martedì 15 dicembre 2020

LE FREGATURE INFLITTE DAL "CAPITALE" SECONDO GIUSEPPE SAPIENZA

 


12.12.2020
 
IL CAPITALE E L’ARTE DI FREGARE LA GENTE
 

Sarà capitato anche a voi di vedere entrare in un caffè una bella donna o un bell’uomo che, a prima vista, vi son sembrati affascinanti. E in effetti il sorriso di lei, il suo passo elegante, o lo sguardo di lui – intenso, ma non freddo - giustificavano quella prima impressione. Poi però noti anche qualcosa che stona: forse la voce un po’ stridula di lei o i modi bruschi, sbrigativi, di lui. E allora sospendi il giudizio, lo differisci a quando sarà – se mai lo sarà – necessario. Qualcosa del genere mi è successo leggendo L’arte del capitale (Algra, Valverde 2020, pp. 207, euro 15,00) di Giuseppe Sapienza: ne sono rimasto conquistato sin dalle prime pagine ma avvertendo, qua e là, un retrogusto amarognolo di disagio. Come mai? Non è stato facile chiarirmi le idee. Poi, piano piano, ho provato a distinguere l’effetto letterario dal messaggio concettuale e ho capito che, nonostante la degustazione estetica, inciampavo su alcuni contenuti. Già, perché dal punto di vista della scrittura, questa raccolta di composizioni liriche (‘liriche’ in senso direi etimologico: viene spontaneo leggerle come testi di canzoni di Guccini o di Bertoli o di De André) ti afferra dalla prima all’ultima, ti sorprende, ti diverte, ti inquieta salutarmente. Se, poi, analizzi freccia dopo freccia – perché quasi ogni verso è una frecciata - ti si può parare innanzi il punto interrogativo che si materializza quando si legge un testo anarchico. Infatti, anche se mi pare di non aver trovato neppure una volta il sostantivo ‘anarchia’ né alcuno dei suoi derivati, questo mix di fascinazione e di dissenso è simile a quel che avverto leggendo autori (alcuni dei quali miei amici assai cari) di tale orientamento ideologico. So da dove mi proviene il fascino: dalla denunzia, dalla diagnosi. E so anche da dove il disagio, il disaccordo: dalla contro-proposta, dalla terapia (che o mancano o risuonano impraticabili. Il “capitale” è brutto, ma ogni tentativo di abolirlo tout à coup per legge, non gradualmente e per evoluzione etica collettiva, sinora non ha portato a conseguenze meno brutte). Provo a spiegarmi, in concreto, con qualche passaggio.

“Caro concittadino, / col presente contratto, / che non hai scritto, non hai letto, non conosci, e non puoi rifiutare, / ti impegni a pagare un debito pubblico che non hai contratto, / ti impegni ad avere una posizione sociale in linea con la tua istruzione / e un’istruzione in linea con la tua posizione sociale. / Ti impegni a rispettare leggi che non voti, / a pagare tasse per sevizi che non ricevi, / a sognare di diventare quello che vuoi / e accettare di rimanere quello che sei. / Ti impegni a credere che il diritto è uguale / per te che lo leggi e per noi che lo scriviamo, / e ti impegni a rispettare noi, / che facciamo del diritto/ la legge del più forte / con altri mezzi” (L’arte del contratto sociale di non essere un contratto e di non essere sociale, p.149): come non restare sedotti da tanta arguzia dai tratti geniali?

O ancora: “Preferisco essere il vento che la palma / la marea che lo scoglio / il cancro che lo stomaco. / Preferisco essere me che guadagno su una fabbrica di disperati / che il disperato della baracca che protesta / ma se fosse me farebbe come me, / ma non essendo che se stesso, / torna a casa ed è violento con la moglie. / Preferisco essere me che non ho pietà per la donna delle pulizie / che la donna delle pulizie, che nutre ammirazione per me. / Preferisco essere me che faccio approvare un farmaco nocivo / che quello che muore per quel farmaco / perché invece di studiare la mia guerra contro di lui / ha studiato la vita delle celebrità. / Preferisco essere me che seduto sulla mia scrivania sento le urla di quelli dietro al cancello, / che essere tra quelli dietro al cancello che mi maledicono, / ma mandano i loro figli a scuola per farli diventare come me” (L’arte di essere migliore degli uomini che disprezzi, p. 193).

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