Con questo terzo e ultimo commento chiudo il breve ciclo richiestomi dagli amici romani dell'agenzia di stampa "Adista" per la loro rubrica "Omelie fuori dal tempio".
Da "ADISTA - NOTIZIE" 12
27.3.2021
IL MITO DEL BUON PASTORE E L'EFFETTIVA REALTA' DELL'AMORE
Gv 10, 11-18
QUARTA DOMENICA DI PASQUA. - 25 APRILE 2021
Quanti strati bisogna attraversare per arrivare a cogliere, in questa pagina, un messaggio significativo per noi uomini e donne del XXI secolo?
Innanzitutto c’è una difficoltà di ambientazione: la figura del pastore che trascorre giorni e notti con il suo gregge è in via di sparizione. Intere generazioni di cittadini non ne hanno mai visto uno. Comunque, anche chi come me è arrivato a incontrarlo nello sperduto paese di montagna dei genitori, se ne è fatto un’idea un po’ diversa rispetto a questo testo evangelico: non c’è pastore, per quanto “buono”, che sia disposto a “dare la propria vita per le pecore”. Certo, ne ha cura, ma come di cosa propria: le preserva dai lupi e dai ladri, sì, ma perché vuole essere solo lui a tosarle, a mungerle, a mangiarne la carne (sia loro che degli agnellini). Se è vero che è più sollecito del “mercenario” è perché ogni perdita incide sulle sue tasche, non su quelle dell’aiutante a giornata. Insomma: più che un pastore dalle fattezze realistiche, ci troviamo davanti un pastore idealizzato.
Ottima icona per evocare non il Gesù della storia, dalle fattezze solo umane, quanto il Cristo della fede di cui l’autore di questa pagina parla a settanta e più anni dalla morte. Infatti il rabbi nomade sulle strade della Galilea avrebbe potuto - nel migliore dei casi - conoscere personalmente, singolarmente, le “pecore” a lui prossime nella contemporaneità, non certo anche quelle che, nei decenni successivi, sarebbero provenute da altri “recinti” culturali, etnici, religiosi. La dichiarazione che Pascal nel XVII secolo pone sulle labbra del Crocifisso – “Una goccia del tuo sangue è stata versata proprio per me!” – è tanto commovente quanto inattendibile. A meno che…A meno che non si riferisca, più che al Gesù terrestre, dal raggio di conoscenza e di azione limitato, al Cristo celeste: a colui che, avendo donato sé stesso per i diritti di Dio e degli altri esseri umani, è stato accolto dall’Eterno nel suo abbraccio e costituito “figlio” prediletto.
In questa prospettiva, comunque, emergono molti elementi di riflessione.
Il primo: nessun altro essere umano, che non abbia affrontato l’abisso della morte, può arrogarsi il titolo di ‘pastore’ dei propri simili. Tale, forse, qualcuno/a può essere riconosciuto/a a posteriori sulla base della propria dedizione alla comunità dei fratelli e delle sorelle (mai, neppure per un momento, trattati come “gregge”); non certo in base a un decreto gerarchico né ad una elezione democratica.
Un secondo elemento di riflessione è più inquietante: il pastore autentico è trasparenza e canale della divina ‘pastoralità’ originaria. Ma come conciliare l’idea di un Padre benevolo con la marea di sofferenze che hanno accompagnato l’evoluzione della vita sul pianeta Terra e, in particolare, la storia umana dalle caverne alle guerre attuali? Un’esistenza credente che s’illuda di ‘bypassare’ interrogativi laceranti del genere, ripiegando su una lettura bucolica della vicenda di Gesù e interpretandone come consolatorio happy end il suo destino, non prende sul serio né la tragedia del mondo né la spregiudicatezza dell’annunzio evangelico. Inchiodati anche noi davanti allo straziante spettacolo di dolori d’ogni specie, possiamo arrogarci il diritto di crederci pecore predilette solo nella misura in cui ci prendiamo, noi per primi, cura delle altre sorelle. Una fede inoperosa, a basso costo, ci servirebbe solo come anestetico passeggero.
Augusto Cavadi www.augustocavadi.com
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