Nella recensione al bel libro di Giuseppe Sapienza sui danni sistemici del capitalismo (https://www.zerozeronews.it/il-capitale-e-larte-di-fregare-la-gente/ ) ho avanzato delle riserve sull'atteggiamento, diffuso, di criticare il capitalismo senza proporre alternative credibili (teoricamente) e praticabili (storicamente). Queste riserve hanno, a loro volta, suscitato obiezioni a voce e per iscritto. Un collega e amico di Pisa, Fabio Bentivoglio, mi ha gentilmente inviato delle considerazioni che - se non proprio critiche nei miei confronti - sono almeno integrative. Le pubblico molto volentieri per tenere aperto un dibattito che - a mio sommesso avviso - dovrebbe essere centrale nell'arena politica:
Caro Augusto,
nella tua recensione a “L’arte del capitale” di Giuseppe Sapienza, sollevi una questione più generale, che va al di là del libro in oggetto. Fai riferimento a un sentimento ambivalente: da un lato la fascinazione e, direi, la spontanea adesione alla denuncia dei mali indotti dal capitale (la diagnosi), dall’altra il disagio per la mancanza di plausibili proposte alternative (la terapia). Condivido il tuo disagio: il filone delle diagnosi è saturo, ma, in genere, quando si passa alla terapia si entra nelle nebbie o nella dimensione onirica, il linguaggio perde incisività e diventa allusivo. Forse questa mancanza di chiarezza –da parte di chi denuncia- su come liberarsi da una sottomissione a un capitale così “brutto”, ha la sua ragion d’essere anche nella radicale mutazione antropologica indotta dal capitale stesso. L’attuale forma di capitalismo, infatti, da un lato è forte come non mai, ma, nello stesso tempo, è debole e vulnerabile come non mai. E’ forte, perché pur essendo ben visibili i danni sociali e ambientali che produce, è come se avesse sterilizzato la possibilità che sorga al suo interno una qualsiasi forma di reale antagonismo, perché la formazione mentale degli individui è stata plasmata nel profondo dai paradigmi propri del capitale, condivisi a livello di massa. E’ però un capitalismo debole e vulnerabile, perché, per sua logica sistemica, si mantiene in virtù di un incessante (e non più sostenibile) incremento del consumo di beni superflui, di un’adesione di massa a un’innovazione tecnologica in perenne trasformazione, dell’uso pressoché esclusivo di mezzi di trasporto privati, di una devastante industria del turismo (che definirei meglio come deportazioni di massa a pagamento) ecc… . Per liberarsi da tutti questi mali così spesso denunciati e messi in conto solo al capitale “brutto”, non è necessario progettare la presa del Palazzo d’Inverno (alternativa onirica), o riconoscersi in profili ideologici rivoluzionari. Detto in due parole: sarebbe sufficiente uno stile più sobrio di consumo, una percezione del tempo e di ciò che ha valore non dettata dall’apparato tecnico e dall'ossessiva pressione pubblicitaria, un recupero della propria autentica soggettività per riconoscere gli obiettivi di vita da perseguire nelle relazioni con gli altri, svincolati dalle priorità dell’utile monetario, della carriera, dell’immagine, cessando di essere imprenditori di se stessi. Trattasi certamente di un processo graduale che esige un'evoluzione etica collettiva, comunque praticabile, perché comporta atti e gesti alla portata di tutti e di cui ciascuno è responsabile. Perché, allora, non ci si incammina su questa strada? Una possibile risposta è che per quanto detto sopra – la compiuta incorporazione della società, a tutti i livelli, nella logica del capitale- cultura, scienza, politica e il popolo tutto, pur con nobili eccezioni, non hanno intenzione di “liberarsi” dal capitale, che ha tracciato i binari su cui ciascuno, ormai, anche protestando, fa scorrere la propria esistenza.
Fabio Bentivoglio
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PS: Nella foto Serge Latouche, economista e pensatore ugualmente caro a Fabio e a me, durante un "Festival della filosofia d'a-mare" a Favignana (Trapani).
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