”DIALOGHI MEDITERRANEI”
Periodico bimestrale dell'Istituto Euro-arabo di Mazara del Vallo (Trapani)
1.9.2020
LA STORIA SIAMO NOI. ANCHE POPPER E’ D’ACCORDO.
Il regime politico attuale in Italia è democratico? Siamo davvero a rischio di totalitarismo? Risposte minimamente sensate presuppongono che ci si intenda, preliminarmente, sulle nozioni di “democrazia” e di “totalitarismo”. Dal punto di vista giuridico-istituzionale si sono proposte varie definizioni.
Per Norberto Bobbio, ad esempio, una definizione minimale di democrazia implica tre condizioni: “l’attribuzione del diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla presa di decisioni collettive a un numero molto alto di cittadini”; “l’esistenza di regole di procedura come quella di maggioranza (o al limite di unanimità)”; “che coloro che sono chiamati a decidere o a eleggere coloro che dovranno decidere siano posti di fronte ad alternative reali e siano messi in condizione di poter scegliere tra l’una e l’altra. Affinché si realizzi questa condizione occorre che ai chiamati a decidere siano garantiti i cosiddetti diritti di libertà, di opinione, di espressione della propria opinione, di riunione, di associazione ecc.”[1].
In maniera per così dire speculare rispetto alla perimetrazione della nozione di democrazia è possibile, sulla scia di Hanna Arendt, focalizzare l’idea di totalitarismo: un regime in cui i cittadini non possono partecipare alle decisioni del governo (se non come sudditi consenzienti), in cui il governo non deve obbedire a regole prestabilite (ma può agire in totale arbitrio) e in cui non è prevista alcuna forma legale (e non-violenta) di sostituzione dei governanti.
Le radici antiche del totalitarismo
Se, a differenza di regimi simili (tirannide, autoritarismo, dittatura…), il totalitarismo è un fenomeno moderno perché mira, attraverso gli apparati tecnologici, a conquistare anche l’anima dei cittadini, ciò non significa che i suoi germi non affondino alle origini della civiltà. Tale, almeno, la convinzione - espressa nel 1943 da Karl Popper – nel suo La società aperta e i suoi nemici:
“Questa civiltà non si è ancora totalmente ripresa dallo shock della sua nascita:
il passaggio cioè dalla società tribale o ‘società chiusa’, con la sua sottomissione
alle forze magiche, alla ‘società aperta’ che libera le capacità critiche dell’uomo”[2].
Uno shock che costituisce
“uno dei fattori che hanno reso possibile l’emergere di quei movimenti
reazionari tesi a rovesciare la civiltà per tornare al tribalismo”
attestando che
“quello che noi, oggigiorno, chiamiamo totalitarismo appartiene a una
tradizione che è altrettanto vecchia o altrettanto giovane che la nostra
civiltà”[3].
Ma davvero nel XX secolo, in cui Popper scriveva, o nel XXI, in cui noi lo leggiamo, c’è gente sottomessa a “forze magiche”? Condizionata dall’idea che gli esseri umani siamo pedine in balìa di voleri extra-umani e sovra-umani che pre-determinano il corso degli avvenimenti riducendo quasi al nulla gli ambiti della nostra libertà? La risposta di Popper è che la convinzione mitica che i mortali siamo burattini in mano agli dei sia stata per così dire secolarizzata - tradotta in termini laici – nello “storicismo” filosofico. Ovviamente, per poter giudicare questa tesi popperiana, occorre capire bene in quale accezione semantica egli adotti la categoria “storicismo”. Per lui non denomina qualsiasi concezione del mondo che dia importanza alla dimensione storica dell’essere umano, e conseguentemente allo studio della storia, bensì una concezione del mondo secondo la quale esisterebbero delle leggi oggettive della storia e, dunque, sarebbe possibile a noi uomini scoprire tali leggi e, grazie a tale scoperta, fornire “profezie storiche a lungo termine”[4].
Popper ha dedicato un intero volume a diagnosticare la Miseria dello storicismo[5], ma qui vorrei limitarmi a una sola conseguenza pratica, esistenziale:
“le metafisiche storicistiche sono idonee a sollevare gli uomini dal peso
delle loro responsabilità. Se si sa che le cose sono destinate ad accadere
qualunque cosa si faccia, ci si può sentire autorizzati a rinunciare al
tentativo di impedire quelle cose che la maggior parte della gente è d’accordo
nel considerare mali sociali, come la guerra; ovvero, per limitarci a qualcosa
di più modesto, ma nondimeno importante, la tirannia del piccolo funzionario” [6].
Popper esamina tre grandi pensatori che, a suo parere, hanno gettato le basi dello “storicismo”, sia pur declinandolo in prospettive assai differenti: Platone (teorico di uno storicismo conservatore-reazionario secondo cui la storia procede dalla perfezione originaria verso un progressivo decadimento); Hegel (teorico di uno storicismo conservatore-totalitario secondo cui la storia, dopo un lungo processo verso la perfezione assoluta, si è per così dire acquietata nello Stato prussiano della prima metà del XIX secolo); Marx (teorico di uno storicismo rivoluzionario-messianico secondo cui la storia è in trionfale e inarrestabile progresso verso la perfezione della società senza Stato e senza classi sociali).
Popper è il primo a sottolineare, ripetutamente, che Platone, Hegel e Marx sono caratterizzati da differenze enormi e che possono essere accomunati solo da una convinzione: che la storia umana ha un “senso” pre-definito che noi mortali possiamo assecondare o ostacolare, ma non mutare.
A questo cuore duro dello storicismo, matrice di ogni società ‘chiusa’, Popper oppone l’idea che
“la storia non ha senso. Ma questa affermazione non implica che non ci resti
da fare che guardare sconcertati alla storia del potere politico o considerarla
come una beffa crudele. Infatti, possiamo interpretarla, tenendo l’occhio
fisso su quei problemi della politica di potere di cui decidiamo di tentare
la soluzione nel nostro tempo. Noi possiamo interpretare la storia della
politica di potere dal punto di vista della nostra lotta per la società aperta,
per il dominio della ragione, per la giustizia, la libertà, l’uguaglianza,
e per il controllo del crimine internazionale. Benché la storia non abbia
fini, noi possiamo imporre ad essa i nostri fini e benché la storia non abbia
alcun senso, noi possiamo dare ad essa un senso”[7].
[1] Bobbio N., Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. 27.
[2] Popper K. , La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma 1974, ed. or. 1943, p. 19.
[3] Ivi. Su queste ricostruzioni storiche di stampo evolutivo ha sollevato fondate obiezioni Alberto Cacopardo nel suo recente Chi ha inventato la democrazia? Modello paterno e modello fraterno del potere, Meltemi, Milano 2019 (cfr., sul numero 42 del 1.3.2020 di questa stessa rivista, il mio Il potere e la democrazia: categorie e dicotomie).
[4] Popper K., La società, cit., p. 21. Leggi socio-psicologiche, leggi ontologico- spirituali, leggi economiche o di altro genere: comunque non poste dagli uomini, ma da essi constatate e teorizzate.
[5] Popper K. , Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano 2013, ed. or. 1943.
[6] Popper K., La società, cit., p. 23.
[7] Popper K., La società, cit., p. 568.
1 commento:
Dopo avere letto e commentato alcuni passi di Platone nel corso di due incontri con i partecipanti alle vacanze filosofiche di Roccaraso, alla fine ho esposto alcune mie osservazioni.
1 Poiché Platone propone un modello ideale di Stato, non sarebbe corretto confrontare questo con le varie realizzazioni politiche. Il confronto corretto è tra modelli politici fra loro o tra realizzazioni fattuali tra loro.
2 Platone, che valorizza la dimensione spirituale dell’uomo, criticava la democrazia ateniese ed elogiava il modello spartano: come mai proprio Atene e non Sparta ha dato il più grande contributo allo splendido sviluppo culturale e spirituale della Grecia?
3 Chi critica la democrazia perché si basa sulla quantità (comanda la maggioranza) e non sulla qualità (comandano i migliori) potrebbe portare esempi storici in cui i migliori hanno avuto il potere? Che io sappia, si arriva al potere solo in base ai numeri o con la forza. Anche prima della rivoluzione francese contavano i numeri (il criterio della quantità precede l’introduzione di un suffragio più o meno ampio): nobiltà e clero contro terzo stato (2 a 1). Che i nobili e gli ecclesiastici superassero per qualità i borghesi è tutto da dimostrare: davvero si è più in gamba perché si nasce figli di re o di nobili (anche l’alto clero era costituito in genere dai cadetti delle famiglie nobili)?
4 Platone stabilisce un parallelismo tra la struttura dell’uomo (anima razionale, irascibile e concupiscibile) e quella della società politica (filosofi, guerrieri, lavoratori). Ma, posto che nell’individuo ci siano per natura queste tre facoltà, si può essere certi che le differenze di doti, e quindi di ruoli, tra i cittadini (per non parlare della massa degli schiavi) abbia un fondamento ugualmente naturale e non dipenda da circostanze storiche? E se Platone e Aristotele non fossero vissuti in un’economia fondata sul lavoro degli schiavi, siamo certi che avrebbero considerato naturale la schiavitù?
5 Platone nelle Leggi, ha abbandonato il progetto della Repubblica: non più il potere ai filosofi, non più abolizione di famiglia e proprietà privata per i governanti. Affida ora il potere non ai filosofi ma alle leggi e propone famiglia e proprietà per tutti: ma se per vivere occorre, per esempio, un terreno di un ettaro, il più ricco non può possedere un terreno che ecceda i sette ettari. Perché appiattire Platone sulla Repubblica senza prendere in considerazione i ripensamenti delle Leggi? Come escludere che Platone abbia cambiato la sua proposta perché, anche dopo essersi confrontato con il giovane Aristotele, si è convinto che non è realistico immaginare governanti capaci di rinunciare alla famiglia e alla proprietà? Resta però il fatto che l’avidità di ricchezze (e qui mi pare che Platone abbia visto bene) è la principale causa dei conflitti: forse per questo pone dei limiti in alto e in basso; la misura della ricchezza può variare ma ciò che conta, mi pare voglia dire Platone, è che non ci sia un’accumulazione di beni da parte dei più ricchi tale da impedire ai più poveri una vita decente; forse lo stesso obiettivo che oggi si vorrebbe raggiungere con un sistema di tassazione progressiva che mira in qualche misura a redistribuire le risorse, non per abolire le differenze ma per dare a tutti uguali opportunità.
6 Di quelli che storicamente hanno preso il potere con la forza o che, una volta arrivatici, hanno usato la forza per conservarlo, mi pare difficile dire che siano stati tra i migliori governanti. Hanno imposto una certa ideologia, eliminato le opposizioni e compresso le libertà (in una democrazia, anche mal ridotta, non c’è il consiglio notturno, quella specie di inquisizione proposta da Platone nelle Leggi, e io sono libero di scegliere: cattolico, musulmano, ateo…), tanto che per liberarsene è inevitabile il ricorso alla forza. La democrazia (che favorisce la diffusione dell’istruzione, il pluralismo dell’informazione, la difesa dei diritti delle minoranze…) non potrebbe essere allora davvero il male minore?
Elio Rindone
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