“Il Gattopardo”
Febbraio 2020
LA FORZA DI UN CANTO
Prima di essere toccato dai colori, dai profumi e dai sapori della Sicilia, non appena vi mette piede, il turista è stato raggiunto – già a casa sua – dalle note di canti tradizionali. Il significato delle parole è percepito confusamente (o, nel caso di viaggiatori stranieri, per nulla): ma le musiche di Ciuri ciuri o di A luna ammenzu ‘u mari o di Quant’è laria la me zita sono note ben al di là dei confini dell’isola.
Tra le canzoni popolari più conosciute rientra Vitti ‘na crozza, di cui Rosa Balistreri e Domenico Modugno hanno diffuso interpretazioni indimenticabili. E’ diventata una sorta di inno del folclore siciliano. Ma quasi nessuno – isolano o turista – ne conosce il significato originario. Come spiega in un libro (La messa negata) di alcuni anni fa Sara Favarò, il teschio che parla invocando una degna sepoltura era appartenuto a uno zolfataro inghiottito dalla bocca d’ingresso (“cannuni”) di una miniera. Infatti, sino agli anni Quaranta del XX secolo, i preti cattolici usavano negare i funerali a chi decedeva “per morte violenta”, e per giunta nell’oscurità infernale delle zolfatare: ancora nel 1988 un vescovo, proveniente da una famiglia di contadini e minatori, ricordava con tristezza che, ai tempi della sua giovinezza, “gli zolfatari restavano sempre gli <<altri>>, i non uomini o gli ex uomini; i senza religione e senza educazione, i <<morti di fame>>, sì, ma anche i violenti; bisognava aiutarli ma mantenendo le distanze. Dovevano prima superare lo stadio della selvatichezza e solo dopo, una volta che fossero entrati nel pianeta-uomo, potevano entrare in rapporto con coloro che avrebbero dovuto poi sempre considerare, con dovuto ossequio, i loro <<benefattori e salvatori>> ”.
La vergognosa tradizione fu interrotta nel 1944 quando a Lercara Friddi (nella provincia di Palermo) don Filippo Aglialoro, sconvolto dalla notizia di 11 minatori ingoiati dalla terra, decise di scendere nel buio della zolfatare e di celebrarvi messa in suffragio delle vittime sul lavoro. Negli anni immediatamente successivi fu un altro prete contro-corrente, don Salvatore Buccoleri, a proseguire la svolta in favore di questi disgraziatissimi fra i lavoratori disgraziati dell’epoca. Vitti na crozza è dunque un doloroso, patetico, struggente canto di protesta verso la prassi clericale discriminatoria posto sulla labbra di un cadavere ingiustamente dimenticato.
Che resti un portabandiera della tradizione musicale siciliana va benissimo, ma ovviamente nella versione originale di nenia melodiosa meditativa che invita a non perpetuare situazioni d’iniquità a danno di vivi e di morti. Sarebbero, invece, da evitare tante altre versioni commerciali, probabilmente frutto di ignoranza più che di cattiva fede, che – infiocchettando l’esecuzione musicale con battimani e tarantelle – tradiscono la drammatica serietà del messaggio che l’autore intese lanciare a suo tempo.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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