Sul bimestrale on line (gratuito) "Dialoghi Mediterranei" Neri Pollastri ha pubblicato un saggio di filosofia-in-pratica sulle reazioni più diffuse alla pandemia in corso. Lo ripropongo anche sul mio blog perché so che viene letto anche da persone che non vogliono fermarsi agli slogan, alle invettive, alle opinioni viscerali, ma sono anche capaci di investire un po' di tempo e di energie nella riflessione critica.
Edward Hopper, Finestre di notte (1928)
di Neri Pollastri
La particolare situazione che abbiamo vissuto in questo periodo, che ci vede attraversare un’emergenza sanitaria internazionale di proporzioni inedite almeno per l’epoca storica che stiamo vivendo, costituisce anche un’interessante occasione di studio per comprendere il modo in cui pensa e vive l’uomo del terzo millennio, immerso qual è nei propri pregiudizi culturali, preso in mezzo tra le comunicazioni dei media e le opinioni in libertà dei social media, tra la necessità razionale di orientarsi nel mondo comprendendone il funzionamento e quella emozionale di individuare al più presto le migliori strade da percorrere. Il dibattito pubblico al quale si è assistito (e spesso anche partecipato) in questi mesi è infatti stato segnato da anomalie particolarmente evidenti, eppure dai più ignorate o persino cavalcate per motivi spesso difficili da comprendere, talvolta consapevoli e talaltra inconsapevoli. Cercheremo qui di analizzarlo, riducendo al minimo i riferimenti a singoli argomenti, ma cercando invece di descrivere quale sarebbe stato un atteggiamento razionalmente adeguato alla situazione e quali invece siano state le aberrazioni di pensiero che lo hanno attraversato.
Premessa: il “negazionismo”
Prima di entrare nel tema specifico ci sembra importante spiegare le ragioni per le quali non useremo qui il termine “negazionismo” e i suoi derivati. La principale è il fatto che quel termine è troppo vago, potendo a pieno titolo indicare sia chi neghi l’esistenza del virus, sia chi sostenga che non è pericoloso, sia chi affermi che sono inutili alcune delle misure indicate per contenerne la diffusione (per esempio il confinamento o l’uso delle mascherine). Categorie, queste, troppo diverse tra loro, non tutte criticabili e comunque non sulla base dei medesimi argomenti, cosicché accomunarle sotto il titolo di “negazionisti” è solo fonte di confusione e incomprensioni. Si aggiunga a questo il fatto che il termine “negazionismo”, nato e solitamente usato per indicare il revisionismo storico riguardo lo sterminio nazista degli ebrei, è per questo pesantemente gravato da un giudizio di valore senza appello, che rende accidentato ogni confronto dialogico argomentato. Pur riconoscendo quindi a quei termini una sensata applicabilità semantica, preferiamo non farne uso in questo articolo.
Edward Hopper, Casa nel crepuscolo (1935)
Quando il “non sapere” è un fatto
Iniziamo dunque l’analisi da un dato ben noto, ma che spesso viene dimenticato o lasciato comunque sullo sfondo: la pandemia Covid-19 è una malattia della quale, al momento della sua origine, non sapevamo nulla, in quanto causata da un virus di nuovo tipo – il Sars-Cov-2 – del quale anche i più preparati ed esperti scienziati potevano dire solo poche cose, perlopiù ipotetiche e basate sulle sue possibili analogie con altri virus più noti appartenenti alla stessa famiglia [1]. Oggi, dopo quasi un anno dall’esplosione del contagio in Cina, ne sappiamo certo qualcosa in più, ma le conoscenze certe sono pochissime e limitate ad aspetti elementari perché – come sa chiunque conosca un po’ il funzionamento della scienza, ma come comunque suggerisce il buon senso – per avere conoscenze più solide, certe, “scientifiche” su un fenomeno di questo genere serve molto più tempo di raccolta ed elaborazione dei dati.
Filosoficamente parlando, questo fatto rende il Covid-19 un tipico esempio di thauma, di fenomeno inquietante che esorbita la nostra capacità di conoscere, valutare, scegliere e operare, di fronte al quale perciò non abbiamo risposte fondate da dare e per il quale il solo atteggiamento razionale e ragionevole è il socratico “so di non sapere”: partire cioè dalla consapevolezza della nostra ignoranza sia per cercare di progredire, sia per prendere le indispensabili decisioni concrete, evitando cioè di poggiarle su “false credenze”. In altre parole, la pandemia era (e in larga parte rimane ancora) una situazione ideale per l’esercizio di quella saggezza filosofica che Gerd Achenbach, il filosofo che ha dato vita alla consulenza filosofica, ha chiamato Lebenskönnerschaft, «capacità di saper vivere»[2]: un atteggiamento consistente nel vivere l’incertezza sospendendo ogni presa di posizione e assumendo decisioni basandosi solo ed esclusivamente sulle scarsissime conoscenze certe disponibili, adeguandole di volta in volta, con mutamenti anche significativi, ai dati esperienziali prodotti dall’evolversi della situazione e dal costante interrogarsi sulle possibilità future di convivere con lo sgradito e incomprensibile fenomeno che produce il thauma.
Non ci vuol molto per rendersi conto che gran parte dei cittadini, almeno del nostro Paese, non ha minimamente assunto questo tipo di atteggiamento e che, anzi, paradossalmente esso è stato assunto (almeno in certa misura) solo dalle tanto vituperate istituzioni governative [3]. Le quali, pur tra errori e discutibili dettagli, hanno basato la loro strategia sui pochi dati disponibili e hanno perlopiù evitato di fare “fughe in avanti” basate su speranze e interpretazioni del fenomeno “originali” o poco condivise dalla comunità scientifica [4]. L’opinione pubblica, ma anche la politica e una parte degli “esperti”, nei tre mesi di quella che fin qui è da considerarsi la fase più intensa della pandemia hanno viceversa dato vita a un continuo, mutevole e conflittuale schierarsi per l’una o per l’altra delle molte “interpretazioni” del fenomeno, spesso senza curarsi né del loro fondamento, né della qualità degli argomenti portati a sostegno, a dispetto del sostenerle con grande decisione e non minore spregio di chi ne affermasse altre. Proviamo ad analizzare questo fenomeno.
Un atteggiamento razionale disatteso
Come detto, le conoscenze condivise e confermate dalla comunità scientifica sul virus che è alla base della pandemia, il Cov-Sars-2, erano e restano ancor oggi pochissime. In breve potremmo ridurle più o meno a quanto segue:
- appartenenza alla famiglia dei coronavirus, senza che ciò possa permettere di stimarne la somiglianza quanto a caratteri specifici;
- forte contagiosità (prossima a quella, elevata, della normale influenza);
- trasmissione per prossimità, attraverso le goccioline emesse con l’espirazione;
- elevata dannosità della malattia (nella prima fase del contagio circa il 20% dei casi sintomatici necessitavano di cure ospedaliere, circa il 10% di terapia intensiva);
- elevata mortalità in età superiore ai 60 anni, elevatissima sopra ai 70;
- bassa mortalità e dannosità in età inferiori ai 50 anni, bassissima sotto ai 30;
- diminuzione di mortalità e dannosità dopo una prima fase ad alta intensità.
Questi dati raccolti sul fenomeno già alla sua esplosione in Cina, sono stati rapidamente confermati – pur con percentuali variabili a seconda delle zone – negli altri Paesi ove la malattia ha progressivamente preso piede. Accanto a queste conoscenze – certo da aggiornare strada facendo, come è prassi in ogni situazione di progressiva esplorazione di fenomeni ignoti, ma pur sempre le sole accertate e condivise – ne rimanevano (e rimangono) del tutto indeterminate altre, di fondamentale importanza per qualsivoglia assunzione di ben fondate interpretazioni del fenomeno, quali per esempio le seguenti:
- tempi di vitalità e/o aggressività (importanti per l’urgenza della prevenzione);
- mutabilità (importante per l’eventuale messa a punto di cure e vaccini);
- resistenza alle variazioni climatiche;
- esistenza di cure (sia capaci di guarire, sia solo di alleviare la malattia);
- esistenza (e persino possibilità) di vaccini;
- cause della diseguale incidenza del virus in zone geografiche diverse;
- cause delle oscillazioni della sua nocività al passare del tempo;
- tempi necessari al raggiungimento di conoscenze certe.
Alla luce della razionalità scientifica, ma anche della ragionevolezza pragmatica, si vede bene come una situazione di questo tipo non permettesse (né permetta oggi) alcun tipo di presa di posizione e di intervento tecnico-strategico ben fondato: le strategie tecniche si basano infatti su conoscenze scientifiche consolidate, cioè confermate da prove ripetute e verificate da una parte importante della comunità scientifica internazionale. Era di conseguenza doverosa e inevitabile l’assunzione di un atteggiamento interlocutorio e guardingo, procedurale, fatto di decisioni necessariamente incerte e provvisorie, pronte a mutare in funzione dei loro stessi risultati e degli eventuali nuovi dati acquisiti “nel corso dell’azione”. Sempre ricordando che una conoscenza sufficientemente stabile e globale non poteva che richiedere un tempo superiore a quello necessario al contenimento dei danni prodotti dal fenomeno.
Per gli amministratori pubblici, preposti a prendere decisioni sociali e sanitarie per fronteggiare il problema, questo comportava l’avere a disposizione una sola possibilità razionale: l’esercizio del cosiddetto principio di precauzione, tramite l’applicazione di misure atte a contenere la diffusione del contagio, con l’arbitrio politico di decidere priorità e bilanciamento dei molteplici valori da salvaguardare – le vite umane dei cittadini, la libertà di scelta di tutti i loro comportamenti individuali, il tessuto economico, eccetera. Né si può negare che proprio questo sia ciò che esse hanno fatto, in Italia e all’estero (tranne rari casi e pur con qualche modesta differenza), mettendo decisamente al primo posto (almeno nella fase più rigida) la salvaguardia delle vite umane e ascoltando le indicazioni di profilassi che provenivano dalla scienza.
Per la comunità scientifica, preposta a ottenere, nei modi e nei tempi suoi propri, una maggiore conoscenza del fenomeno e un appropriato apparato tecnico per fronteggiarlo, il quadro descritto comportava invece la prosecuzione della ricerca, notoriamente lunga da percorrere, magari dedicandovisi con particolare urgenza e intensità, fornendo al tempo stesso alle amministrazioni tutti gli aggiornamenti importanti conseguiti; non comportava invece il dedicarsi alla comunicazione mediatica e men che meno social-mediatica, banalmente perché essa non aveva nulla da comunicare, neppure i dati raccolti in itinere, che riguardano più la statistica che non la scienza. Ma così non è stato, o – più precisamente – non lo è stato per tutti i membri della comunità scientifica, perché troppi “esperti” hanno a ripetizione esternato le proprie letture del fenomeno, tutte immancabilmente mere ipotesi, tutte da verificare e confermare (quindi non scientifiche), che invece sono state spessissimo scambiate per “scienza” [5].
Per tutti gli altri cittadini, inclusi anche i politici, quel quadro comportava solo il dovere di vigilare con spirito critico sul modo in cui gli amministratori affrontavano la vicenda, tenendo presente l’assenza di conoscenze certe e perciò da un lato badando ai dettagli senza né assumere, né propugnare posizioni che neppure la scienza aveva i mezzi per avallare, dall’altro usando una sorta di “principio di carità” [6] (speculare a quello di precauzione), il quale – in assenza di conoscenze certe e perciò risultando inevitabili gli errori – imponeva un’insolita tolleranza per chi – il governo e le istituzioni – si trovava nella necessità di decidere giocoforza “alla cieca”. Viceversa, alimentato anche dalla ridda di ipotesi diffusa irragionevolmente da alcuni “esperti” in cerca di visibilità, il dibattito pubblico e quello politico hanno costantemente travalicato questi limiti e si sono trasformati in polemici, irrazionali e conflittuali battibecchi tra sostenitori di posizioni tutte quante parimenti infondate e non scientifiche.
Edward Hopper, Le undici di mattina (1926)
Comportamenti e dibattiti razionali
In sintesi, l’attuazione di un atteggiamento razionale di “non sapere” si può riassumere in un elenco di cose che avrebbe avuto senso fare, coniugate in modo adeguato ai ruoli dei diversi attori:
- non assumere, né propugnare alcuna posizione;
- esercitare il principio di precauzione;
- lasciare alla scienza (quella vera, comunitaria) il tempo per lavorare;
- vigilare sulle misure precauzionali, con un surplus di clemenza riguardo agli errori;
- rimandare ogni “ricerca del responsabile” a dopo l’emergenza;
- essere autocritici, cercando anche di capire quanta della foga critica fosse frutto delle proprie ansie e frustrazioni;
- approfittare del tempo regalato – perché tutti ci lamentiamo della mancanza di tempo per noi o per occuparci di cose escluse dalla quotidianità, e il confinamento, le misure che limitavano spostamenti o la soppressione di eventi pubblici ci fornivano l’occasione per averlo;
- immaginare e progettare un futuro, individuale e politico, diverso dal passato, alla luce sia della possibilità (ancora non esclusa) che si dovesse convivere molti anni con il virus, sia della pessima normalità da cui provenivamo.
Ovviamente, per fare la loro parte nella fase “dinamica” del fronteggiamento della pandemia – ovvero rispettivamente per aggiornare le misure precauzionali e per vigilare sulla loro adeguatezza – rappresentanti istituzionali e cittadini avrebbero dovuto tener conto dei dati raccolti in progress relativi alla sua evoluzione, all’impatto avuto dalle diverse misure prese nei vari Paesi colpiti, alle limitate conoscenze apprese e messe a punto in corso d’opera dalla scienza riguardo al virus e ai farmaci che potevano affievolirne la forza, ecc. Con l’accortezza tuttavia di limitarsi a raccogliere quelli validi, congrui e utili, quali per esempio:
- il numero dei contagiati, necessari per capire le variazioni di intensità di diffusione della malattia;
- il numero dei casi gravi, utili per valutare la capacità del servizio sanitario di farsi carico dei malati (che nella prima fase era il principale problema);
- il numero dei morti, necessari per comprendere il rischio per le vite umane;
- il fattore R0, utile per stimare nell’immediato futuro l’evoluzione del contagio;
- i confronti tra aree omogenee (densità di popolazione, stili di vita, intensità dei focolai iniziali, ecc.), utili per stimare l’efficacia delle diverse strategie di profilassi attuate;
- le statistiche per età, utili per valutare le fasce più a rischio ed eventualmente calibrare le misure.
Valutando i mutamenti di questi parametri, le amministrazioni avrebbero dovuto rimodulare in corso d’opera le misure di profilassi, così da poter tener meglio conto anche degli altri valori in gioco, in primo luogo quello economico e quello della libertà dei cittadini. Dal canto loro, i cittadini stessi avrebbero dovuto far riferimento a questi soli dati validi e pertinenti per valutare criticamente le scelte delle amministrazioni e richiedere eventuali adeguamenti.
Edward Hopper, Ufficio in una piccola città (1953)
Cos’è invece accaduto
Come già accennato, le cose sono andate in modo piuttosto diverso. Riassumendo brevemente, se le amministrazioni pubbliche hanno nelle linee generali attuato l’atteggiamento più razionale, accantonando ogni interpretazione non ben fondata e applicando il principio di precauzione, alcuni scienziati si sono lasciati andare a esternazioni di quelle che erano solo loro personali ipotesi, confondendo un’opinione pubblica turbata dalla situazione e favorendo la degenerazione del dibattito pubblico, cosicché i cittadini hanno largamente mancato di rispettare i limiti di un atteggiamento accorto richiesto dall’ignoranza della scienza sul tema e hanno dato vita a scontri tra fazioni, nessuna delle quali aveva la minima legittimazione scientifica. Nel fare questo, tutti i soggetti in gioco hanno usato argomenti impropri e dati infondati, imprecisi o semplicemente inutilizzabili per ragioni logiche o tecniche, quali per esempio:
- le esternazioni dei singoli “esperti”, che in una condizione di ignoranza scientifica generalizzata avevano (al massimo) il valore di ipotesi per la ricerca, inutili per la decisione di strategie e per l’orientamento dei cittadini;
- i confronti tra aree disomogenee, le quali – influenzate da molti fattori non esplicitati e di incidenza non nota, come l’intensità dei focolai di partenza, la densità di popolazione, le condizioni climatiche, gli stili di vita, ecc. – avevano forza dimostrativa quasi sempre nulla [7];
- le valutazioni sui dati rilevati dopo le misure, che (al massimo) possono dare un’idea dell’efficacia di queste ultime, ma non dicono niente su altre cose – per esempio sullo stato di vitalità del virus o sulla sua decadenza con il cambio stagionale;
- ogni dato, diagramma o confronto privo delle fonti ben specificate, dei sistemi di rilevamento, ecc.;
- ogni opinione o articolo mal argomentati (ovvero facenti uso di dati inutilizzabili, ipotesi non confermate o perfino paralogismi e inconseguenze), anche quando provenienti da “esperti” [8].
Questo genere di dati inadeguati o inopportuni è proprio ciò che è stato costantemente utilizzato dai media, sui social media e perfino da politici ed esperti in cerca di visibilità, con il risultato di produrre un dibattito pubblico privo di ogni logica. Ad aggravare la situazione, poi, l’abitudine diffusa a confrontarsi sulla base del conflitto tra schieramenti [9], tipico del dibattito politico, che ha fatto sì che alle obiezioni sulla fondatezza di un dato si rispondesse perlopiù o con l’ostensione di altri dati altrettanto inadeguati (ma apparentemente supportanti la fazione), o con la denigrazione dell’interlocutore, soprattutto quando fossero in discussione le misure assunte dal Governo.
Tra gli argomenti ricorrenti, talvolta avanzati e rielaborati anche da intellettuali di un certo prestigio, merita forse soffermarsi su alcuni.
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