“Teorie pedagogiche e pratiche educative”
n. 1 – 2 Gennio – dicembre 2020
CHE COS’E’ DAVVERO IL CONSULENTE FILOSOFICO?
Alla domanda sull’identità professionale – e prima ancora epistemologica – di un consulente filosofico si può rispondere in vari modi. Uno di questi è partire da una negazione: la consulenza filosofica non è il counseling filosofico . So che questo avvio può stupire non pochi dal momento che, nell’uso comune, le due denominazioni si equivalgono. Ma, dal momento che si tratta di due mestieri differenti, la loro identificazione nell’immaginario collettivo, e dunque anche nel vocabolario condiviso, non può che danneggiare entrambi. La distinzione è particolarmente urgente perché a obnubilarla sono non soltanto, direi legittimamente, i non-addetti-ai-lavori quanto alcuni esponenti stessi delle due professioni (in alcuni casi condizionati dall’anglofonia dilagante per cui si suppone che un servizio, un prodotto, un bene culturale debbano esercitare una più efficace attrazione se la sua denominazione viene tradotta in inglese: vuoi mettere sullo stesso piano “impresario di pompe funebri” e “funeral manager”?).
Che cosa non è un consulente filosofico
Per rendere un po’ più evidente la distinzione che propongo devo premettere un rapidissimo schizzo storico-sociologico su alcuni movimenti, o sommovimenti, registratisi nel mondo della filosofia contemporanea. Per varie ragioni e con vari intenti negli ultimi cinque decenni l’attività filosofica, senza rinunziare alla sua dimensione ‘teoretica’ (cioè conoscitiva, contemplativa, speculativa) si è declinata in senso più accentuatamente ‘pratico’[1], dando vita a un variegato arcipelago di ‘pratiche filosofiche’ [2] ( dalla Philopsophy for children al Dialogo socratico, dai Caffè filosofici ai Ritiri meditativi filosofici [3]). In questo arcipelago si possono rintracciare due isolette vicine e, soprattutto se osservate da lontano, molto simili: la consulenza filosofica[4], appunto, e il counseling filosofico. Per chiarire che si tratta, nonostante l’apparenza, di due attività professionali nettamente differenti può risultare prezioso un recente, piccolo grande libro di Davide Miccione[5], a giudizio del quale il counselor è un professionista che offre “aiuto” utilizzando il patrimonio filosofico trimillenario (spesso e volentieri non solo occidentale) per fornire a chi gli si rivolge delle indicazioni di carattere esistenziale, etico o psicologico; laddove il consulente (almeno nell’accezione adottata da Miccione sulla scia di Neri Pollastri) non promette nessun genere di ‘aiuto’ in senso terapeutico o pedagogico e si propone solo come interlocutore di un consultante che desideri filosofare sulla propria esistenza o su alcuni nodi in cui essa si imbatte.
Ma vediamo di approfondire la questione (e, così facendo, di rispondere in positivo alla domanda iniziale sull’identità epistemico-professionale di un consulente filosofico).
Miccione ricorda, in proposito, “la definizione di consulenza filosofica data dal suo principale protagonista italiano”: “un’attività professionale nella quale il filosofo, esclusivamente in quanto filosofo, si mette a disposizione delle donne e degli uomini che, individualmente o in gruppi ristrettissimi, sentano l’esigenza di affrontare con rigore, attenzione, spirito di ricerca e confronto dialogico problemi e questioni poste a essi dalla vita”[6].
Una simile interpretazione della consulenza filosofica (CF) comporta elementi di inattualità, contro-intuitività e a tratti paradossalità che l’autore della raccolta di saggi La svolta pratica non intende nascondere, ma se mai esplicitare e focalizzare. A cominciare dalla questione più spontanea: se il consulente filosofico promette non di ‘sostenere’ asimmetricamente un ‘cliente’, ma di co-pensare insieme a lui/lei, in assetto paritario, a partire dalle domande del visitatore, chi avrà voglia/tempo/soldi da investire in simile avventura? La domanda-obiezione è talmente fondata che spiega la tendenza, stigmatizzata in queste pagine, di molti consulenti a condire le proprie prestazioni professionali con tecniche svariate o, in non pochi casi, ad abbandonare la CF per adottare apertamente altre “relazioni d’aiuto”. Ma Miccione, con la testardaggine di un comandante disposto ad affondare piuttosto che ad abbandonare la nave, tiene il punto. E anzi contrattacca. Qual è – si chiede - “la virtù massima” di un consulente filosofico? La “resistenza” alla tentazione di “prendere scorciatoie”: dare “risposte” invece di aiutare “a fare domande migliori”, smontare “pensieri comodi” se sospetti che non siano “veri”, scegliere “percorsi che procurino il plauso invece che una lieve irritazione come capita con la consulenza”[7]. Se le così stanno così, non possiamo stupirci che la “consulenza filosofica” (almeno sulla scia dell’interpretazione che ne ha dato Achenbach, ‘fondatore’ della Philosophische Praxis [8]) stenti a decollare sia come professionisti che l’abbracciano sia come fruitori che la cercano. Questo Miccione lo sa e lo ribadisce. Si potrebbe aggiungere. che di un libro scritto – come in questo caso - da un consulente filosofico, per così dire nella qualità di consulente filosofico, non possiamo prevedere un largo successo editoriale: piuttosto inquieterà, a tratti infastidirà, il lettore, che perciò si guarderà bene dal consigliarlo agli amici più cari. Qualora diventasse un best-seller costituirebbe una paradossale falsificazione delle proprie analisi, lucide quanto amare, su una situazione socio-culturale nella quale la “Meditazione, un tempo lettura di sé e del mondo, sorella di religioni e mistiche”, ora invece “batte i viali dell’Occidente facendosi chiamare mindfullness, fattasi scelta alternativa alla cyclette per manager in pausa pranzo affinché riprendano il lavoro più ricaricati e con ancor meno domande”[9]; nella quale la Programmazione Neuro Linguistica (PNL) - che sta “alla consulenza filosofica come la tarda sofistica a Socrate” [10] – miete consensi entusiastici (ed economicamente vantaggiosi).
Pur nella previsione realistica di un successo commerciale solo parziale di questo aureo volumetto – e questa sorte sarebbe essa stessa significativa e eloquente – desidero consigliarlo perché chi sperimenta il privilegio di non condannarsi a scegliere le proprie letture in base alle classifiche dei “libri più venduti” (dove? da chi? per chi?) può gustarlo pagina dopo pagina, spesso perfino divertendosi, almeno se disposto a mettere in discussione le proprie certezze professionali e, più radicalmente, esistenziali. Infatti ogni professionista dovrebbe includersi – al primo posto – nell’elenco delle persone che hanno bisogno della sua professionalità. Ma se ciò è raccomandabile per tutti, forse è necessario solo per il filosofo disposto ad aprire le porte del proprio studio. Infatti mentre posso ascoltare con beneficio i suggerimenti contro il cancro da un medico che fuma come un turco, o i consigli sull’educazione dei figli da un pedagogista senza figli o (come potrebbe capitare a una versione contemporanea del buon Rousseau) con tutti i figli affidati alla moglie da cui ha divorziato, non avrebbe senso chiedere di co-filosofare ad un filosofo ipoteticamente convinto che certe “aree della nostra esistenza non hanno a che fare secondo noi con la filosofia”: ad esempio, “il denaro, la tecnologia, la pubblicità, la burocrazia, il lavoro, il sesso ecc.”. Tra le “persone che chiedono riconoscimenti di extraterritorialità filosofica per aspetti della propria esistenza”, alcune sono consulenti filosofici. “Nulla di male, è possibile che abbiano ragione loro a scorporare aspetti della vita umana contemporanea e a dirsi sottovoce: «non facciamo filosofia»” – ammette Miccione. Ma aggiunge subito dopo: “Quello che mi sfugge è il motivo per cui la gente che ha appunto problemi di denaro, tecnologia, pubblicità, burocrazia, lavoro, sesso ecc. dovrebbe venire a parlarne con loro”[11].
Spunti di auto-esame di un consulente filosofico
Ecco perché io stesso, che da due decenni circa milito con Miccione nella stessa associazione professionale di consulenti filosofici (www.phronesis-cf.com), ho voluto utilizzare questo libro – che è di meta-pratica filosofica (se si preferisce, di filosofia della filosofia-in-pratica) - come una sorta di voce consulenziale in un’ipotetica consulenza, in cui ho giocato il ruolo di consultante, sul mio modo di condurre le consulenze. Riporto qualcuna delle consapevolezze acquisite.
Nel secondo capitolo della seconda parte l’autore propone i “lineamenti di una tassonomia possibile per la consulenza filosofica” [12] e propone 7 possibili aree in cui collocare i modi d’intendere e di condurre una consulenza filosofica “sulla base dello spazio e dell’importanza che conferiamo alla ragione nonché sulla base della forma che questa ragione, secondo noi, assumerebbe (per come diversamente si incarna) all’interno della relazione di consulenza” [13]. Schematizzando ulteriormente lo schema di Miccione si avrebbero (in ordine crescente di rilevanza della “dimensione concettuale” nella “relazione fra un consulente e un consultante”) questi 7 “quadranti”[14] :
1. il ruolo minimo della ragione fortemente integrato da “buon senso” e riferimenti più o meno vaghi alla psicologica (è il caso di alcune pagine della Schlomit Schuster[15]);
2. il ruolo più consistente della razionalità, ma a patto di segnalarne drasticamente i limiti ‘situazionali’ o ‘locali’ (vedi Lahav[16], Ruschmann[17] e Zampieri[18]);
3. la traduzione dei dilemmi esistenziali in questioni teoretiche ma senza dimenticarne l’originario humus biografico (Achenbach [19]);
4. la rivendicazione ‘forte’ della ragione direttamente proporzionale alla diffidenza verso “campi assiologici che le sfuggano, siano essi la fede, il mistero, la natura dell’uomo, l’irriducibilità del carattere o dei sentimenti” (Pollastri[20]);
5. la concentrazione sulla dimensione razionale al limite di quella sorta di follia, di cui parlava Chesterton, consistente nel “perdere tutto tranne la ragione” (Brenifier[21]);
6. lo “scorporo di alcuni aspetti” della ragione “dalla biografia o dall’esistenza del consultante” (Luciana Regina[22] e, “a un livello di minore finezza e qualità”, Marinoff [23]);
7. la riduzione della ragione a “possesso degli strumenti formali della logica argomentativa” (Raabe [24]).
Ebbene, in quali di questi sette scenari mi riconosco? In un certo senso, in nessuno. La classificazione di Miccione ha sollecitato l’esplicitazione a me stesso della distinzione, che dormiva nel mio retro-pensiero, fra ruolo di diritto (o essenziale o di principio) e ruolo effettivo (o esistentivo o di fatto) della ragione nell’esperienza umana. Considerata come dote potenziale, la ragione (intesa però nella sua più ampia accezione, includente l’immaginazione e l’intuizione) giocherebbe un ruolo egemone nell’esperienza antropologica; ma, di fatto, allo stadio attuale dell’evoluzione della nostra specie (filogenesi) e di ciascuno di noi (ontogenesi), essa è fortemente limitata da condizionamenti interni ed esterni alla soggettività umana. La consulenza filosofica, come in genere tutte le pratiche della filosofia-in-pratica, costituisce il paziente tentativo (impossibile da realizzare al cento per cento) di ridurre il gap fra ciò che potremmo essere – e che dunque assumiamo come modello del nostro dover essere - e ciò che siamo riusciti sinora a diventare effettivamente.
Questa visione generale del ruolo della ragione nell’esperienza antropologica giustifica, sia pur parzialmente, una delle debolezze della mia attività consulenziale. Mi riferisco a quei casi in cui - pur sapendo che “faccio filosofia con le persone, non risolvo i loro problemi, non li curo, non solidarizzo con loro, non offro conforto”[25] – non mi pongo subito, esclusivamente, in assetto canonico, ma attivo dispositivi di accoglienza verbale e non-verbale, di incoraggiamento, di rassicurazione. Devo riconoscere, insomma, di non saper gestire abbastanza l’ansia di prestazione: per non patire la “frustrazione” delle sessioni senza conclusioni condivise, cedo alla tentazione di “eliminare le aporie”, non “aspettare il passo altrui, spesso incerto e lento”, costringendo il visitatore a “uniformare” il suo passo al mio. In parte ciò è dovuto (anche di questo ho preso maggiore consapevolezza grazie alle pagine di Miccione) alla paura – comprensibile anche se non accettabile - che l’ospite, non trovando proprio nulla di ciò che mediamente si aspetta, abbandoni dopo la prima sessione ogni relazione professionale con me; ma, in parte, questa trasgressione rispetto alle regole è dovuta a motivi meno illegittimi, se non addirittura apprezzabili: che l’altro vada accompagnato con gradualità dalla condizione esistenziale di partenza (una vita dove le risorse intellettuali occhieggiano appena sotto la montagna della cenere delle abitudini, delle tradizioni, dei conformismi, delle angosce…) ad una condizione minima di animale pensante. Che sia un bene o un male, comunque è un dato irrecusabile che in consulenza non si incontrano mai due intelligenze angeliche, ma sempre due intelligenze incarnate o – meglio ancora – due intelligenze emergenti da corpi in evoluzione biologica e psicologica: perché un poeta o un musicista, prima di regalare a un amico la lettura di una poesia o l’esecuzione di un brano musicale, non potrebbe offrirgli, se lo accoglie in casa infreddolito e affamato, una minestra e un bicchiere di vino? L’essenziale è non scambiare la minestra con una bella poesia né il bicchiere di vino con un brano musicale (molti di noi conosciamo simpatiche signore in grado di organizzare accoglienti salotti letterari con l’illusione che la loro indubbia capacità di fare salotto venga spacciata come attitudine letteraria). Miccione fa benissimo ad avvertire il rischio che – uso una mia immagine - un chirurgo, dopo aver preparato un paziente per la sala operatoria e averne disposto l’anestesizzazione, se ne ritenesse soddisfatto e non procedesse all’intervento previsto dalla sua specifica qualifica professionale; ma non sarebbe tanto più allegra la posizione di chi venisse trasferito dalla poltrona di casa, in cui ha avvertito la prima fitta, al lettino della sala operatoria senza nessuna preparazione propedeutica intermedia. Forse alludeva a qualcosa di simile Gerd Achenbach scrivendo che “il dialogo filosofico” va concepito come “discorso che non esclude, anzi include, le comprensioni e gli interventi psicologici, che però riduce a semplici momenti” [26]. L’auto-analisi dei rischi (o forse dei limiti) della mia professionalità rimanda a una problematica generale: come intendere la formula (icastica ma anche pungente, forse addirittura respingente) di Achenbach sull’aiuto (“Solo una coscienza ottusa sa cos’è l’aiuto, solo la stupidità militante sa quando l’uomo è aiutato. Ma la filosofia mette in questione ciò che gli altri fanno passare per ovvio”[27])? Miccione la giustifica in maniera persuasiva: “l’aiuto è semplicemente la versione, all’interno della relazione intersoggettiva consulenziale, di quello che è l’utilità per la filosofia: il sistema di domesticazione e di guinzaglio. […] Quando l’utilità appare, scompare la filosofia; quando appare, rompe la realtà del dialogo perché lo rende simulato, inserisce in esso preoccupazioni che lo falsano” [28]. Questo è, dal punto di vista epistemologico, ineccepibile. Ma – se assunto sine glossa - spiega la pressoché totale impossibilità che la consulenza filosofica diventi una professione in grado di assicurare la sopravvivenza almeno ‘proletaria’ del consulente (in grado, intendo, di garantire la sopravvivenza economica del consulente e della sua prole). Infatti il 99% dell’umanità, per le ragioni più varie, non ha maturato l’apprezzamento dell’inutilità – o se preferiamo della gratuità – della ricerca filosofica e quell’1% che l’ha maturato può, presumibilmente, trovare nella cerchia dei propri conoscenti qualcuno disposto a dialogare ‘gratuitamente’ (in tutti i sensi) con lui. Da qui una domanda: può darsi che in consulenza ci si debba predisporre ad ‘aiutare’ gli ospiti a non aver bisogno di ‘aiuto’? Che – in analogia a quanto sopra osservato sulla distanza fra il piano dei fatti e il piano dei principi a proposito del ruolo della ragione – il gusto della ricerca disinteressata della ‘verità’ (più o meno localizzata) debba assumersi non come presupposto antropologico quanto come ‘ideale’ (in senso kantiano)? Nella mia biografia, all’origine della ‘vocazione’ filosofica trovo un groviglio di ‘bisogni’ psicologici o comunque di ‘vissuti’ psichici, sentimentali e emotivi: dal disagio adolescenziale per i conflitti perenni tra i miei familiari alla pena per le sofferenze dell’umanità e per i viventi in generale, dall’angoscia per l’ineluttabilità della morte al desiderio di incidere in maniera politicamente efficace nella storia. Senza queste motivazioni tutt’altro che ‘gratuite’ non mi sarei accostato con ‘interesse’ (parola felicemente o infelicemente, comunque eloquentemente, ambigua!) allo studio della filosofia. Poi con gli anni, anzi con i decenni, l’esercizio della filosofia mi ha ‘aiutato’ a comprendere che forse avrei trovato frammenti di ‘verità’ da proporre (a me e agli altri) per realizzare una convivenza più armoniosa, giusta, pacifica, serena, ma certamente questa stessa ricerca di ‘verità’ dava senso alla mia esistenza. Insomma: anche nella mia biografia devo riconoscere che solo la filosofia può ‘aiutare’ a trascendere il livello dell’interesse terapeutico o politico o religioso – il livello dell’ ‘aiuto’ in senso pedagogico/strumentale – per elevarsi al piano della contemplazione ‘inutile’. A due condizioni: che l’attività filosofica accetti di dispiegarsi come accompagnamento graduale dall’egocentrismo infantile (che può restare tale nonostante l’anagrafe) all’ontocentrismo adulto (poiché senza questa evoluzione etero-centrica la ricerca della teoresi rischia di diventare copertura ideologica dei propri privilegi socio-economici); che essa accetti di non essere l’ultimo traguardo dell’evoluzione antropologica (dal momento che, come ha scritto il teorico della teoreticità del filosofare nel Protreptico, “non siamo sani per il fatto di conoscere le cose che producono la salute, ma per il fatto di applicarle al corpo; non siamo ricchi per il fatto di conoscere la ricchezza, ma per il fatto di possedere molte sostanze; e, cosa più grande di tutte, non viviamo bene per il fatto di conoscere un certo tipo di enti, ma per il fatto che ci comportiamo bene: in questo infatti consiste veramente la felicità”).
Augusto Cavadi
091.6377018 / 338.4907853
Consulente filosofico
riconosciuto dall’Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica “Phronesis”
BIBLIOGRAFIA
AA. VV., Il gruppo Deep Philosophy. Storia, teoria, tecniche, Loyev Books 2019
Achenbach G., La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004
Brenifier O., Filosofare come Socrate. Teoria e forme della pratica filosofica con i bambini e gli adulti, IPOC, Milano 2015
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Lahav R., Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004
Marinoff L. , Platone è meglio del Prozac, Piemme, Casale Monferrato 2001
Miccione D., La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007
Miccione D., Ascetica da tavolo. La svolta pratica della filosofia e il bene comune, Diogene Multimedia, Bologna 2019
Miccione D., La svolta pratica. Presupposti, classificazioni e conseguenze, Algra, Viagrande 2020
Pollastri N., Il pensiero e la vita, Algra, Viagrande 2020
Pollastri N., Consulente filosofico cercasi. Il libro che ha definito le coordinate della Consulenza filosofica in Italia, Diogene Multimedia, Bologna 2020
Raabe P. B., Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, Apogeo, Milano 2006
Regina L., Consulenza filosofica come alleanza con i concetti in AA. VV., Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Di Girolamo, Trapani 2008, pp. 69 – 79
Ruschmann E., Consulenza filosofica. Prima Parte, Armando Siciliano, Messina 2004
Sautet M. , Socrate al caffè. Come la filosofia può insegnarci a capire il mondo d'oggi, Ponte delle Grazie, Milano 2006
Schuster S. C., La pratica filosofica, Apogeo, Milano 2006
Zampieri S., Manuale della consulenza filosofica. Strutture, momenti, forme del dialogo, IPOC, Milano 2013
[1] Cfr. D. Miccione, Ascetica da tavolo. La svolta pratica della filosofia e il bene comune, Diogene Multimedia, Bologna 2019.
[2] Cfr. A. Cavadi, Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche, Di Girolamo, Trapani 2011.
[3] Cfr. AA. VV., Il gruppo Deep Philosophy. Storia, teoria, tecniche, Loyev Books 2019.
[4] Un primo panorama è stato offerto, più di dieci anni fa, da D. Miccione, La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007.
[5] D. Miccione, La svolta pratica. Presupposti, classificazioni e conseguenze, Algra, Viagrande 2020, pp. 108.
[6] N. Pollastri, Il pensiero e la vita, Algra, Viagrande 2020, p. 49, qui citato alle pp. 33 – 34.
[7] D. Miccione, La svolta, cit., pp. 18 – 19.
[8] Di cui vedere, almeno, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004.
[9] D. Miccione, La svolta, cit., p. 19.
[10] Ivi, p. 20.
[11] Ivi, p. 19.
[12] Ivi, p. 39.
[13] Ivi, p. 45.
[14] Ivi, pp. 44 – 59.
[15] S. C. Schuster, La pratica filosofica, Apogeo, Milano 2006.
[16] R. Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004.
[17] E. Ruschmann, Consulenza filosofica. Prima Parte, Armando Siciliano, Messina 2004.
[18] S. Zampieri, Manuale della consulenza filosofica. Strutture, momenti, forme del dialogo, IPOC, Milano 2013.
[19] G. Achenbach, La consulenza, cit.
[20] Oltre al già citato N. Pollastri, Il pensiero, cfr. almeno N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi. Il libro che ha definito le coordinate della Consulenza filosofica in Italia, Diogene Multiemedia, Bologna 2020.
[21] O. Brenifier, Filosofare come Socrate. Teoria e forme della pratica filosofica con i bambini e gli adulti, IPOC, Milano 2015.
[22] L. Regina, Consulenza filosofica come alleanza con i concetti in AA. VV., Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Di Girolamo, Trapani 2008, pp. 69 – 79.
[23] L. Marinoff, Platone è meglio del Prozac, Piemme, Casale Monferrato 2001.
[24] P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, Apogeo, Milano 2006.
[25] D. Miccione, La svolta, cit., p. 69.
[26] G. Achenbach, La consulenza, cit., p. 116.
[27] Ivi, p. 86.
[28] D. Miccione, La svolta, cit., p. 10.
4 commenti:
Buongiorno Augusto,
ho trovato molto interessante l’articolo! Condivido le perplessità sul fatto che gli strumenti filosofici debbano essere radicalmente separati da quelli psicologici, così come rispettivamente i contenuti filosofici da quelli psicologici. Credo sia normale occuparsi dei bisogni psicologici dell’altro che arriva in studio, chiedersi in quale stato psicologico si trovi e cercare di metterlo a proprio agio. E’ importante, come sottolineate entrambi, non dimenticarsi quale sia il ruolo del consulente filosofico e quale la sua peculiare sfera di competenza (non bisogna invadere altre sfere di competenza), ma non dobbiamo cedere alla specializzazione così tanto da tralasciare di considerare che quelle qualità umane, che al di là di ogni professionalità specifica possediamo, possano servire la causa, come sottolinea nell’articolo: possono essere strumenti che accompagnano l’interlocutore a procedere verso un pensiero autonomo. Non esistono, concordo, menti disincarnate, gli uomini non solo solo ‘libri’ di cui leggere i pensieri e la relazione fra i dialoganti e il contesto in cui ci si trova già influenza la purezza del pensiero, solo poche di noi possiedono una mente Angelica ;) Ovviamente si scherza. Un saluto, Augusto!
se nel commento precedente il sistema non mi aveva identificata, in questo provo a rivelare la mia identità!
Caro Augusto
grazie dell'attenzione (anche perché sei rimasto il solo a darmela 😀). Mi è soprattutto piaciuto che tu abbia, dialogando, messo te stesso e la tua autobiografia in gioco. Da anni penso che l'idea achenbachiana del filosofo testimone delle sue idee dovrebbe spuntare, in qualche modo, anche nella nostra scrittura .
Ciao
Davide
Grazie, Augusto per questa tua riflessione che cala splendidamente la filosofia dalla dimensione astratta alla concretezza esistenziale!
Mauro
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