"Le nuove frontiere della scuola”
Anno XVII, novembre 2020
EST MODUS IN REBUS: SEMPRE VERO ?
Est modus in rebus: sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum ( “In tutte le cose v’è una misura, al di qua e al di là della quale non può susssistere il giusto”): almeno i primi quattro termini del verso oraziano, tratto dalle Satire (I, 1, 106 – 107), sono noti al punto da esser diventati proverbiali anche nella nostra lingua. Come la formula di origine aristotelica di cui riecheggiano il messaggio (In medio stat virtus: “E’ nel mezzo che consiste la virtù”) si presta a diverse interpretazioni, talora talmente differenti da risultare opposte e inconciliabili.
La moderazione cristiano-borghese
Il modo prevalente d’intenderla è contrassegnata dalla saggezza pragmatica della tradizione culturale borghese: un invito a non eccedere mai, a non esagerare né in un senso né nel senso opposto, a tenersi equidistante dalle posizioni troppo nette. Come tentava di insegnarmi (senza molto successo) mio padre, a mantenersi neutrali: né con la mafia né contro la mafia. Era la traduzione post-bellica del criterio adottato in famiglia durante il Ventennio: né con il fascismo né contro il fascismo. Insomma: l’esaltazione dell’aurea mediocritas (espressione del medesimo Orazio) nell’accezione perbenista, riduttiva, non proprio elogiativa del vocabolo italiano “mediocrità”. Lo notava già nel 1957 il filosofo Joseph Pieper: “Il concetto corrente di <<moderazione>> è influenzato dall’ossessione di ogni genere di esaltazione. Tutti sanno quale senso assume nel discorso quotidiano il detto: <<Tutto con misura>> (detto che, certamente può avere anche un senso elevato); e tutti sanno anche che la locuzione <<prudente moderazione>> si presenta in particolar modo quando lo zelo per la verità o lo slancio generoso del cuore sono pronti e risoluti ad osare le risoluzioni estreme”[1]. Secondo questa prospettiva, Adolf Hitler e Massimiliano Maria Kolbe non hanno rispettato i <<limiti>> del buon senso che avrebbe suggerito, invece, al primo di non essere eccessivamente “crudele” e, al secondo, di non essere “generoso” al punto da offrire la propria vita in cambio di un altro: la storia del mondo si sarebbe srotolata meno tragicamente se nazisti e martiri ebrei avessero cercato una “mediazione” fra gli estremi del razzismo e dell’altruismo.
Il punto più alto fra due valli oscure
Ma se scaviamo la superficie delle consuetudini linguistiche dominanti, sino a sondarne le origini etimologiche e soprattutto concettuali, si aprono orizzonti sconosciuti o, per lo meno, dimenticati. Il modus, il medium, la mediocritas non sono da interpretare come livelli all’interno della stessa scala (per esempio un atteggiamento di moderata gestione del denaro, intermedio fra la tirchieria e la generosità), bensì come punto di equilibrio superiore rispetto a due difetti contrari (per esempio un atteggiamento di sobria gestione del denaro, intermedio fra la tirchieria e la prodigalità). Se non sono ‘troppo’ tirchio, resto comunque un tirchio; se non sono ‘troppo’ generoso, resto comunque uno che può evolversi verso una maggiore e più completa generosità. Invece, nella misura in cui mi allontano dalla sfera dell’avarizia, senza entrare nell’ambito dell’abitudine a sprecare irragionevolmente il denaro, mi sviluppo moralmente verso la virtù dell’autentica mediocritas. Se volessimo aiutarci con un’immagine classica, il “giusto mezzo” non è a metà di una montagna (poniamo la montagna del coraggio), ma sulla cima di una montagna a metà fra due valli oscure (poniamo la valle della viltà e la valle della temerarietà): se salgo sino in cima, non rischio di essere “troppo” coraggioso, perché è l’unico modo di diventarlo pienamente.
Joseph Pieper è tra gli autori cui sono maggiormente debitore per questi suggerimenti ermeneutici. Egli infatti, dopo aver precisato che – secondo la tradizione greca e medievale condensata in Tommaso d’Aquino - “la prudenza è la <<misura>> della giustizia, della fortezza, della temperanza” (cfr.Somma teologica, I, II, 64, 3)[2], per cui essa “agisce in ogni virtù; ed ogni virtù è partecipe della prudenza” (cfr. Somma teologica, II, II, 47, 5 ad 1)[3], aggiunge che la prudenza non è il cauto tatticismo di chi è patologicamente attaccato alla propria vita e ai propri averi, ma la saggezza pratica di chi – con animo magnanimo – trova di volta in volta, nelle circostanze concrete, le vie migliori per attuare i princìpi etici che ritiene validi. Così intesa, la prudenza può essere tradita non solo (come si suppone abitualmente) da chi agisce in maniera precipitosa, impulsiva, ma anche (e questo nessuno lo insegna a figli e alunni) da chi, avendo gli elementi per decidere, rimane inerte, affondando lentamente nell’irresolutezza. Dunque, non si è mai “troppo” prudenti: lo si può essere solo “troppo poco” peccando o di irriflessività o, al contrario, di inconcludenza operativa. Se sono un discreto nuotatore e provo a gettarmi dalle cascate del Niagara non mostro certo di essere “prudente”; ma non lo sono neppure se, pur essendo un discreto nuotatore, sto a ponderare per dieci minuti se sia il caso di gettarmi in acqua a ripescare un bambino di tre anni precipitatovi casualmente, dandogli tutto il tempo per annegare. Nel nostro cauto, addomesticato, linguaggio siamo soliti affermare in casi come quest’ultimo: “E’ stato troppo prudente!”. Tecnicamente dovremmo asserire il contrario: “E’ stato troppo poco prudente ! Anzi: decisamente imprudente!”.
Quando la misura conveniente è la smisuratezza
Il “giusto mezzo”, la cui ricerca caratterizza la maturità etica ed esistenziale, non è dunque determinabile in astratto, una volta per tutte e per tutti: esso è piuttosto un criterio di giudizio (di giudizio teorico-pratico) a cui adeguare, di situazione in situazione, le nostre decisioni concrete. Così lo stesso comportamento potrebbe risultare in un caso sbagliato per eccesso, in un altro sbagliato per difetto, in un altro ancora il migliore possibile. Solo così il monito che, secondo la tradizione, sul tempio di Apollo a Delfi, accoglieva e salutava i pellegrini – “Mai niente di troppo !” – può illuminare la vita dei singoli come dei popoli, preservandola dagli eccessi di quella “tracotanza” che (a detta di Sofocle) “non amano neppure gli dei”, senza tuttaviaschiacciarla sul registro di una grigia, banale, noiosa “normalità” statistica.
E proprio questa stessa saggezza - che sospinge le persone a restare ritte, in piedi, davanti a ciò che è ignobile – è la stessa che può indurle a inchinarsi davanti a ciò che è oggettivamente nobile e degno di dedizione. In situazioni simili può darsi che diventi ragionevole andare oltre la pura ragione e decidere, consapevolmente, di slanciarsi verso l’eccesso. Talora l’amore per la giustizia o per la bellezza artistica o per una persona affascinante o per una verità scientifica può esigere sconfinamenti che solo un freddo osservatore esterno, ed estraneo, può ritenere sconvenienti. Bernardo di Chiaravalle lo scrisse per Dio, ma molti uomini e molte donne lo hanno condiviso quando si sono convinti/e di aver trovato qualcuno, o qualcosa, per cui valesse vivere: l’unica misura dell’amore è amare senza misura.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
[1] J. Pieper, Sulla tempernza, Morcelliana, Brescia 1965 (ed. or. 1957), p. 11..
[2] J. Pieper, Sulla prudenza, Morcelliana, Brescia 1965 (ed. or. 1953), p. 15.
[3] Ivi, p. 17.
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