AA.VV., Il gruppo Deep Philosophy. Storia, teoria, tecniche, a cura di R. Lahav, trad. it. M. Bavieri, Loyev Books, Hardwick 2019, pp. 114, euro 10,00
Per chi di noi ha contribuito, nei primissimi del XXI secolo, a importare la “consulenza filosofica” in Italia, Ran Lahav ha costituito un punto di riferimento e, a questo titolo, è stato anche invitato a tenere un seminario sull’argomento a Roma. Nei venti anni successivi ognuno di noi ha coltivato i semi iniziali in direzioni differenti che lo hanno indotto o a preservare la pratica professionale della consulenza filosofica in senso achenbachiano da contaminazioni esterne o ad integrarla in una costellazione più ampia di pratiche filosofiche o ad abbandonare del tutto l’idea originaria di consulenza filosofica per sostituirla con altre modalità (ugualmente extra-accademiche) di filosofia-in-pratica. Lahav sembra collocarsi in questa terza tendenza e questo agile volumetto a più mani, tradotto in italiano da Massimiliano Bavieri, sembra attestarlo in maniera inequivoca. Esso viene infatti dedicato alla Deep Philosophy, “un modo contemplativo di filosofare che viene praticato” da un gruppo nato in un borgo (Brado) nei pressi di Torino a conclusione di un “ritiro” svoltovi nel settembre del 2017 (p. 1). Nel primo capitolo è lo stesso Lahav a illustrarne sinteticamente i “cinque pilastri” (p. 6): l’ “anelito alla realtà” (p. 7) grazie al quale siamo proiettati, estaticamente, fuori da noi per cogliere ciò che è davvero, e che merita di essere riconosciuto e amato; la “profondità interiore” (p. 8) ossia il grado di coinvolgimento esistenziale con cui tendiamo ad esperire la dimensione fondamentale della realtà; il “pensare ‘da’ (dare voce)” (p. 9) ossia l’atteggiamento per cui ci accostiamo a ciò che conta mediante la vigilanza intellettuale, ma per così dire pensando “dalla” realtà (ascoltando il suo modo di risuonare nella mia profondità interiore) e non soltanto su “di” essa;
“filosofia” e dunque con l’intento non soltanto di “sperimentare la realtà” (come i poeti e i mistici), ma anche di “comprenderla” elaborando “idee filosofiche” (p. 10); “insiemità” ossia in assetto comunitario con lo scopo che il proprio pensiero divenga “parte di un orizzonte più ampio, di una polifonia più ricca, di una realtà più completa” (p. 12).
Nel secondo capitolo Michele Zese, tramite il racconto di uno dei primissimi ‘ritiri filosofici’, ne espone una struttura tipica: si sceglie un brano filosofico; lo si legge e rilegge a voce alta per comprenderlo (“lettura interpretativa”); si focalizza qualche passaggio ritenuto più significativo (“centratura”); ci si concede un’ora di silenziosa “contemplazione” in gruppo (la “ruminatio” della tradizione monastica cristiana) in cui ciascuno è invitato a collegare idee e intuizioni con “un’esperienza personale avuta di recente” ; infine si restituisce al gruppo il risultato di questo collegamento fra pensieri e vita vissuta “per mezzo di frasi brevi e concise, nella procedura che noi chiamiamo «parlare prezioso» ” (p. 20). A completamento delle sessioni canoniche principali si svolgono anche “sessioni sperimentali” quali “una passeggiata contemplativa” scandita dalla lettura di “paragrafi tratti da L’unico e la sua proprietà del filosofo tedesco Max Stirner” o anche la drammatizzazione di un testo filosofico, a riprova che “vi sono molti modi in cui si può essere coinvolti e trasformati da un testo filosofico” (p. 23).
Un commento esplicativo sulla struttura di una sessione tipica è offerto da Francesca D’Uva nel terzo capitolo. Di particolare rilevanza, almeno a mio parere, la sottolineature che le tecniche adottate(lettura interpretativa con eventuale “mappa delle idee”, “ruminatio”, “parlare prezioso”) sono funzionali alla possibilità per ciascuno dei partecipanti di avere “profonde intuizioni”: ‘profonde’ nel doppio senso di originare dalla profondità dell’io e di cogliere aspetti non superficiali della Totalità in cui siamo immersi. Un possibile arricchimento è dato dall’integrazione della “fase contemplativa” (p. 31) con esercizi silenziosi pensati “per far giungere al linguaggio le profonde intuizioni che ogni partecipante ha sperimentato”: ad esempio “scrivere un paio di versi poetici” o “la realizzazione di un disegno” (pp. 31 – 32). Come in assetti del genere è possibile, a sessione conclusa, una “meta-conversazione” che consenta di “far conoscere al conduttore le reazioni dei partecipanti e aiutare il gruppo Deep Philosophy a pensare al futuro sviluppo delle sue attività” (p. 32).
Sulle “procedure per lo studio dei testi” (p. 42) filosofici in queste pratiche si sofferma, nel quarto capitolo, Massimiliano Bavieri. Alle indicazioni fornite dai co-autori dei capitoli precedenti egli aggiunge alcune precisazioni. Per esempio che, nel corso della “lettura interpretativa”, è lecito – se “si rimanga colpiti da interpretazioni date da uno o più lettori precedenti” – “entrare in risonanza non solo col testo, ma anche con le parole degli altri partecipanti alla sessione “ (p. 47). Oppure che i testi solitamente scelti appartengono a “quelli che noi chiamiamo ‘filosofi trasformativi’, perché invitano il lettore a cambiare atteggiamento nei confronti della vita. I loro scritti realizzano ciò che Kierkegaard chiama ‘comunicazione esistenziale’, che è un parlare e uno scrivere che incoraggia il lettore a lasciarsi alle spalle – o almeno a modificare – i suoi atteggiamenti inautentici, così che possa essere creato spazio affinché trovi espressione una realtà più profonda, includente anche una concezione di fondo della vita e della realtà. Questo tipo di comunicazione è opposta a quella oggettiva, in cui si ha a che fare solo con ciò che può essere descritto e misurato” (pp. 52 – 53).
Alla focalizzazione della nozione, centrale in questa modalità di praticare filosofia, di “profondità interiore” è dedicato il quinto capitolo, a firma di Kirill Rezvushkin. Egli prova a illustrare questa categoria come “punto d’incontro di diverse prospettive complementari”: la “prospettiva autobiografica personale” (p. 55), la “prospettiva della nostra attività di gruppo” (p. 58), le “prospettive delle teorie filosofiche” (p. 59) e le “prospettive religiose e psicologiche” (p. 65). Tra le considerazioni più significative (almeno a mio sommesso avviso) disseminate in queste pagine: “la psicologia e la religione” non hanno l’esclusiva del potere di “trasformare le persone” (p. 57); se ci si riunisce con l’intento di “trovare accesso “ a una dimensione interiore” che “sia fonte di vitalità”, si sperimenta una “interazione” molto diversa che “nelle fredde discussioni accademiche” (p. 58); cosa ognuno intenda per “profondità interiore” lo si può esprimere mediante “metafore” più che “in un modo che sia razionale e analitico” (p. 62); nella ricerca filosofica della ‘profondità’ possono riuscire di sostegno sia la psicoterapia (se dobbiamo risolvere “esperienze traumatiche” pregresse, p. 66) sia le tradizioni religiose (quando non pretendono di includere le esperienze spirituali in angusti limiti confessionali). A bilancio concluso, chi sperimenta – almeno per qualche ora – la profondità interiore porta con sé un nuovo “senso della realtà e del tempo” (p. 70).
Sulla sottolineatura della ‘preziosità’ che impregna i vari momenti di una sessione di Deep Philosophy è imperniato il contributo di Stefania Giordano (corrispondente al sesto capitolo). L’autrice precisa che tale pratica non si prefigge il compito di “curare problemi psicologici o di alleviare l’angoscia, perché secondo noi la vita non ruota intorno alla questione della malattia e della salute”; né di “trovare cure per problemi personali, ma di cercare fugaci raggi di luce in una foresta buia – di trovare l’elemento prezioso all’interno della nostra vita” (p. 74). E aggiunge: “E’ chiaro che, a differenza del counseling filosofico, noi non cerchiamo di individuare meccanismi o modelli psicologici, né di modificare – al fine di migliorarlo – un modello emotivo o comportamentale” (p. 78). (L’autrice mostra qui una nozione di “counseling filosofico” tipica dell’associazione Sicof cui appartiene e ben diversa dalla “consulenza filosofica” - come perimetrata dalla nostra associazione professionale Phronesis - che è distante da intenti terapeutici almeno quanto la Deep Philosophy).
Nel penultimo capitolo Sebastian Drobny tematizza la “polifonia filosofica” che costituisce il “modo principale di interagire gli uni con gli altri” (p. 83) in una sessione di pratica filosofica: “come i musicisti jazz che suonano insieme, le diverse voci filosofiche non suonano le une contro le altre, ma, piuttosto, le une con le altre, in ‘insiemità’. Ascoltandosi a vicenda, i partecipanti sono ispirati a creare le proprie melodie in armonia con gli altri” (p. 84). Questo “significa che vada tutto bene e che ogni idea sia buona” (p. 85)? Non necessariamente. Si tratta solo di sospendere provvisoriamente, nel corso di una sessione, il diritto/dovere filosofico di ‘polemizzare’ con gli argomenti di altri. (Forse già l’esposizione della propria visione filosofica può essere sufficiente per vivacizzare il quadro, senza esplicitare la “critica” delle idee altrui). Solo così ognuno si alleggerirà dalla preoccupazione che gli amici possano osservare con “occhi giudicanti”, valutare una sua idea “immatura o difettosa” e, dunque, solo così - restando “fianco a fianco” - “i pensieri scorrono liberamente. Sviluppandosi l’uno dall’altro, senza che l’atmosfera contemplativa venga interrotta” (p. 91).
L’ultimo capitolo, redatto da Sergey Borisov, è dedicato alla pratica individuale della recollection, termine inglese che vorrebbe evocare il duplice significato di “ricordo”, ma “anche di ‘trovare di nuovo’ (re-collecting) se stessi, ossia di ritrovarsi dopo essersi persi nelle attività della vita quotidiana” (p. 101). Si tratta, molto semplicemente, di ritagliarsi degli spazi giornalieri di ‘raccoglimento’ (parola che mi sembrerebbe una soddisfacente traduzione di recollection) in cui ascoltare “interiormente tutte quelle profonde intuizioni che possono sorgere dentro di noi, o agitarsi nella mente. Per facilitare questo processo, si può leggere con cura un breve testo di una recente sessione contemplativa, o recitare più volte una frase, copiata su carta in precedenza, oppure ci si può sedere a fare contemplazione per alcuni minuti, oppure si può scrivere una frase lentamente e con cura, e così via. In seguito – per esempio alla fine della giornata – le intuizioni che saranno sorte nella mente vengono messe per iscritto. Al termine della settimana, le recollection possono essere inviate a un compagno – il ‘lettore’ – che, a sua volta, può rispondere, commentando in modo non giudicante” (p. 102).
Al termine della lettura di questo dossier , insieme all’ammirazione per un’ennesima modalità di sperimentare “la svolta pratica della filosofia” (come direbbe Davide Miccione), possono sorgere perplessità e interrogativi. Al primo di questi ( può un’attività filosofica seguire un metodo di ricerca pre-stabilito?) mi pare che gli autori rispondano in maniera confortante: gli elementi essenziali della Deep Philosophy non vanno abbracciati come “dogmi. Essi servono come indicatori della direzione generale verso cui ci stiamo dirigendo insieme, e sappiamo che in futuro potrebbero cambiare, mano a mano che proseguiamo nel nostro cammino”. Più che “punti di arrivo”, dunque, si tratta di “semi” destinati “ad un ulteriore arricchimento e sviluppo” (così Lahav a p. 12). Se metodo c’è, va inteso e adottato in maniera flessibile, elastica, creativa. Ad una seconda perplessità (può una pratica filosofica mettere fra parentesi la dialettica delle idee su una determinata tematica?) i co-autori rispondono in maniera indiretta (dunque non del tutto inequivoca e soddisfacente). “Nella filosofia tradizionale,” – leggiamo ad esempio a p. 84 – “è normale che vengano analizzate idee e sviluppati argomenti a favore o contro idee di altri filosofi”: sarebbe stato meglio, allora, asserire in maniera più esplicita che questa pratica contemplativa non ha l’intento di sostituire tutte le altre modalità di filosofare nelle quali il confronto, l’esame critico, la confutazione, l’auto-correzione, la “lotta amorevole” (per riprendere Karl Jaspers) sono momenti non solo legittimi, ma addirittura costitutivi e ineliminabili. A una terza riserva - devo ammettere - non ho trovato, nei vari contributi raccolti in questo volume, elementi sufficienti per rassicurarmi. Le pratiche meditative producono spesso “un senso di abbondanza e di completezza” (p. 61), “un forte sentimento esistenziale di autenticità, accompagnato da un senso di felicità” (p. 64): chi le vive, si aspetta tali stati d’animo e li persegue intenzionalmente. Ma questa attesa e questo risultato come si conciliano con l’inquietudine incessante dell’indagine filosofica? Non può darsi che la meditazione in “profondità” – dalla profondità del nostro essere e sulla profondità della totalità dell’essere che ci circonda –, invece di regalarci pace e letizia, ci sollevino dubbi angoscianti e ci facciano intravedere abissi di insensatezza? Mi torna qui, inaggirabile, l’avvertenza hegeliana sulla filosofia che non dev’essere consolatoria a tutti i costi. Per queste perplessità mi sentirei più in sintonia con i colleghi che percorrono pionieristicamente il sentiero della “filosofia profonda” se presentassero il loro metodo come una modalità sì di aprirsi “alla realtà, alla sua abbondanza e ai suoi molteplici aspetti” (p. 100), ma intendendo per “realtà” anche la storia in cui siamo immersi, con il suo carico di sofferenze e di cattiverie. Essi vivono la loro pratica filosofica nell’alveo degli “esercizi spirituali” su cui tanto ci ha insegnato Hadot. A me questa tradizione dice molto, ma a patto di intendere la spiritualità come sistole e diastole, inspirazione ed espirazione, moto centripeto e moto centrifugo: ritorno al proprio intimo, ma inseparabilmente proiezione nel sociale. Nei vari contributi non ho trovato, neppure en passant, un riferimento – diretto o indiretto – all’impegno politico. L’invito a interrompere il cieco attivismo, tipico non solo del capitalismo iperproduttivistico ma anche della militanza diuturna contro di esso, ritagliandosi, da soli o in buona compagnia, degli spazi di meditazione, mi risulta opportuno, anzi necessario. Purché (alla scuola di Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Kant, Hegel, Marx, Levinas, Popper…) il distanziamento dalle convulsioni della cronaca quotidiana non venga mai assolutizzato, separato dalla memoria della sofferenza dei viventi e dalla progettazione lucida di possibili rimedi. Spiritualità in senso laico, integrale, filosofico è – a mia meditata convinzione – fioritura della nostra soggettività in tutte le possibili direzioni: dunque anche nella relazione con l’altro, specie se il peso delle ingiustizie gli ha oppresso il petto e tolto la voce. Solo a queste condizioni la dimensione contemplativa della vita eviterà il rischio di essere privilegio di pochi benestanti e diventerà il diritto/dovere di tutti i mortali che vogliano vivere in “profondità” la breve esistenza terrena.
Augusto Cavadi
La recensione è stata pubblicata sull’ultimo numero della rivista “Phronesis” ed è scaricabile gratis al link: https://www.phronesis-cf.com/numero-4-luglio-2021/
* La foto riproduce un quadro in cui Confucio consegna a Lao Tze il bambino Buddha.
6 commenti:
Grazie Augusto della recensione di The Deep Philosophy Group.
Condivido le tue perplessità riguardo al problema dell'assenza di una dimensione sociale della deep philosophy. Nelle discussioni all'interno del nostro gruppo ci siamo però a volte chiesti in che modo e fino a che punto la nostra attività possa essere "politica". Forse in futuro affronteremo più seriamente la questione.
Negli ultimi anni (mi faccio un po' di pubblicità!) ho tradotto e commentato "La malattia mortale" di Kierkegaard (ed. Agorà e co., 2021) e ho scritto "Frammenti sull'Essere e sul nulla", pubblicato da Ran Lahav nel 2020, sulla scorta di alcune suggestioni che ho ricevuto dalla mia frequentazione del gruppo da lui fondato.
Da quando l'uomo è stato provvisto (dal Caso? dal Tempo? dalla Necessità?) del Sé, i buoi sono scappati dalla stalla, e l'Essere (in tutte le sue forme di pratiche di vita) ha come compagno di "processioni" il Nulla; la domanda sul Senso e sul non-Senso silenziosamente rode e sfianca gli spiriti più vigili, ma anche i più torpidi, di tanto in tanto; il Male ci assedia con tutte sue infinite varietà di apparizioni. Lo so, non sto dicendo nulla di nuovo (anzi è antico come i dubbi di Qoelet). D'accordo, non possiamo soccombere passivamente, meglio cercare qualche raggio di luce, che c'è da qualche parte. Ma dobbiamo pur metterci sull'orlo dell'abisso e fissare gli occhi sul Nulla, il non-Senso e il Male e dirci se e come è possibile costituirci come Significato, come Bene, e come Essere; e se e come è possibile accettare di camminare insieme ai loro opposti, "ambi-andando" con lo sguardo ora verso i Primi ora verso i Secondi. Non so se questa si possa chiamare Filosofia. Io la vivo giornalmente come Domanda che mi vive e si raduna agli angoli di ciò che faccio. E tuttavia: finché si è inquieti c'è da star tranquilli, come diceva qualcuno che non ricordo più chi fosse. Infine: un continuo grazie a Augusto Cavadi, alla sua prosa limpida e alle idee, sia quelle sue sia quelle antologizzate nelle recensioni, esposte senza contorcimenti. Una possibile Filosofia deve iniziare dalla chiarezza, seppure il linguaggio, pietra dello scandalo della Filosofia, esige qualche volta di essere conosciuto anche in zone di oscurità, che in tal modo invoca il raduno e la molteplicità delle menti in democratica discussione.
Alberto Genovese
Beh, anche le scuole dell'antichità erano un po' poco politiche... E anche il ritiro dal mondo è una posizione politica. Peraltro non mi pare per pochi privilegiati fare ogni tanto un ritiro spirituale invece che andare allo stadio o a sciare. Ciò che ho sempre detto, anche a Lahav e fin da Roma, 20 anni fa, è che il suo orientamento è al limite della filosofia e sconfina con la mistica et similia, Gurdijeff per ex.. Niente di male ma, in effetti, come dice Augusto Cavadi, senza il conflitto... è ancora filosofia? Oggi, soprattutto, che non può più certo dirsi perenne?
Tutti possono partecipare a una sessione di Deep Philosophy, come dice Cervari.
Alla critica di apoliticità e forse anche di acosmismo che Augusto Cavadi muove alla Deep Philosophy nella sua recensione, posso rispondere che in effetti ciò equivale a condannare lo yoga perché propone una fuga dal mondo come soluzione di ogni problema dell'uomo. La Deep Philosohy, peraltro, non si spinge neppure fino a tanto: dopo una session ritorniamo a vivere come prima, con le nostre fedi, i nostri orientamenti politici, i nostri difetti, le nostre paure e angosce.
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