Che l’esperienza religiosa nasca dalla esperienza della precarietà e del limite, nessuno può dubitare. La questione è: abbiamo strumenti per trovare una via verso il significato e il valore di un’esperienza così contraddittoria e dolorosa o siamo condannati alla disperazione? Nella suddetta accezione, “religione” è comune a tutte le tradizioni sapienziali dell’umanità e la sua eclisse non è né prevedibile né auspicabile. L’esperienza del mondo ci mostra, infatti, soprattutto errori e orrori; al punto che la condizione naturale dell’uomo è l’angoscia (smarrimento al cospetto della morte), da cui deriva ogni forma di cattiveria, egoismo, avidità, prepotenza, violenza.Tuttavia Drewermann si chiede: “perché, sino ad oggi, in preda all’angoscia, l’umanità non si è autodistrutta? Che cosa l’ha, sinora, preservata dal suicidio nichilistico? Che cosa l’ha ‘salvata’, che cosa potrà salvarla?” La risposta è la giustificazione della irrinunciabilità della fede: l’umanità è salvata dall’idea che la morte non è la fine di tutto. Solo questa idea “può risparmiare alla specie umana l’autodissoluzione collettiva”. È questa la religione in senso forte l’essenza della fede non come ‘credenza’, condivisione di dottrine, ma come “affidamento nelle braccia di Dio”.
- Innanzitutto proprio perché non si basa sulla sola ragione, né consiste in un sistema di idee e precetti in cui credere.
- In secondo luogo perché non si affida all’autorità di una tradizione che pretende di definire dogmaticamente ciò che l’esperienza di fede delle generazioni precedenti ha tramandato.
- Critica e respinge visioni costruite nel tempo per finalità eterogenee alla ricerca religiosa sulla base di interpretazioni infondate storicamente, razionalmente inaccettabili.
- È ragionevole perché non respinge il linguaggio del mito, perché comprende che non è il linguaggio della menzogna, ma un modo ricco di intendere ed esprimere la realtà, se non si ha l’ingenuità di prenderlo alla lettera o tradurlo in sistema di concetti.
- È ragionevole perché respinge l’ingenuità della scienza che pretende di escludere dalla realtà ciò che non può verificare sperimentalmente.
- È ragionevole perché continuamente purificata dalla superstizione che ricorre al soprannaturale per proteggersi da ciò che non si comprende (si tratti di ciò che ancora la ragione e la scienza non ha spiegato, o ciò che rimane essenzialmente impenetrabile alla indagine razionale e scientifica).
- È ragionevole perché è degno della dignità dell’uomo e della dignità di Dio partire dalla propria esperienza interiore per entrare in dialogo con l'esperienza di fede delle generazioni precedenti, confrontando diversità di bisogni, linguaggi, categorie, e scoprendo le affinità della vita che incontra la vita (qui non posso evitare un rimando a uno dei miei incontri sull’Esodo tenuti lo scorso scorso anno presso la Fondazione "Parrino", in cui ho provato a porre questa delicata questione)
- È ragionevole perché è ragionevole seguire l'esempio di tante grandi anime
- ....Le posizioni agnostiche e apofantiche hanno valore come critica alla teodicea e alla teologia tradizionale che hanno preteso di capire e di dire oltre i limiti umani. La ragione tuttavia può ancora dirci tanto sulla qualità della nostra esperienza interiore, sul modo di accostarci al mistero, sulla ragionevolezza della fede, sulla universalità dell’esperienza di fede.Riscoprire il linguaggio dei simboliAugusto si dice convinto che “il dilemma Dio sì – Dio no vada sottratto al dominio esclusivo dei sentimenti e affidato prima di tutto al rigore della lucidità intellettuale”. Comprendo e condivido l’esigenza del dialogo tra ragione e sentimento. Non condivido l’accento sul primato del rigore e della lucidità intellettuale da conservare rispetto alla sfera emotiva. Se il linguaggio dei simboli e la sfera irrazionale o prerazionale a cui attinge è il più adatto a sondare il mistero dell’essere e della vita e a parlarcene, se al rigore razionale non è concesso (per sua stessa lucida ammissione) di dire altro che balbettii sulla realtà divina, allora è l’uso esclusivo della ragione ad essere semplicemente insensato, mentre una ragione che dialoga con i propri sentimenti non perde la propria lucidità, ma, al contrario, la riconquista.Sono invece d’accordo sul fatto che bisogna andare “al di là della polarizzazione fra ‘una fede ‘esigenziale’ (Dio c’è perché la vita senza di Lui sarebbe assurda) e un ateismo altrettanto ‘esigenziale’ (Dio non c’è perché ne abbiamo bisogno psicologico: la sua esistenza sarebbe troppo bella per essere vera).In realtà tutti noi (e lo stesso Drewermann) siamo tutti in una terza via (che racchiude, com’è ovvio, una pluralità di vie possibili), in costante dialogo con pensatori, poeti, “uomini e donne diogni tempo che si sono succeduti di generazione in generazione testimoniando la loro fede, la loro risposta totale di fiducia verso il mondo in generale, verso le persone e verso il futuro” (Geering L., Reimmaginare Dio. Il viaggio della fede di un moderno eretico, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020, citato da Augusto).Né il Dio dei filosofi e dei teologi, né il nulla degli atei, ma il Dio della fede, una fede che purifica se stessa nel confronto vitale della propria esperienza con quella degli altri e vigila, con la propria ragione, sulle derive irrazionali e sulle arroganze della ragione. In questo cammino di fede, occorre rivalutare il linguaggio dei simboli: a partire da quelli che emergono dal dialogo Cavadi- Drewermann: dall’antico simbolo poetico-filosofico dell’acqua alle suggestive metafore geometrico-poetiche dell’infinito, passando per i procedimenti analogici con cui ci spingiamo a parlare di Dio a partire dalla ricerca di pienezza di sapienza, di virtù, di giustizia, di felicità... un modo diverso di parlare del desiderio di Dio lasciando l’antico simbolo dell’acqua, principio di vita, per usare concetti che esprimono in modo più articolato l’idea della pienezza della vita, del suo significato e del suo valore: modi altrettanto suggestivi e parimenti inadeguati se pretendono di dire con esattezza qualcosa della realtà divina. Sono concetti, ma hanno valenza simbolica se riferiti a Dio, mai del tutto raggiungibile, nel nostro faticoso e incerto cammino.Francesco Cortimiglia
3 commenti:
Tutto molto interessante. Consideravo che c’è chi, per sua natura, percorre un sentiero razionale di conoscenza e chi una via più legata al “sentimento”. A oriente nel Vedānta sono considerati percorsi entrambi leciti e complementari, il primo lo chiamano Jnana il secondo Bhakti. La prima via non mi sembra senza insidie: cos’è la razionalità? Esiste un suo statuto certo? E se esiste per quale motivo i soggetti razionali non giungono tutti alle medesime conclusioni. Il secondo approccio è forse ancora più rischioso, dopo Freud sappiamo perché. In effetti non ci resta che un serio dialogo tra ragione e sentimento dentro e fuori di noi, specialmente con quelli che, per loro natura, percorrono una via con accenti diversi dai nostri.
Un grande ringraziamento ad Augusto ed a Franco per queste considerazioni, che gettano luce questioni fndamentali dell'esperienza umana.
Per quanto rigurda Drewermann, devo dire che non concordo con la sua categorica affermazione secondo cui soltanto la speranza di una vita dopo la morte impedisce all'Umanità il proprio "suicidio nichilistico".
A me pare che ciò di cui gli essseri umani hanno bisgno per vivere sia, più in generale, la possibilità di dare un senso, uno scopo alla propria esistenza. Tale senso può assumere i contenuti più diversi la cui validità dipende non tanto dalla qualità oggettiva di essi quanto dala modo in cui ciascun essere umano li considera. E' vero che per molte persone la vita puo' avere un senso solo se essa non finisce con la morte fisica ma si prolunga - in qualche modo - al di là di essa ma è anche vero che tante altre, che non credono né all'esistenza di Dio né a quella dell'anima, hanno saputo consacrare la loro vita e la loro morte ad una Causa che ne ha riempito l'esistenza. E, d'altra parte, tante altre, più modestamente, danno un senso ala propria vita, ad esempio, nel procurare un avvenire ai propri figli o - anche di questo bisogna prendere atto - nel perseguire il, potere, il successo, la ricchezza, la fama ed a questo dedicano il loro impegno.
Caro Augusto, ti passo alcune osservazioni telegrafiche sparse sui testi tuo e di Franco Cortimiglia.
* Sono d’accordo con Pascal: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
* Sono d’accordo con Augusto: anch’io sono convinto che il dilemma Dio sì – Dio no vada sottratto al dominio esclusivo dei sentimenti e affidato prima di tutto al rigore della lucidità intellettuale.
* A Drewermann obietterei: Il bisogno umano di sicurezza, di protezione non prova né l’esistenza né l’inesistenza di padre divino, come la sete non prova l’esistenza di un’oasi. Però di un’oasi io ho fatto esperienza: non so se ne troverò una prima di morire di sete, ma so che le oasi ci sono. E del padre celeste?
* Sono d’accordo con tutti voi: possiamo usare solo metafore, scegliendone alcune e rifiutandone altre, anche se bibliche. A patto però di ricordare che la metafora usa un termine al posto di un altro per suggerire un’analogia. Esempio: il leone è il re della foresta. Ora, io so cosa sono i leoni e cosa sono i re. Ma quando uso il termine persona, padre, fondamento... non so nulla della X alla quale sto attribuendo tali caratteristiche. Mi pare quindi necessario restare vigili, e non cadere nell’errore di credere che usando quelle metafore stiamo conoscendo un po’ la realtà di quella che resta una X.
* Inoltre: la visione teologica tradizionale aggiunge coerentemente a 'persona', termine usato in maniera analogico-metaforica, onniscienza e onnipotenza: è possibile ipotizzare una 'superpersona' che non abbia tali caratteristiche? E se le ha, allora il male?
Con la tesi del peccato originale, i conti tornano: il dolore è giusta punizione. Rifiutata la tesi, non trovo soluzione. Resta la fede, incoraggiata dall’esperienza di Gesù, che amare possa dare senso alla vita, riducendo il mare sconfinato del dolore, che resta per la massima parte irredento. Anche gli atei sono capaci di impostare così la loro vita, ma una maggiore generosità sino al sacrificio di sé si trova più spesso in chi ha una fede religiosa.
* Non sono d’accordo con Drewermann: “la morte non è la fine di tutto, ma il passaggio dal tempo all’eternità. Questa idea è la fede, la religione in senso forte e vero: essa sola può risparmiare alla specie umana l’autodissoluzione collettiva. Fede non come ‘credenza’, condivisione di questa o quella ‘dottrina’, recezione di ‘opinioni’ più o meno autorevoli, ma come “fedeltà”, affidamento nelle braccia di Dio”. Come intendere queste espressioni: ‘affidamento’, ‘braccia’? Anima immortale? Resurrezione? Le metafore non possono sostituire il discorso razionale rigoroso, e io non trovo dimostrazioni di una sopravvivenza personale.
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