Giovedì 24 giugno, alle 18.30, presenterò nel Tempio valdese di Trapani (via Orlandini, 38) il mio piccolo libro Rosario Livatino un laico a tutto tondo (Di Girolamo, Trapani 2021, pp. 111, euro 10,00).
La conversazione con il pubblico presente sarà introdotta e moderata dal giornalista Fabio Pace.
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Qui di seguito l'intervista con Luca Kocci ospitata su
“Adista/notizie” n. 19
22 maggio 2021
40661 PALERMO-ADISTA. Lo scorso 9 maggio, nell’anniversario dell’anatema contro la mafia di Giovanni Paolo II (9 maggio 1993), Rosario Livatino, il magistrato ucciso trent’anni fa dalla Stidda, la mafia agrigentina, è stato beatificato. Dopo don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso da Cosa nostra nel settembre 1993, Livatino è il secondo «martire» di mafia proclamato dalla Chiesa cattolica. Ne parliamo con Augusto Cavadi, filosofo e teologo palermitano che da decenni si occupa delle relazioni fra Chiesa e mafie (Il Dio dei mafiosi, San Paolo, 2009, v. Adista Notizie n. 102/09; Il Vangelo e la lupara. Documenti e studi su Chiese e mafie, Di Girolamo, 2020, v. Adista Notizie n. 4/20); e che ha appena pubblicato con l’editore Di Girolamo il volume Rosario Livatino. Un laico a tutto tondo, pp. 112, euro 10; acquistabile anche presso Adista: tel. 06/6868692, e-mail: abbonamenti@adista.it; internet: www.adista.it).
(luca kocci)
Che tipo di magistrato e di uomo è stato Rosario Livatino?
Un magistrato molto professionale perché, in radice, un uomo molto serio. In ogni fase dell’esistenza è stata notata la serietà, talora perfino eccezionale rispetto all’età e al contesto – i compagni di scuola lo chiamavano scherzosamente “Centunanno” per rimarcare la sua maturità – con cui affrontava gli impegni: di studente liceale, di universitario, di funzionario della burocrazia statale, di pubblico ministero, di magistrato giudicante. Tale postura esistenziale è stata frutto del combinato disposto di fattori genetici, di modelli educativi interiorizzati in famiglia, di una fede religiosa un po’ convenzionale ma solida.
biamo ripartire, considerando che in questi tren- t’anni tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. Se sembra fini- to il tempo del grande clamore con cui la ma- fia agiva nelle strade e nelle piazze delle nostre città, è certo che essa ha trovato altre forme, meno appariscenti e per questo anche più pe- ricolose, per infiltrarsi nei vari ambiti della con- vivenza umana, continuando a destabilizzare gli equilibri sociali e a confondere le coscien- ze. Di fronte a tutto questo non possiamo più tacere, ma dobbiamo alzare la voce e unire al- le parole i fatti: non da soli ma insieme, non con iniziative estemporanee ma con azioni si- stematiche. Solo così il sangue dei martiri non sarà stato versato invano e potrà fecondare la nostra storia, rendendola, per tutti e per sem- pre, storia di salvezza». (luca kocci)
Livatino «magistrato cattolico», come vogliono gli slogan in questi giorni o i tanti libri pubblicati in questi anni, oppure «laico a tutto ton- do», come il sottotitolo del tuo libro?
Prima di tutto direi che Livatino non si sarebbe mai auto-definito un magistrato cattoli- co, bensì un cattolico che esercita la funzione di magistrato. Nei suoi scritti lo spiega con chiarezza: il magistrato è tale senza aggettivi, il suo unico dovere è interpretare le leggi dello Stato e applicarle nella maniera più equa possibile. Perciò va osservato e valutato esclusivamente in base a questo criterio di fedeltà al dettato costituzionale e alle sue articolazioni legislative successive. Aggiungerei: esattamente come un chirurgo o un matematico va valutato in base alla perizia delle sue operazioni. Poi, in altra sede e in altro momento, ci si può chiedere se – come persona – quel magistrato, quel chirurgo o quel matematico attinge energia da fonti ideali, da tradizioni politiche o da esperienze religiose. Ma queste radici meritano attenzione e rispetto solo perché, anziché annebbiare la testimonianza civile di un soggetto, la illuminano più profondamente. Insomma: se l’eventuale appartenenza a una Chiesa o a un partito o a un sindacato rafforzano la dimensione laica della propria professionalità senza minimamente pregiudicarla. Esattamente come nel caso di Rosario Livatino.
La Chiesa cattolica ha beatificato Livatino come «martire in odio alla fede», come scritto nel decreto della Congregazione vaticana per le cause dei santi. Questa formula non rischia di esaltare un magistrato per la sua fede più che per la sua azione per la giustizia? Insomma perché Chinnici e Falcone no e Livatino sì?
Per la Chiesa cattolica, abituata da due millenni a cristiani uccisi da non-cristiani, non è stato facile, già nel caso di don Pino Puglisi, sciogliere il nodo di cristiani uccisi da criminali, come i mafiosi, che in genere si auto-proclamano cristiani, anzi ipercattolici. Giovanni Paolo II, con la frase «martire della giustizia e indirettamente della fede», ha suggerito una chiave interpretativa rivelatasi feconda: chi muore per la giustizia, implicitamente muore per il Vangelo, del quale la lotta per la giustizia è parte irrinunciabile. Questa prospettiva, a mio avviso davvero innovativa, solleva ovviamente almeno la domanda che poni tu: perché Livatino sì e Chinnici o Falcone no? Risponderei con tre considerazioni che si sovrappongono strettamente. La prima: le beatificazioni (religiose o civili) servono – se servono, quando servono, nella misura in cui servono – solo a noi, non ai nostri martiri per i quali non cambia assolutamente nulla. La seconda: tutti i caduti nella lotta contro il sistema di dominio mafioso sono accomunati dalla medesima, inflessibile, fedeltà al ruolo di interpreti e amministratori della legalità democratica (e proprio questo rigore di solito li distingue, o addirittura li isola, rispetto a colleghi più elastici). Dunque se dedichiamo una piazza a uno, una villa comunale a un altro, una scuola a un altro ancora... non dobbiamo illuderci di stare giocando a stilare graduatorie di merito. Nessuno di noi fa parte del tribunale della storia che stabilisce gerarchie fra eroi. Ciò chiarito, possiamo arrivare alla terza, decisiva, considerazione: ogni vittima di mafia appartiene all’intera società, ma ciò non esclude che alcuni settori (partiti, sindacati, movimenti, Chiese...) avvertano la propensione spontanea verso questo o quel personaggio più consonante dal punto di vista morale, simbolico, psico-sociologico. No: queste differenze non dividono, ma articolano e arricchiscono. Se un magistrato, in vita, è stato un credente in senso esplicitamente religioso (sia pur di una fede inquieta, tormentata, sofferta come Livatino), è legittimo che la sua Chiesa decida di onorarlo proclamandolo beato. Se un giorno così avvenisse con Paolo Borsellino – di cui ricordo la frequente presenza domenicale fra i banchi della chiesa di san Francesco Saverio all’Albergheria di Palermo – sarebbe altrettanto significativo. Non altrettanto corretta sarebbe una decisione del genere per altri magistrati che ho avuto l’onore di incontrare in vita, come Gaetano Costa e Giovanni Falcone. Essi erano fieramente, consapevolmente, interni a un’ottica esclusivamente terrena, mondana. Farne oggetto di culto o di imitazione per ragioni religiose sarebbe davvero, nei loro confronti, un’offesa: al di là di ogni migliore intenzione laudativa, un gesto di prepotenza clericale. Sarebbe l’attuazione del timore che già Nietzsche, con amara ironia, esprimeva alla fine del XIX secolo: che i preti – non avendolo saputo convertire in vita – lo avessero potuto canonizzare da morto.
I vescovi siciliani, proprio in occasione della beatificazione di Livatino, hanno scritto un bel documento in cui affermano che per la Chiesa, e non solo quella di Sicilia, la strada per incarnare l’eredità e Livatino e di don Puglisi è ancora lunga. Cosa pensi di quest’ultimo documento?
Presenta molti passaggi apprezzabili, tra cui l’autocritica cui fai riferimento tu stesso. Tuttavia mi hanno colpito due lacune. La prima: martiri come Puglisi e Livatino sono, esclusivamente o prevalentemente, «benedizioni» divine o, almeno altrettanto, la conferma che le nostre comunità (civili e credenti) espongono i figli migliori come bersaglio per le cosche? La seconda lacuna riguarda il futuro. Nelle ultime righe del documento si auspica un’azione pedagogica sistemica, non episodica; ma non si fa nessuna esemplificazione concreta. Invece è proprio su questo piano delle ipotesi d’intervento che i vescovi dovrebbero sbilanciarsi, proponendo ad esempio di inserire qualche incontro di alfabetizzazione del fenomeno mafioso all’interno di tutti i percorsi di catechesi (dalla preparazione alla cresima alla preparazione al matrimonio). Per non parlare della formazione dei nuovi presbiteri, spesso – esattamente come i loro coetanei che decidono di darsi al giornalismo o all’assistenza sociale – di un’ingenuità disarmante su queste tematiche. Sanno ciò che rimbalza dagli schermi televisivi grazie a qualche sceneggiato o qualche talk show: un po’ troppo poco per leggere il territorio parrocchiale e per attivare strategie culturali ed etiche di contrasto al dominio mafioso... (l. k.)
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