Alberto Maggi…) che non si limitavano a rifiutare questo o quell’articolo del catechismo, questo o quel divieto etico, ma rimettevano in discussione la cattedrale medieval-cattolica sin dalle fondamenta (dall’unicità della rivelazione biblica alla teoria del peccato originale, dall’indissolubilità del matrimonio-sacramento alla differenza ‘ontologica’ del prete rispetto ai laici). La sua dura polemica ‘apologetica’ contro Ortensio da Spinetoli o Franco Barbero – rei di negare che dogmi come la “Trinità” e la “Incarnazione di Dio” fossero davvero contenuti nel Nuovo Testamento - era frutto, a mio parere, di disinformazione e di presunzione: non teneva conto del fatto che stava giudicando, da esegeta dilettante, degli specialisti di alto livello . E, se non estese la polemica ad altri suoi amici, come don Luigi Sartori o don Carlo Molari o p. Alberto Maggi, fu perché – evidentemente - non comprese (a differenza delle occhiute autorità vaticane) che le loro tesi erano, nella sostanza, altrettanto radicali e innovative. Adriana Zarri, come tanti ai suoi e ai nostri giorni, si illuse di poter perseverare nell’adesione ad alcuni postulati e teoremi del cattolicesimo medieval-tridentino e rifiutarne alcuni corollari (come la diffidenza verso la sessualità o la pretesa di condizionare l’autonomia legislativa degli Stati democratici). E’ un errore di valutazione: la chiesa cattolica rispetta e corteggia chi si dichiara ‘esterno’, ma è implacabile con chi resta ‘dentro’, ai margini, per esercitare la parresìa. In venti secoli il cattolicesimo si è andato strutturando come una immensa, ordinatissima, perfetta macchina in cui “tutto si tiene”: o la si accetta, estasiati e proni d’ammirazione, o è meglio non metterci mano per riparazioni parziali. Si rischia di restarne con le dita stritolate. Paolo VI, così facile al pianto, ne seppe qualcosa; qualcos’altra la sta imparando papa Francesco sul suo letto di Procuste.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
STORIA DEL PARTIGIANO (SICILIANO) JACON
Probabilmente oggi, in Italia, mancano le condizioni socio-politiche per un ritorno del fascismo in senso storico, ‘tecnico’ (per intenderci un regime accentrato nelle mani di un Mussolini, Hitler, Franco o Salazar). Ma – come avvertiva Umberto Eco – c’è anche un fascismo “eterno” o, per lo meno, persistente nel tempo che è intessuto di disprezzo delle maggioranze democratiche, rifiuto delle istituzioni rappresentative, sovranismo nazionalistico, militarismo bellicista, xenofobia razzista, diffidenza verso la libertà di pensiero in generale e di ricerca scientifica in particolare… Questo fascismo ideal-tipico potrebbe essere sconfitto solo se si replicasse, imprevedibilmente, il ‘miracolo’ che ha consentito la sconfitta del fascismo italiano del XX secolo: l’aggregazione in un fronte sinergico di cittadini di varia provenienza ideologica (dai comunisti e i socialisti ai cristiani, dai repubblicani ai monarchici risorgimentali) e geografica (dalle Alpi alla Sicilia).
Queste considerazioni, purtroppo attuali, mi sono suggerite dalla lettura di un intrigante racconto, sul registro storico-letterario, di Antonio Ortoleva (Non posso salvarmi da solo. Jacon, storia di un partigiano, Prefazione di Enrico Pagano, Navarra, Palermo 2021, pp. 142, euro 12,00) che ha per protagonista un giovane partigiano siciliano – più esattamente di Isnello, gradevole centro delle Madonie – caduto in Piemonte nel 1945. Un combattente come tanti (come si sottolinea nel testo, il contributo alla Resistenza da parte di cittadini meridionali è stato tanto consistente quanto trascurato storiograficamente), ma contraddistinto da una singolarità. Catturato dai fascisti insieme a 20 compagni, si vide offrire dal comandante (anch’egli meridionale) di cui era prigioniero la possibilità di aver salva la vita se solo avesse acconsentito al tradimento. Secondo la testimonianza dell’unico sopravvissuto alla strage di Salussola, Sergio Canuto Rosa detto “Pittore”, la sua toccante risposta non lasciò adito a equivoci. Ovviamente non si conoscono le parole esatte pronunciate da Jacon Ortoleva, ma il senso complessivo è chiaro: non voglio tradire i miei compagni, non voglio salvarmi da solo.
PER COMPLETARE LA LETTURA DELLA BREVE RECENSIONE, CLICCA QUA:
https://www.zerozeronews.it/storia-valori-e-attualita-degli-ideali-della-resistenza/
QUALCHE CONSIDERAZIONE SULLA CRISI DELL’EDITORIA ‘CATTOLICA’
La notizia della chiusura delle Edizioni Dehoniane di Bologna è stata deflagrante per il mondo dell’editoria cattolica come lo sarebbe stata la chiusura di Mondadori o di Rizzoli per l’editoria ‘laica’. Essa è allarmante anche perché, come la punta di un iceberg, segnala una situazione di malessere più ampio che potrebbe manifestarsi con esplosioni simili a breve lasso di tempo. Non è più dunque possibile eludere delle domande scomode, a partire da una decisiva: perché l’editoria cattolica ha così poco appeal sia all’interno che all’esterno dei confini ecclesiali?
Si potrebbe rispondere, un po’ affrettatamente, che il pubblico dei lettori (già limitato, proporzionatamente, in Italia) è poco o per nulla interessato alle questioni teologiche. Ma sarebbe una risposta molto parziale, smentita da dati di fatto inconfutabili: ci sono autori (come Vito Mancuso, Alberto Maggi, Ortensio da Spinetoli…) che, ospitati da editori non etichettabili come ‘cattolici’, vendono migliaia di copie.
Una ragione è da ricercare, senz’altro, in una sorta di provincialismo della rete di distribuzione e di vendita, soprattutto nei punti terminali (le librerie): il libraio ‘medio’ dà per scontato che il cliente abituale non sia interessato a libri ‘cattolici’ , non accetta in conto-vendita libri simili e proprio la mancanza di offerta decrementa ulteriormente la domanda.
Ma ci sono ragioni più radicali. Gli autori ‘teologici’ più venduti sono, solitamente, studiosi che non si autocensurano, mentre i teologi che si fermano a poche centinaia di copie sono saldamente inseriti nelle istituzioni, e di conseguenza molto cauti nell’esplorare vie inedite. Probabilmente, una maggiore ampiezza di orizzonti potrebbe rivitalizzare il mercato librario. Infatti il cattolico ‘tradizionalista’, in linea di principio più propenso a leggere la minestra abituale solo un po’ rispolverata, non si appassiona alla lettura; il cattolico ‘progressista’ , più propenso alla lettura, non si appassiona a testi che pestano sullo stesso mortaio.
Papa Francesco ha aperto molte finestre sul mondo, ma con una curvatura soprattutto pastorale, operativa. Questo taglio evangelico è basilare, ma è anche sufficiente? O i rivolgimenti scientifici, filosofici, artistici, politici in atto esigerebbero altrettanta spregiudicata apertura intellettuale? I nostri preti, le nostre suore, i nostri catechisti vanno alimentati esclusivamente con le dottrine tradizionali, più o meno aggiornate, o non li si deve sollecitare a uno spirito critico che non abbia nulla da invidiare al mondo laico? Non si tratta, ovviamente, di privilegiare le tendenze ‘ereticali’ e di emarginare le posizioni più ‘ortodosse’. Non si tratta tanto di contenuti, quanto di livello di discussione: se non si ha paura di sollevare le questioni anche radicali, anche scottanti, poi si possono ospitare le opinioni più disparate. Purché siano risposte – o tentativi di risposta – a domande reali, sofferte. I cibi, anche più raffinati, rimangono sulla tavola se – nel prepararli – non ci si è informati preliminarmente sui gusti, e sulla fame, degli invitati effettivi.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
Sono stato molto soddisfatto della serenità dei toni nonostante la forte distanza fra noi tre.
Su un solo punto ho avvertito un senso di delusione: quando Giuseppe, a proposito del paradigma teologico-filosofico 'post-cristiano' in cui ho dichiarato di riconoscermi alla scuola di tanti pensatori contemporanei, mi ha ribattuto che ciò che chiamo 'paradigma' sarebbe piuttosto una 'moda'. Ora: posso anche capire che si supponga che abbandonare il paradigma cattolico-tomista (da me condiviso sino ai trent'anni) sia come cambiare abito e non si intuisca la sofferenza interiore che simile passaggio comporta. Ma liquidare come fenomeno di 'moda' l'immensa opera di autori profondi come Dietrich Bonhoeffer , Raimundo Panikkar, Hans Kung, Ortensio da Spinetoli, Eugen Drewermann, John Spong, Roger Lenaers, Leonard Boff, Franco Barbero, Carlo Molari, Alberto Maggi, Vito Mancuso, don Ferdinando Sudati …mi pare una mossa eccessivamente semplificante: proprio non ci sono argomenti migliori per giustificare il rifiuto di misurarsi con sfide teoretiche e spirituali di questa livello?
Aggiungo due precisazioni a uso del lettore che voglia farsi anche spettatore del dibattito a tre voci accessibile mediante il link:
https://www.facebook.com/spazioculturalibri/videos/2942908719306184
Prima precisazione (meno importante): nella replica al mio intervento, Giuseppe Savagnone respinge la mia accusa di considerare "una furbata" la tesi di Hans Jonas sulla creazione del mondo come 'ritrarsi' di Dio (Zimzum). Chiunque può constatare dalla videoregistrazione che per me la 'furbata' non consisteva nella teoria di Jonas, ma nella mossa di Giuseppe di presentarla non come una 'negazione' dell'onnipotenza di Dio (tesi tradizionalmente cattolico-tomista) ma come 'affermazione' dell'onnipotenza (espressa al punto da...rinunziarvi e manifestarsi assente). Mi ha ricordato la 'furbata' di Hans Urs von Balthasar quando - senza tema di ridicolo - ha affermato che la sua amica, mistica e benefattrice, Adrienne von Speyer, stava per risuscitare un bambino morto quando pensò che sarebbe stato un miracolo più grande rinunziarvi. E infatti il bambino morto restò tale, a testimonianza dei super-poteri della nobildonna svizzera.
Seconda precisazione (più importante): a un certo punto Giuseppe Savagnone espone, come bivio, da una parte il teismo creazionistico e, dall'altra, la teoria di Monod sull'evoluzione dell'universo come combinato disposto di 'caso' e di 'necessità'. Ma il creazionismo è una tesi filosofico-teologica, l'evoluzionismo monodiano una tesi scientifica: come possono essere in contrasto? Se Monod avesse ragione o torto, lo si deve argomentare con ragionamenti scientifici basati su dati sperimentali. Se l'intero universo (casuale o necessitato o casual-necessitato) è auto-sufficiente ontologicamente o frutto di una perenne creazione divina, lo si deve argomentare con ragionamenti teologici o filosofici. Un mondo descritto alla Monod potrebbe benissimo essere, simultaneamente, ma da un altro punto di vista, un mondo interpretato alla Bergson o alla Teilhard de Chardin o alla Carlo Molari. In proposito il recentissimo premio nobel per la fisica Giorgio Parisi ha scritto una lettera bellissima al direttore del giornale cattolico "Avvenire" ( 12/10/2021) che aveva criticato la frase, attribuita allo scienziato italiano, dal giornalista Gnoli di "Repubblica": " Gentile direttore, quando ho letto la bella intervista di Gnoli, anche io sono stato colpito dalla frase «Dio, per me, non è neanche un’ipotesi ». Era un tentativo di sintetizzare quello che avevo detto, ma a volte le sintesi estreme sono traditrici. Avevo pronunciato parole che testualmente erano simili, ma che avevano ben altro significato. Commentando la frase di Laplace sull’ipotesi Dio, «non ho avuto bisogno di questa ipotesi », ho detto che l’esistenza di Dio non può essere usata alla stregua di una qualsiasi ipotesi scientifica: è qualcosa di diverso che trascende la scienza, e non può essere oggetto di indagine scientifica. Penso che anche lei concordi con me che sarei un pessimo teologo se cercassi di fare un esperimento per dimostrare l’esistenza di Dio e che sarei un pessimo scienziato se cercassi di spiegare i miei dati sperimentali ipotizzando l’esistenza di Dio. Sono fermamente convinto della separazione tra scienza e fede in quanto hanno scopi diversi. La prima si occupa del mondo fisico e cerca di spiegare il mondo in maniera autonoma, la seconda interpreta il mondo basandosi su qualcosa che lo trascende, che esiste indipendentemente dal mondo. Vorrei aggiungere che sono sempre infastidito quando nelle interviste mi domandano le mie opinioni religiose. Non mi pare che lo domandino mai a calciatori, cantanti, modelle, categorie per le quali ho il massimo rispetto. Implicitamente gli intervistatori assumono che gli scienziati posseggano una conoscenza privilegiata di Dio, ma non è vero.
Giorgio Parisi"
LA ‘SINISTRA’ HA VINTO LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE ?
I titoli di giornale non possono essere che sintetici, rischiando l’approssimazione e talora la deformazione. Ma poi – dentro o fuori dallo stesso articolo cui il titolo si riferisce – bisogna chiarire, disambiguare e approfondire. “Alla sinistra le cinque maggiori città italiane”, “L’Italia si scopre a sinistra”…e così via: con quanta verità?
Conosciamo l’obiezione avanzata anche dai leader clamorosamente sconfitti di ‘destra’: le liste di ‘sinistra’ hanno avuto la maggioranza (risicata) di una minoranza di elettori (quel 45 % circa che è andato a votare). Ma è un’obiezione che non mi convince: l’astensionismo è tipico delle democrazie mature in cui non è in gioco, ad ogni turno elettorale, l’impianto costituzionale. E non è vero che chi resta a casa non vota: che lo sappia o no, delega piuttosto la decisione finale ai concittadini e alle concittadine che vanno a votare e che decideranno anche per lui, per lei. Infine, come è stato notato argutamente dall’ignoto autore di un post su Facebook, se solo il 25% degli elettori si è espresso per la ‘sinistra’, sommando ad essi il 55% di astenuti, significa che ben l’ 80% non ha votato per la ‘destra’.
No, le mie riserve sui titoli dei maggiori organi d’informazione emergono la altre considerazioni. Per quanto le differenze fra partiti di ‘destra’ e partiti di ‘sinistra’ si siano progressivamente attenuate dal Sessantotto ad oggi, tuttavia rimangono: lo schieramento che si auto-presenta come tradizionalista, sovranista, nazionalista, militarista, xenofobo, filo-padronale, para-mafioso, irrazionalista, anti-scientifico non è proprio identico a uno schieramento che si auto-presenta come progressista, europeista, internazionalista, anti-razzista, interclassista con particolare attenzione ai ceti deboli, anti-mafioso, illuminista e rispettoso della ricerca scientifica. Ebbene: sulla carta avrebbe vinto il secondo dei due schieramenti, ma nella realtà sarà così? Avremo città in cui scompariranno – o saranno fortemente ridotti – l’evasione fiscale, il lavoro nero, l’abusivismo, l’inquinamento atmosferico, la ghettizzazione degli immigrati, le infiltrazioni mafiose nel mondo della produzione, del commercio, della finanza? Avremo città in cui le amministrazioni locali saranno equanimi rispetto ai ceti benestanti e ai ceti emarginati e, se dovranno privilegiarne alcuni, partiranno da chi ha meno risorse per l’istruzione, la sanità, la piccola imprenditoria?
PER COMPLETARE LA LETTURA, BASTA UN CLICK QUI:
https://www.zerozeronews.it/democrazia-partecipazione-e-dintorni/
LA PROVVIDENZA NELL’EPOCA DEL DISINCANTO
L’ultimo libro del prolifico Giuseppe Savagnone (Il miracolo e il disincanto. La provvidenza alla prova, EDB, Bologna 2021) è il tentativo, intelligente e a tratti toccante, di interpretare l’enigma del male alla luce della dottrina cattolica ‘ufficiale’. Per chi, come me, ha condiviso lo stesso paradigma interpretativo del cristianesimo per la prima metà della sua vita, queste pagine non possono non suscitare struggente nostalgia: com’era bello quando, per dirla con il compianto cardinal Journet (non a caso citato anche qui), si poteva contare sulla certezza che la Chiesa cattolica avesse una risposta illuminante per ogni domanda! Purtroppo, o per fortuna, la ricerca intellettuale e la fdeltà alla verità esigono talora il passaggio da un paradigma a un successivo: e allora tutto quanto è affermato all’interno di una logica, per quanto coerentemente strutturato, non può non risultare anacronistico, quasi eco di un’epoca tramontata per sempre.
Provo a tratteggiare, molto sommariamente, la costellazione teologica all’interno della quale Savagnone delinea la sua “teodicea” (se vogliamo riprendere il termine con cui Leibniz ha tentato la sua “giustificazione di Dio”). Egli presuppone che un Dio personale, anzi tri-personale esista; che Egli si sia rivelato esplicitamente nelle Scritture ebraico-cristiane; che abbia creato dal nulla tutto ciò che esiste; che la Seconda persona della Trinità si sia incarnata nell’uomo Gesù di Nazareth in maniera inedita e irripetibile; che questa persona divina (partecipe da sempre della natura divina e, da un certo momento della storia, anche della natura umana) abbia affidato l’essenziale del suo messaggio a una comunità di fedeli che, grazie all’assistenza continua dello Spirito Santo (Terza persona della Trinità), l’ha fedelmente custodito e trasmesso sino ai nostri giorni.
Anche se si potesse accettare con onestà intellettuale questo quadro di riferimenti “dogmatici” (uso qui l’aggettivo ‘dogmatico’ in senso tecnico, non dispregiativo), non mancherebbero molte obiezioni. Ad esempio: davvero Genesi insegna la creazione dal nulla? I biblisti (a cominciare dagli ebrei) lo negano. Ma, anche se avessero torto, non è depistante affermare che Dio crei il mondo “dal nulla” ? Non sarebbe più corretto e più convincente esprimersi affermando che Dio crei il mondo “da sé stesso”, facendo sì che l’universo partecipi della sua propria sovrabbondanza d’essere? Ma queste sono forse differenze di formulazione.
Per completare la lettura della (breve) recensione, basta cliccare qui:
https://www.zerozeronews.it/i-miracoli-mai-sufficienti-della-provvidenza/
Nella mia modesta posizione di "filosofo di strada" - come Giordano Bruno diceva di sé, "accademico di nulla accademia"; o, per citare Gerd Achenbach, "specialista del generico" - ho cercato mesi fa di dare la mia testimonianza pubblica di dissenso dalle tesi di Agamben e Cacciari (purtroppo condivise da altri colleghi che stimo): https://www.augustocavadi.com/2021/07/vaccino-anti-covid-una-testimonianza-da.html
Non posso dunque che registrare con gratitudine il documento con cui altri cento filosofi e intellettuali italiani prendono posizione pubblicamente affinché ogni lettore/rice, ogni cittadino/a, possa ascoltare almeno due campane e tirare una propria conclusione critica.
Da quasi due anni, accetto nonviolentemente le accuse di conformismo etico, sudditanza intellettuale, gregarismo politico...che alcuni colleghi-filosofi lanciano pesantemente su quanti crediamo nei meccanismi democratici (non so quanto consapevoli, nonostante i loro titoli di studio, di diffondere teorie nazifasciste e leniniste-staliniane: il peggio dell'eredità novecentesca): ma non per questo cambierò di una virgola la mia resilienza ferma quanto mite. Chi sa di essere più vicino alla verità che alla falsità, non ha bisogno di offendere quanti opinano differentemente: che, se mai, andrebbero amichevolmente aiutati a uscire dall'inganno.
Qui il testo pubblicato meritoriamente sulla pagina internet de "Il Fatto quotidiano":
Come filosofi e intellettuali italiani, manifestiamo il nostro senso di disorientamento di fronte al fatto che nella discussione pubblica su temi come la vaccinazione anti-Covid19 e l’istituzione del Green Pass, il contributo della filosofia venga esaurito da pensatori come Giorgio Agamben, ed eventualmente alcuni colleghi, i quali rappresentano invece soltanto il loro punto di vista su questi temi. Riteniamo che sia importante dissociarsi dalle opinioni di Agamben (e colleghi) almeno sui seguenti punti.
1) Il contributo della filosofia nei confronti della scienza. Sebbene la filosofia debba certamente assumere un ruolo critico in relazione alla scienza, questo ruolo critico non può mancare di rispettare i risultati scientifici riportandoli non correttamente. Per esempio è falso sostenere, come ha fatto Agamben nell’audizione di qualche giorno fa al Senato, che i vaccini anti-Covid19 siano in una fase sperimentale: sono stati testati.
2) La relazione dello Stato nei confronti dei cittadini. È improprio sostenere che ci troviamo in un’epoca in cui l’eccezionalità è diventata la regola, e che l’obbiettivo sia il controllo dello Stato sulla cittadinanza, sul modello di quanto fatto da forme di dispotismo come quello sovietico. Siamo di fronte a un’emergenza sanitaria. che non ha nulla a che fare con altre forme di emergenza (come la lotta al terrorismo). Tale emergenza richiede procedure che sempre sono state adottate in questi casi a tutela degli interessi della comunità: si pensi alla vaccinazione di massa svolta ai tempi del colera – 1973! – a Napoli.
3) La pretesa discriminazione tra cittadini. Contro quanto sostenuto negli stessi contesti da Agamben, che ha impropriamente, e offensivamente, paragonato l’adozione del Green Pass all’istituzione delle leggi razziali contro la popolazione di origine ebraica nel 1938, tale adozione non induce nessuna discriminazione tra classi di cittadini, avendo come suo scopo semplicemente la protezione della società nel suo complesso, riducendo la possibilità di contagio nell’incentivare le vaccinazioni. Sostenere il contrario sarebbe come sostenere che l’istituzione della patente di guida, fatta per limitare il più possibile il numero e l’entità degli incidenti stradali, determini una distinzione tra cittadini di serie A e cittadini di serie B.
4) La pretesa repressione della libertà individuale. L’istituzione del Green Pass non comporta nessuna repressione della libertà individuale, essendo una condizione arcinota nelle comunità sociali che la libertà di una persona finisce quando lede la libertà di un’altra o le reca danno. Sostenere il contrario sarebbe ancora una volta equivalente a sostenere che l’adozione di regole di circolazione sia lesiva della libertà individuale di movimento.
Firmato:
Fabrizia Abbate (Università del Molise)
Ines Adornetti (Università di Roma Tre)
Mario Alai (Università di Urbino)
Cristina Amoretti (Università di Genova)
Tiziana Andina (Università di Torino)
Fabio Bacchini (Università di Sassari)
Carla Bagnoli (Università di Modena e Reggio Emilia / All Souls College, Oxford)
Carola Barbero (Università di Torino)
Francesco Bellucci (Università di Bologna)
Matteo Bianchin (Università di Roma Tor Vergata)
Francesco Bianchini (Università di Bologna)
Stefano Biancu (LUMSA Roma)
Francesca Boccuni (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Sofia Bonicalzi (Università di Roma Tre)
Domenica Bruni (Università di Messina)
Barbara Bruschi (Università di Torino)
Clotilde Calabi (Università di Milano)
Angelo Campodonico (Università di Genova)
Marco Carapezza (Università di Palermo)
Roberto Casati (CNRS Parigi)
Massimiliano Carrara (Università di Padova)
Roberto Celada Ballanti (Università di Genova)
Emanuela Ceva (Università di Ginevra)
Riccardo Chiaradonna (Università di Roma Tre)
Carlo Chiurco (Università di Verona)
Carmelo Colangelo (Università di Salerno)
Giovanna Cosenza (Università di Bologna)
Ines Crispini (Università della Calabria)
Antonio Da Re (Università di Padova)
Richard Davies (Università di Bergamo)
Mario De Caro (Università di Roma Tre)
Ciro De Florio (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)
Marina De Palo (Università di Roma La Sapienza)
Massimo Dell’Utri (Università di Sassari)
Roberta De Monticelli (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Fabrizio Desideri (Università di Firenze)
Anna Donise (Università di Napoli Federico II)
Mauro Dorato (Università di Roma Tre)
Francesca Ervas (Università di Cagliari)
Adriano Fabris (Università di Pisa)
Mariannina Failla (Università di Roma Tre)
Vincenzo Fano (Università di Urbino)
Riccardo Fedriga (Università di Bologna)
Francesco Ferretti (Università di Roma Tre)
Luca Forgione (Università della Basilicata)
Pasquale Frascolla (Università di Napoli Federico II)
Aldo Frigerio (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)
Matteo Galletti (Università di Firenze)
Gabriele Gava (Università di Torino)
Elisabetta Galeotti (Università del Piemonte Orientale)
Stefano Gensini (Università di Roma La Sapienza)
Cristiano Giorda (Università di Torino)
Giuseppe Giordano (Università di Messina)
Benedetta Giovanola (Università di Macerata)
Fabrizia Giuliani (Università di Roma La Sapienza)
Elisabetta Gola (Università di Cagliari)
Simone Gozzano (Università dell’Aquila)
Mario Graziano (Università di Messina)
Andrea Iacona (Università di Torino)
Elisabetta Lalumera (Università di Bologna)
Giorgio Lando (Università dell’Aquila)
Giovanni Leghissa (Università di Torino)
Paolo Leonardi (Università di Bologna)
Federica Liveriero (Università di Pavia)
Christoph Lumer (Università di Siena)
Sarin Marchetti (Università di Roma La Sapienza)
Costantino Marmo (Università di Bologna)
Antonio Marturano ((Università di Roma Tor Vergata)
Cristina Meini (Università del Piemonte Orientale)
Simona Morini (IUAV Venezia)
Vittorio Morato (Università di Padova)
Roberto Mordacci (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Maurizio Mori (Università di Torino)
Sebastiano Moruzzi (Università di Bologna)
Sandro Nannini (Università di Siena)
Gloria Origgi (CNRS Parigi)
Elisa Paganini (Università di Milano)
Alfredo Paternoster (Università di Bergamo)
Antonio Pennisi (Università di Messina)
Pietro Perconti (Università di Messina)
Francesca Piazza (Università di Palermo)
Tommaso Piazza (Università di Pavia)
Matteo Plebani (Università di Torino)
Simone Pollo (Università di Roma La Sapienza)
Francesca Pongiglione (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Paolo Ponzio (Università di Bari)
Pier Paolo Portinaro (Università di Torino)
Maria Antonietta Pranteda (Università di Torino)
Massimo Reichlin (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Gino Roncaglia (Università di Roma Tre)
Maria Russo (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Paola Rumore (Università di Torino)
Antonio Dante Santangelo (Università di Torino)
Elisabetta Sacchi (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Roberta Sala (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Aldo Schiavello (Università di Palermo)
Marco Segala (Università dell’Aquila)
Sarah Songhorian (Università Vita-Salute S. Raffaele)
Lucio Spaziante (Università di Bologna)
Giuseppe Spolaore (Università di Padova)
Ilaria Tani (Università di Roma La Sapienza)
Gino Tarozzi (Università di Urbino)
Giuliano Torrengo (Università di Milano)
Guido Traversa (Università Europea)
Vera Tripodi (Università di Milano)
Giovanni Tuzet (Università Bocconi)
Maria Silvia Vaccarezza (Università di Genova)
Ugo Volli (Università di Torino)
Alberto Voltolini (Università di Torino)
Su cosa abbiamo riflettuto e dialogato insieme, questa estate, nel corso delle "vacanze filosofiche per non...filosofi (di professione)"?
Più in generale, in cosa consiste questa "pratica filosofica di gruppo" aperta a chiunque abbia desiderio di ragionare e confrontarsi serenamente con altre persone ugualmente motivate?
Potete visitare il sito seguente (e, se lo desiderate, iscrivervi gratuitamente agli aggiornamenti automatici per averne notizia direttamente sulla vostra casella di posta elettronica).
CLICCARE QUI (e pi esplorare a piacere il sito):
https://vacanze.filosofiche.it/2021/09/16/sintesi-degli-interventi-a-cura-di-elio-rindone/
La storia delle chiese cristiane è contrassegnata, sin dalle origini, dal culto dei martiri. Dovremmo dire – dal momento che ‘martire’ è il vocabolo greco per designare il ‘testimone’ – dei martiri per eccellenza: di quei testimoni ‘ordinari’ che, di fronte alle minacce estreme, hanno preferito morire anziché rinnegare la fede, diventando così ‘straordinari’.
Sino a qualche decennio fa questo schema è rimasto, sostanzialmente, immutato: la chiesa cattolica (come le chiese ortodosse) propone alla venerazione dei fedeli solo chi cade assassinato da infedeli a causa della sua fede religiosa. Ma la storia del Novecento e del nostro secolo registra casi che mettono in crisi tale schema. Per esempio, Massimiliano Kolbe è stato trucidato da cristiani (cattolici e protestanti) obbedienti a Hitler: si può dire che sia stato un “martire della fede”? Paolo VI coniò per lui la formula “martire dell’amore”. E, in effetti, sarebbe logico separare la “fede” dall’ “amore” se non riducendo la prima – da atteggiamento complessivo dell’esistenza – ad accettazione intellettualistica di una serie di dottrine ritenute “rivelate”?
In tempi più vicini a noi, anche il Meridione italiano ha registrato degli eventi inediti: cattolici ferventi (come Angelo Rosario Livatino, Paolo Borsellino, don Pino Puglisi, don Peppino Diana), attivamente impegnati nel contrasto al dominio mafioso, che vengono assassinati da altri (sedicenti) fedeli cattolici. Come porsi di fronte a questi che Urs von Balthasar avrebbe definito “casi seri” ?
Un primo orientamento – condiviso, per ragioni opposte, in ambienti vaticani e in aree ‘laiche’ del movimento antimafia – è stato di tener ferma la distinzione ‘tradizionale’ fra sfera religiosa e sfera civile. Se un magistrato o anche un prete vengono uccisi non in quanto cattolici, ma in quanto oppositori del regime mafioso, la chiesa non ha né il dovere né il diritto di pronunziarsi: si tratta di vittime della giustizia degli uomini, della legalità statuale. La chiesa non può compromettere il suo prestigio prendendo posizione su questioni tutto sommato ‘basse’, riguardanti la dialettica ‘temporale’ fra istituzioni civili e criminalità. Essa vola più in alto rispetto alla perenne contesa fra guardie e ladri (ben sapendo che spesso i ruoli si invertono e solo troppo tardi ci si accorge dell’inganno). D’altronde – è questo il tasto su cui hanno insistito gli ambienti dell’antimafia esterni al mondo ecclesiale – perché la chiesa, abitualmente estranea alle strategie di contrasto alla criminalità organizzata, dovrebbe ‘mettere il cappello’ su alcune vittime? Esse erano cattoliche ma non sono state assassinate in quanto cattoliche, bensì perché impegnate professionalmente o socialmente. La loro eredità spirituale è, essenzialmente, civile: e va affidata esclusivamente alla memoria dei concittadini (di qualsiasi convinzione ideale e ideologica).
Questo primo orientamento – che sembrava tanto solido da risultare immodificabile – è stato gradualmente ripensato ad opera di teologi cattolici particolarmente sensibili alle tematiche storico-sociali. La radice di questo ripensamento – come viene illustrato nel volume a più mani, curato da M. Naro e S. Tanzarella, Martiri per la giustizia, martiri per il Sud. Livatino, Puglisi, Diana, testimoni della speranza (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2021, pp. 229, euro 23,00) – è una lettura esegeticamente più attenta dei vangeli, dalla quale si evince che Gesù ha proposto ai discepoli non tanto l’adesione a un insieme di ‘verità’ dogmatiche sull’altro mondo, bensì l’impegno per realizzare il ‘regno di Dio’ (cioè una convivenza pacifica, solidale, compassionevole) in questo mondo. Queste nuove acquisizione ‘scientifiche’ sul modo di leggere la Bibbia hanno comportato dei rivolgimenti enormi (anche se comunicati all’opinione pubblica in maniera felpata, rassicurante) anche nella ‘pastorale’ (come viene definita, con termine inopportunamente bucolico, la pedagogia ecclesiale): come è evidente dal Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 1965) in poi, l’ ‘evangelizzazione’ va intrecciata, inseparabilmente, con la ‘promozione umana’. Se è così, il fedele non si santifica soltanto quando annunzia con le labbra il vangelo, lo predica, lo spiega ai ragazzini nel corso delle catechesi…ma, almeno altrettanto, quando difende i diritti dei deboli, le ragioni della giustizia, gli spazi della libertà. E il martire va venerato come tale, dunque, anche se muore assassinato da altri (sedicenti) cattolici come i mafiosi. Ogni ‘beatificazione’ di una persona che – secondo la felice formula di Giovanni Paolo II muore “martire della giustizia e, indirettamente, della fede” (9 maggio 1993, Agrigento) – è, o potrebbe essere se venisse correttamente interpretato, un duplice monito.
Innanzitutto ai mafiosi, ai loro complici, ai cittadini ignavi che perseguono un’impossibile ‘neutralità’ fra Stato democratico e organizzazioni criminali: ogni volta che aggredite un 'giusto' - di qualsiasi orientamento culturale e politico (magistrato o prete, imprenditore o giornalista, sindacalista o avvocato) – voi tradite - lo sappiate o meno - il messaggio di Cristo (di cui vi dichiarate seguaci).
Ma un secondo monito va all’intera popolazione (sedicente) cattolica: non illudetevi che catechesi e liturgie, devozioni e processioni, elemosine e lasciti testamentari esauriscano il vostro compito di credenti. Poiché fede e giustizia non sono separabili, una fede senza giustizia è ipocrita. Occuparsi del territorio in cui si vive o in cui si è parroci, rispettare e far rispettare le leggi vagliate come costituzionali, combattere ogni minima concessione alla corruzione, prendere le parti degli impoveriti della propria società e più ampiamente del pianeta, difendere l’equilibrio ambientale e la sensibilità dei fratelli più piccoli che sono gli altri animali…questi e tanti altri ambiti di vigilanza e di operatività non appartengono all’optional. Chi cade combattendo su questi fronti, merita la gratitudine di tutti i cittadini (di qualsiasi convinzione personale); ma merita anche la gratitudine di chi si dichiara credente cristiano perché martire “indirettamente” del vangelo.
Il libro è impreziosito da due capitoli dedicati, rispettivamente, al presbitero rumeno Vladimir Ghika ( 1873- 1954 ), passato dalla chiesa ortodossa alla chiesa cattolica, e al pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945): due casi analoghi ai martiri del Meridione italiano, benché distanti nello spazio e nel tempo, dal momento che le motivazioni ufficiali del loro calvario e della loro morte non sono state la ‘fede’ cristiana ma l’attività diplomatica sgradita al regime social-comunista (nel caso di Ghika) e la partecipazione all’attentato (fallito) ai danni di Hitler (nel caso di Bonhoeffer).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com