martedì 14 luglio 2020

OSSERVAZIONI CRITICHE DI FRANCO CORTIMIGLIA

Dopo aver letto il mio Invito al pensiero di Eugen Drewermann (https://www.augustocavadi.com/2020/07/invito-al-pensiero-di-eugen-drewermann.html) , Francesco Cortimiglia mi ha cortesemente inviato una serie di obiezioni e considerazioni critiche che vorrei offrire alla condivisione dei lettori interessati a questo Autore e a questa tematica:


Perché la mia fede è ragionevole
Riflessioni sulla religiosità consapevole a margine di un articolo di Augusto Cavadi

Possiamo rinunciare alla religione? o ne abbiamo un insopprimibile bisogno? Questa esigenza di fondo ci parla solo della nostra disperata precarietà o pone la basi per un dialogo possibile con il divino? E se esiste la possibilità di un itinerarium in deum, qual è il ruolo della ragione in questo percorso di fede? Queste domande ed altre ancora suscita la lettura dell’articolo di Augusto in occasione degli ottanta anni di Drewermann. Proverò ad evidenziare alcuni nuclei concettuali che a me paiono essenziali, per provare poi a condividere i pensieri che le domande di Augusto mi suscitano.
Possiamo rinunciare alla religione?
Drewermann, ci ricorda Augusto, sostiene l’irrinunciabilità, della “religione” per la sopravvivenza della specie umana. Drewermann non si riferisce alle religioni storiche, intese come sistemi gerarchici / dottrinari / etici / liturgici, verso le quali mostra invece di una durezza sprezzante. Si riferisce invece alla “religione” come sinonimo di “fede”: e fede non in quanto accettazione di (presunte) verità rivelate, ma come atteggiamento di “fiducia” in un Ente che, “nella sua potenza e nella sua bontà, regge il mondo” e ciascun vivente.
La religione, per Drewermann, è “essenzialmente una risposta alla contingenza”, o, per essere più chiari, a questo problema di fondo: tutti sono consapevoli di essere “abbandonati a se stessi di fronte alla morte, alla caducità, alla nullità, alla non-necessarietà dell’esistenza”, in modo tale che “ognuno è condannato alla sofferenza e all’infelicità e ciò per il semplice fatto di essere un uomo che pensa”.

Che l’esperienza religiosa nasca dalla esperienza della precarietà e del limite, nessuno può dubitare. La questione è: abbiamo strumenti per trovare una via verso il significato e il valore di un’esperienza così contraddittoria e dolorosa o siamo condannati alla disperazione? Nella suddetta accezione, “religione” è comune a tutte le tradizioni sapienziali dell’umanità e la sua eclisse non è né prevedibile né auspicabile. L’esperienza del mondo ci mostra, infatti, soprattutto errori e orrori; al punto che la condizione naturale dell’uomo è l’angoscia (smarrimento al cospetto della morte), da cui deriva ogni forma di cattiveria, egoismo, avidità, prepotenza, violenza.Tuttavia Drewermann si chiede: “perché, sino ad oggi, in preda all’angoscia, l’umanità non si è autodistrutta? Che cosa l’ha, sinora, preservata dal suicidio nichilistico? Che cosa l’ha ‘salvata’, che cosa potrà salvarla?” La risposta è la giustificazione della irrinunciabilità della fede: l’umanità è salvata dall’idea che la morte non è la fine di tutto. Solo questa idea “può risparmiare alla specie umana l’autodissoluzione collettiva”. È questa la religione in senso forte l’essenza della fede non come ‘credenza’, condivisione di dottrine, ma come “affidamento nelle braccia di Dio.


Esiste un Dio fuori di noi?
Resta da chiedersi, con Augusto, se questa visione esigenziale approdi ad un dialogo, incontro, esperienza che superi il semplice monologo dell’uomo che lotta contro la sua disperazione. Nella storia della teologia si è sempre inteso di poter desumere dal dato di fatto della creazione l’esistenza di Dio. È ancora possibile oggi percorrere questo itinerarium mentis in Deum? La risposta di Drewermann è negativa. Le scienze naturali renderebbero impossibile utilizzare le leggi dell’universo, la sua bellezza, la sua stessa esistenza, come piste per risalire a un Essere creatore. Sono infatti negate nella natura ordine, sapienza e bontà che possano farci risalire ad un loro principio. «Esiste una sofferenza talmente infinita, esistono talmente tante cose che non hanno ricompensa, talmente tanto caos e tanta assurdità in questo mondo, che non ci si può richiamare a un piano razionale in via di realizzazione».
La vita individuale e collettiva «va considerata tragica e per nessun motivo la grandiosa manifestazione di un Dio che ha organizzato tutto questo con amore e sapienza, con bontà e onnipotenza».
La consapevolezza della tragicità della vita e della inadeguatezza della ragione a risalire dalla realtà che osserviamo al Principio eterno che la giustifica – oggi nessuno potrebbe arrischiare una “giustificazione di Dio”, una “teodicea” alla Leibniz – non significa optare per il “crescente ateismo nell’età moderna”, non ci condanna ad abbracciare la secolarizzazione post-religionale.

Il linguaggio del mito è essenziale
L’ esistenza e la prossimità di Dio, la stessa convinzione salvifica della vita oltre la morte – per essere esistenzialmente efficace nelle vite e nella storia – non può configurarsi in termini concettuali: deve piuttosto manifestarsi poeticamente, nella lingua dei simboli, delle metafore, delle immagini.
Tutti i libri sacri infatti usano registri narrativi, raccontando sogni, miti, fiabe, saghe, leggende, visioni, storie di miracoli, profezie, parabole. “L’equivoco letale della cristianità per Drewermann si è consumato quando... questo linguaggio evocativo è stato trasposto sul piano logico-razionale ed è stato cristallizzato in dogmi e precetti.
Oggi la cultura – prosegue Augusto – ci mette a disposizione strumenti per riscoprire l’approccio più adeguato a questi testi”. Si pensi ad esempio alla psicoanalisi di Freud e di Jung: i commenti dello stesso Drewermann al libro di Giona e al vangelo di Marco ne sono esemplificazioni ammirevoli.
Sembra che il teologo-psicoterapeuta tedesco, osserva Cavadi, abbia sostituito l'antica via cosmologica con una nuova via ‘psicologica’ che porta a Dio partendo non più dall’universo fisico quanto dal mondo interiore e inconscio della specie umana.
Resta tuttavia aperta una questione rilevante. Chiede infatti Augusto: la religione/fede, di cui abbiamo ‘disperato’ bisogno, può considerarsi il correlativo antropologico di un Dato ‘oggettivo’, assoluto, noumenico? È la risonanza in noi mortali di un Eterno sussistente ‘prima’, ‘senza’ e ‘oltre’ noi?

L’esperienza interiore e l’incontro con i testimoni di Dio
Non so in Drewermann, a me la risposta sensata alla domanda sembra essere proprio quella prospettata da Cavadi nell’interpretare Drewermann. Augusto la respinge come insufficiente. A me pare ragionevole. Proverei a formularla così: la fede nasce dalle profondità di una esperienza interiore, che ci consente di postulare l’esistenza di Dio ed evitare l’incubo del Nulla. La nostra idea di un Dio potente e amante non nasce dalla clamorosa potenza di una rivelazione nella storia, non dall’autorità di un magistero, non dalle luminose certezze della ragione che dipana il mistero. Nasce invece da una esperienza interiore, che viene tuttavia ravvivata ed alimentata dall’incontro con altre
esperienze di fede, “dall’impatto con uomini concreti, in carne e ossa, che si fanno messaggeri dell’annunzio salvifico”.
La testimonianza di Drewermann riportata da Augusto è a riguardo di grande forza. Ne riproduco, per comodità uno stralcio:

Quando Gesù dice che le persone che soffrono, le persone che piangono, quelle che sono indifese, che sono impotenti, che sono malate, tutte queste persone devono avere necessariamente una possibilità, e che lui è venuto a fondare un mondo in cui la bontà diventi il fondamento portante delle relazioni reciproche – allora ho pensato che doveva essere proprio così, che solo così vale la pena di vivere. Il mondo così com’è non merita di esistere per più di un giorno. Ma il mondo, descritto come lo vuole e lo rende possibile Gesù, merita ogni genere di impegno e speranza.... In altri termini, ho creduto in Dio nel modo in cui Gesù ha cercato di portarlo nel mondo. Ho creduto al Dio di Gesù. Perché, nello stesso tempo, non riuscivo a capire come facesse Gesù a considerare possibile la sua bontà, se non presupponendola reale in ciò che egli chiama suo padre. E’ in forza di questa fede che egli compie cose del tutto paradossali, cose assolutamente incredibili. [...] Gesù non si stanca di portare argomenti a partire da un Dio che egli presuppone, ma che non può dimostrare. Ciò che fa è renderlo semplicemente presente nell’evidenza del suo comportamento umano. Ed è questo che mi ha convinto. In questo io credo ancora oggi, incondizionatamente. Non potrei esistere davvero un solo giorno senza avere questa sicura fiducia, vale a dire che ciò che Gesù voleva è possibile (Drewermann E. , E il pesce vomitò Giona all’asciutto. Il libro di Giona interpretato alla luce della psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 2003).

Perché la fede è ragionevole
Chiarita la centralità della dimensione interiore e del dialogo con l’esperienza altrui (gli amici di una comunità, i maestri di ogni tempo), ribadita la necessità del mito, rimane da affrontare ancora la questione posta da Augusto: è vero o falso che ciò che chiamiamo Dio – o dimensione divina della realtà – ha una consistenza ontologica indipendentemente da ciò che gli umani desideriamo o temiamo? O la necessità di abbandonare la teologia tradizionale e persino la teodicea ci deveindurre all’agnosticismo?
Vi dico subito che la risposta agnostica non mi pare necessaria. Mi pare anzi che l’agnosticismo rechi in sé una curiosa contraddizione. L’agnosticismo mi pare la curiosa posizione di chi afferma che Dio non può essere conosciuto con la ragione, ma insiste ad usare solo la ragione per conoscerlo.
Anch’io, che sono uomo di fede, potrei dirmi agnostico perché non dispongo di categorie capaci di esprimere compiutamente Dio e di dimostrarne ad altri, per via puramente razionale, l’esistenza e la prossimità. Eppure posso testimoniare la mia fede e dare argomenti della sua ragionevolezza.
Superato lo scandalo di una ragione che non può né afferrare né dire Dio, la mia fede è ragionevole per più ragioni.
  •   Innanzitutto proprio perché non si basa sulla sola ragione, né consiste in un sistema di idee e precetti in cui credere.
  •   In secondo luogo perché non si affida all’autorità di una tradizione che pretende di definire dogmaticamente ciò che l’esperienza di fede delle generazioni precedenti ha tramandato.
  •   Critica e respinge visioni costruite nel tempo per finalità eterogenee alla ricerca religiosa sulla base di interpretazioni infondate storicamente, razionalmente inaccettabili.
  •   È ragionevole perché non respinge il linguaggio del mito, perché comprende che non è il linguaggio della menzogna, ma un modo ricco di intendere ed esprimere la realtà, se non si ha l’ingenuità di prenderlo alla lettera o tradurlo in sistema di concetti.
  •   È ragionevole perché respinge l’ingenuità della scienza che pretende di escludere dalla realtà ciò che non può verificare sperimentalmente.
  •   È ragionevole perché continuamente purificata dalla superstizione che ricorre al soprannaturale per proteggersi da ciò che non si comprende (si tratti di ciò che ancora la ragione e la scienza non ha spiegato, o ciò che rimane essenzialmente impenetrabile alla indagine razionale e scientifica).
  •   È ragionevole perché è degno della dignità dell’uomo e della dignità di Dio partire dalla propria esperienza interiore per entrare in dialogo con l'esperienza di fede delle generazioni precedenti, confrontando diversità di bisogni, linguaggi, categorie, e scoprendo le affinità della vita che incontra la vita (qui non posso evitare un rimando a uno dei miei incontri sullEsodo tenuti lo scorso scorso anno presso la Fondazione "Parrino", in cui ho provato a porre questa delicata questione)
  •   È ragionevole perché è ragionevole seguire l'esempio di tante grandi anime
  •   ....
    Le posizioni agnostiche e apofantiche hanno valore come critica alla teodicea e alla teologia tradizionale che hanno preteso di capire e di dire oltre i limiti umani. La ragione tuttavia può ancora dirci tanto sulla qualità della nostra esperienza interiore, sul modo di accostarci al mistero, sulla ragionevolezza della fede, sulla universalità dell’esperienza di fede.

    Riscoprire il linguaggio dei simboli
    Augusto si dice convinto che “il dilemma Dio sì – Dio no vada sottratto al dominio esclusivo dei sentimenti e affidato prima di tutto al rigore della lucidità intellettuale”. Comprendo e condivido lesigenza del dialogo tra ragione e sentimento. Non condivido l’accento sul primato del rigore e della lucidità intellettuale da conservare rispetto alla sfera emotiva. Se il linguaggio dei simboli e la sfera irrazionale o prerazionale a cui attinge è il più adatto a sondare il mistero dell’essere e della vita e a parlarcene, se al rigore razionale non è concesso (per sua stessa lucida ammissione) di dire altro che balbettii sulla realtà divina, allora è l’uso esclusivo della ragione ad essere semplicemente insensato, mentre una ragione che dialoga con i propri sentimenti non perde la propria lucidità, ma, al contrario, la riconquista.
    Sono invece d’accordo sul fatto che bisogna andare “al di là della polarizzazione fra una fede ‘esigenziale’ (Dio c’è perché la vita senza di Lui sarebbe assurda) e un ateismo altrettanto ‘esigenziale’ (Dio non c’è perché ne abbiamo bisogno psicologico: la sua esistenza sarebbe troppo bella per essere vera).
    In realtà tutti noi (e lo stesso Drewermann) siamo tutti in una terza via (che racchiude, comè ovvio, una pluralità di vie possibili), in costante dialogo con pensatori, poeti, uomini e donne diogni tempo che si sono succeduti di generazione in generazione testimoniando la loro fede, la loro risposta totale di fiducia verso il mondo in generale, verso le persone e verso il futuro” (Geering L., Reimmaginare Dio. Il viaggio della fede di un moderno eretico, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020, citato da Augusto). 
    Né il Dio dei filosofi e dei teologi, né il nulla degli atei, ma il Dio della fede, una fede che purifica se stessa nel confronto vitale della propria esperienza con quella degli altri e vigila, con la propria ragione, sulle derive irrazionali e sulle arroganze della ragione. In questo cammino di fede, occorre rivalutare il linguaggio dei simboli: a partire da quelli che emergono dal dialogo Cavadi- Drewermann: dall’antico simbolo poetico-filosofico dell’acqua alle suggestive metafore geometrico-poetiche dell’infinito, passando per i procedimenti analogici con cui ci spingiamo a parlare di Dio a partire dalla ricerca di pienezza di sapienza, di virtù, di giustizia, di felicità... un modo diverso di parlare del desiderio di Dio lasciando l’antico simbolo dell’acqua, principio di vita, per usare concetti che esprimono in modo più articolato l’idea della pienezza della vita, del suo significato e del suo valore: modi altrettanto suggestivi e parimenti inadeguati se pretendono di dire con esattezza qualcosa della realtà divina. Sono concetti, ma hanno valenza simbolica se riferiti a Dio, mai del tutto raggiungibile, nel nostro faticoso e incerto cammino.
                                                        Francesco Cortimiglia

3 commenti:

Bruno Vergani ha detto...

Tutto molto interessante. Consideravo che c’è chi, per sua natura, percorre un sentiero razionale di conoscenza e chi una via più legata al “sentimento”. A oriente nel Vedānta sono considerati percorsi entrambi leciti e complementari, il primo lo chiamano Jnana il secondo Bhakti. La prima via non mi sembra senza insidie: cos’è la razionalità? Esiste un suo statuto certo? E se esiste per quale motivo i soggetti razionali non giungono tutti alle medesime conclusioni. Il secondo approccio è forse ancora più rischioso, dopo Freud sappiamo perché. In effetti non ci resta che un serio dialogo tra ragione e sentimento dentro e fuori di noi, specialmente con quelli che, per loro natura, percorrono una via con accenti diversi dai nostri.

Mario Mercanti ha detto...

Un grande ringraziamento ad Augusto ed a Franco per queste considerazioni, che gettano luce questioni fndamentali dell'esperienza umana.
Per quanto rigurda Drewermann, devo dire che non concordo con la sua categorica affermazione secondo cui soltanto la speranza di una vita dopo la morte impedisce all'Umanità il proprio "suicidio nichilistico".
A me pare che ciò di cui gli essseri umani hanno bisgno per vivere sia, più in generale, la possibilità di dare un senso, uno scopo alla propria esistenza. Tale senso può assumere i contenuti più diversi la cui validità dipende non tanto dalla qualità oggettiva di essi quanto dala modo in cui ciascun essere umano li considera. E' vero che per molte persone la vita puo' avere un senso solo se essa non finisce con la morte fisica ma si prolunga - in qualche modo - al di là di essa ma è anche vero che tante altre, che non credono né all'esistenza di Dio né a quella dell'anima, hanno saputo consacrare la loro vita e la loro morte ad una Causa che ne ha riempito l'esistenza. E, d'altra parte, tante altre, più modestamente, danno un senso ala propria vita, ad esempio, nel procurare un avvenire ai propri figli o - anche di questo bisogna prendere atto - nel perseguire il, potere, il successo, la ricchezza, la fama ed a questo dedicano il loro impegno.

Elio Rindone ha detto...

Caro Augusto, ti passo alcune osservazioni telegrafiche sparse sui testi tuo e di Franco Cortimiglia.

* Sono d’accordo con Pascal: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.

* Sono d’accordo con Augusto: anch’io sono convinto che il dilemma Dio sì – Dio no vada sottratto al dominio esclusivo dei sentimenti e affidato prima di tutto al rigore della lucidità intellettuale.

* A Drewermann obietterei: Il bisogno umano di sicurezza, di protezione non prova né l’esistenza né l’inesistenza di padre divino, come la sete non prova l’esistenza di un’oasi. Però di un’oasi io ho fatto esperienza: non so se ne troverò una prima di morire di sete, ma so che le oasi ci sono. E del padre celeste?

* Sono d’accordo con tutti voi: possiamo usare solo metafore, scegliendone alcune e rifiutandone altre, anche se bibliche. A patto però di ricordare che la metafora usa un termine al posto di un altro per suggerire un’analogia. Esempio: il leone è il re della foresta. Ora, io so cosa sono i leoni e cosa sono i re. Ma quando uso il termine persona, padre, fondamento... non so nulla della X alla quale sto attribuendo tali caratteristiche. Mi pare quindi necessario restare vigili, e non cadere nell’errore di credere che usando quelle metafore stiamo conoscendo un po’ la realtà di quella che resta una X.

* Inoltre: la visione teologica tradizionale aggiunge coerentemente a 'persona', termine usato in maniera analogico-metaforica, onniscienza e onnipotenza: è possibile ipotizzare una 'superpersona' che non abbia tali caratteristiche? E se le ha, allora il male?
Con la tesi del peccato originale, i conti tornano: il dolore è giusta punizione. Rifiutata la tesi, non trovo soluzione. Resta la fede, incoraggiata dall’esperienza di Gesù, che amare possa dare senso alla vita, riducendo il mare sconfinato del dolore, che resta per la massima parte irredento. Anche gli atei sono capaci di impostare così la loro vita, ma una maggiore generosità sino al sacrificio di sé si trova più spesso in chi ha una fede religiosa.

* Non sono d’accordo con Drewermann: “la morte non è la fine di tutto, ma il passaggio dal tempo all’eternità. Questa idea è la fede, la religione in senso forte e vero: essa sola può risparmiare alla specie umana l’autodissoluzione collettiva. Fede non come ‘credenza’, condivisione di questa o quella ‘dottrina’, recezione di ‘opinioni’ più o meno autorevoli, ma come “fedeltà”, affidamento nelle braccia di Dio”. Come intendere queste espressioni: ‘affidamento’, ‘braccia’? Anima immortale? Resurrezione? Le metafore non possono sostituire il discorso razionale rigoroso, e io non trovo dimostrazioni di una sopravvivenza personale.