15.9.2021
Le tre autocritiche che non ho letto nell’articolo
dell’Arcivescovo Corrado Lorefice su don Pino Puglisi
Un arcivescovo-pastore ha saputo tratteggiare, con sobria autenticità, la figura di don Puglisi, martire-pastore. Chi conosce un po’ la situazione ecclesiale siciliana, però, non può evitare di notare una lacuna: l’autocritica. Almeno un accenno di autocritica. Almeno su tre aspetti della questione.
Primo: di con Pino Puglisi, monsignor Lorefice scrive – pertinentemente – che “era veramente un pedagogo, aveva nel sangue una capacità maieutica: far crescere l’altro e condurlo alla vita adulta, alla piena statura dell’intrinseca e inalienabile dignità umana, alla libertà dei figli
di Dio”. Ma i preti della nostra diocesi sono, in maggioranza, sulla stessa linea emancipativa o mostrano diffidenza, paura, talora disistima nei confronti dei fedeli laici delle proprie comunità? L’arcivescovo sa quanti sono i suoi preti (anziani e – cosa ancor più triste – giovani) arroccati nella propria posizione di ‘capi’, incapaci di condividere responsabilità e funzioni con donne e uomini della parrocchia, molto spesso più ‘maturi’ e più ‘saggi’ di loro. E’ chiaro che non dipende da un arcivescovo la mentalità dominante dei suoi presbiteri; che egli deve costruire case con gli operai a disposizione. Ma ammettere, pubblicamente, che ancora troppi parroci si interpretano e si comportano come ‘boss’ cui si deve rispetto e obbedienza, sarebbe un atto di trasparenza evangelica.
Secondo aspetto: secondo monsignor Lorefice, don Pino Puglisi, convinto che “il Vangelo diventa lievito di trasformazione della storia”, “si era battuto per avere
scuole, centri per anziani e giovani, spazi aggregativi e di confronto, coinvolgimento delle istituzioni”. Ebbene, anche su questo versante, quando si ode la voce delle comunità parrocchiali per chiedere, a fianco dei cittadini di ogni appartenenza religiosa o partitica, che le istituzioni funzionino almeno decentemente a presidio della legalità sostanziale? Il clericalismo, denunziato tante volte dall’attuale papa-pastore Francesco, è solitamente congiunto a un devozionismo auto-referenziale: la vitalità di una parrocchia viene misurata sul numero delle ‘prime comunioni’ e delle ‘cresime’ che vi si celebrano, non sulla incidenza reale nel tessuto sociale circostante, al cui degrado ci si abitua come a dati naturali immodificabili.
Infine, un terzo aspetto della questione: memore della ricerca intellettuale in cui era impegnato il parroco di Brancaccio, l’arcivescovo di Palermo (che nel suo discorso di presentazione dal balcone del Municipio citò Peppino Impastato accanto a don Puglisi) ricorda che “l’antimafia vera è quella di uomini e di donne che nella fedeltà agli impegni della loro vita personale, familiare e sociale, erodono il campo alla cultura e alla prassi mafiosa che arreca un grave pregiudizio allo sviluppo economico, sociale e culturale dei nostri territori”. Perfetto ! Ma per contrastare la cultura e la prassi mafiose bisognerebbe conoscerle, o no? Avere delle cognizioni essenziali, ma scientificamente serie e aggiornate. Tranne qualche lodevole eccezione di preti ben noti (che, tra l’altro, dopo essere stati isolati dai propri confratelli come fastidiosi grilli parlanti, sono andati o si avviano ad andare in quiescenza per ragioni di età) e di qualche laico-credente (che, comunque, percepisce se stesso come voce clamante nel deserto), una formazione sulla mafia – sulla sua storia, sulla sua struttura attuale, sui legami con la politica e l’economia, sulla sua visione del divino e dell’etica – è pressoché assente sia nel percorso di studi teologici dei nuovi preti sia nelle catechesi parrocchiali per giovani e per adulti. Così anche negli ambienti ecclesiali, come nel resto della società italiana, la mafia c’è se spara e fa stragi col tritolo; non c’è se chiede il pizzo all’ottanta per cento dei commercianti e degli imprenditori di ogni settore; se ricicla somme da capogiro mediante banche compiacenti; se corrompe funzionari pubblici ad ogni livello per lucrare sullo smaltimento dei rifiuti o sullo spaccio delle droghe illegali. L’ignoranza sul vero volto del sistema mafioso – sulla sua ammirevole capacità di mantenere l’identità tradizionale adattandola alle svolte epocali – è un regalo che le agenzie educative (dunque anche le chiese cristiane) non dovrebbero permettersi di omaggiare agli uomini e alle donne del disonore.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
2 commenti:
Condivido appieno e magari il vescovo di Palermo potrebbe farsi carico di "aggiornare" i preti della diocesi e quindi di rimando le comunità parrocchiali.
Pensi che Lorefice sia disponibile in questa svolta civica? Hai inviato a lui le tue riflessioni preziose?
Buona giornata
Gabriella
Caro Augusto,
grazie dell'articolo con l'invito all'autocritica e, sottinteso, l'invito a realizzare situazioni alternative. Riusciranno i nostri eroi...?
Tanto per restare in tema, son venuto a conoscenza del fatto che nel santuario di Altavilla Milicia vogliono cambiare l'altare e tutto il presbiterio, che era stato progettato opportunamente dall'architetto salesiano don Gorgone, secondo le regole del Concilio, con materiali anche preziosi oltre che a regola d'arte e realizzato no più di 20/30 fa. Ad quid questo doppio (non mi pare che il nuovo progetto sia migliore del precedente!) inutile spreco, la cui spesa, abbastanza cospicua, peserà sulle spalle dei fedeli e per la quale anche il Comune (laico) di Altavilla ha elargito un contributo? Non mancano, evidentemente le lamentele di fedeli, inascoltate; ma tanto, purchè tutto sia ad maiorem ... hominis gloriam!
Un abbraccio e a presto
vostro, cioè di te e e di Adriana
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