Sull'ultimo numero della rivista "Phronesis", scaricabile (gratuitamente) on line dal sito dell'associazione nazionale dei consulenti filosofici (https://www.phronesis-cf.com/phronesis-n-2-seconda-serie-febbraio-2020/ ), si trova un dialogo fra Neri Pollastri e me sullo psicoterapeuta Victor Frankl , sulle affinità e sulle differenze della sua "logo-terapia" rispetto alla consulenza filosofica di orientamento achenbachiano (in cui sia Neri che io ci riconosciamo, con le ovvie sfumature personali).
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“Phronesis”, febbraio 2020, nuova serie, 2
Diritto e Rovescio
Viktor Frankl e la consulenza filosofica
Caro Neri,
nel suo, pur documentato, volume La casa di psiche. Dalla psicanalisi alla pratica filosofica Umberto Galimberti non cita neppure una volta Victor E. Frankl. Eppure lo psicoterapeuta viennese costituisce a mio avviso uno snodo ineludibile del percorso dal mondo delle psicoterapie al mondo delle pratiche filosofiche (e, in particolare, della consulenza filosofica). E ti spiego perché.
Frankl, da giovane medico, viene internato in quattro lager nazisti e solo per una serie di circostanze strabilianti riesce a sopravvivere. Come racconta nel suo bellissimo, imperdibile, Uno psicologo nei lager, è anche questa esperienza dolorosa che gli fa intuire che esistono sofferenze non solo corporee e psichiche, ma anche spirituali (“noogene” dal greco nous che significa mente, intelletto, anima). L’essere umano, infatti, è sì spinto dall’impulso sessuale (Freud) e dalla volontà di affermazione (Adler), ma è anche affamato di significato. Molti scompensi psichici sono dovuti alla frustrazione del nostro bisogno di “senso” (in greco logos). Da qui l’idea di elaborare una scuola che Frankl ha battezzato “Logoterapia e analisi esistenziale” e che in Italia è stata importata da studiosi di vario orientamento filosofico.
L’approccio terapeutico di Frankl è per questo specificatamente destinato a quelle persone affette da «crisi di maturazione esistenziali che presentano un quadro clinico nevrotico e tuttavia non sono nevrosi in senso stretto, cioè nel senso di affezioni psicogene. Si comprende da sé che un uomo oppresso da un problema spirituale, o teso da un conflitto di coscienza, potrà ammalarsi – al pari di qualsiasi nevrotico nel senso banale della parola – d’una sindrome che in primo piano presenta caratteristiche vegetative. Bisogna esser preparati ad eventualità del genere e al rischio di un errore d’interpretazione che esse comportano, massime in un’epoca come l’attuale; oggi, infatti, sono sempre più numerosi i pazienti che si rivolgono allo psichiatra non perché abbiano sintomi psichici, ma perché semplicemente hanno dei problemi umani» (V. Frankl, Teoria e terapia delle nevrosi, 1962)
Egli, con ammirevole apertura mentale, ritiene che la sua “logoterapia” possa essere adottata non solo da neurologi e psichiatri, ma anche da medici di altre specializzazioni. Ovviamente in questi casi «non è più una terapia nel senso rigoroso della parola, ma si risolve in quella che abbiamo chiamato “cura medica dell’anima”»: il chirurgo rispetto al paziente cui amputare una gamba, o il dermatologo al cospetto di una donna sfigurata irreversibilmente, pur restando medico, accetta di rapportarsi da “uomo a uomo”.
Frankl, addirittura, afferma che, nei casi in cui «la frustrazione esistenziale non è divenuta patogena, ma si è mantenuta blanda», è possibile – e augurabile – che si sperimenti una “analisi esistenziale”: «in tal caso però questa non rappresenta una terapia della nevrosi né è di competenza esclusiva del medico», «tocca altrettanto da vicino il filosofo ed il teologo, il pedagogo e lo psicologo; giacché il dubbio sul significato dell’esistenza chiama in causa loro non meno del medico».
Così Frankl ha allargato lo sguardo dalla psicoterapia (riservata ai medici psicoterapeuti) alla “cura medica dell’anima” (accessibile a tutti i medici, anche non psicoterapeuti) sino alla “analisi esistenziale” (accessibile a professionisti di vari settori, anche né psicoterapeuti né medici). Ma ci sono filosofi disponibili a mettere da parte le proprie ricerche storiografiche e gli impegni didattici per aprire lo studio a persone desiderose di confrontarsi sul senso dell’esistenza?
Frankl non lo poteva prevedere, ma una ventina d’anni dopo alcuni filosofi tedeschi (Gerd Achenbach) e poi in vari Paesi del mondo (tra cui, in Italia, proprio tu) si sono chiesti: chi ha “crisi esistenziali” o, comunque, “problemi umani” e non vuole rivolgersi a un prete – o per lo meno: non soltanto a un prete – deve essere costretto a ripiegare necessariamente su un terapeuta (sia pure di ampie vedute come gli esponenti della “logoterapia” e di altre correnti affini)? Oppure è possibile aprire degli studi di “consulenza filosofica” (Philosophische Praxis) in cui una persona trovi un interlocutore qualificato a conversare con lei senza né medicalizzarla né evangelizzarla?
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Caro Augusto,
Viktor Frankl è stato uno dei primi personaggi che ho studiato quando, ormai oltre vent’anni fa, ho iniziato a occuparmi di Philosophische Praxis. Lo feci perché volevo capire se quel che aveva proposto Achenbach in Germania potesse avere una sua autonomia, oppure fosse solo una scimmiettatura di pratiche già esistenti, nel qual caso avrei lasciato perdere tutto e sarei tornato a occuparmi di quella che di solito viene definita “filosofia accademica”. Invece, proprio il confronto con la logoterapia e con il counseling rogersiano - cioè con le psicoterapie apparentemente più vicine a quella che poi in Italia decidemmo di chiamare “consulenza filosofica” - mi mostrò in modo chiaro che uno spazio c’era eccome, perché le differenze erano e sono amplissime, se si guarda correttamente alla Philosophische Praxis.
A mio parere l’unica cosa della logoterapia interessante per la consulenza filosofica è il cosiddetto “sistema Valori-Scopi-Significati”, il quale - come già scrivevo nel 2004 nel mio Il pensiero e la vita - «può in effetti esser interpretato come una schematizzazione non banale della “concezione della realtà” che ciascun uomo reca con sé e che sta al centro dell’interesse e del lavoro di un consulente filosofico». Tuttavia, proprio perché si tratta di una schematizzazione, il suo uso può semplificare oltremisura la complessità dell’apparato valoriale e concettuale, oltre a far correre il rischio di un impiego meramente tecnico-strumentale, al quale non a caso neppure Frankl è sfuggito. Inoltre, sono oggi ancor più scettico di allora riguardo alla “compatibilità” delle due pratiche, in quanto la definizione del lavoro logoterapico che riportavo allora (prendendolo da un libro di due epigoni italiani e non di Frankl) non mi persuade affatto: “riorganizzazione delle mappe e processo di riapprendimento e rieducazione”, infatti, cozza con l’intervento filosofico-consulenziale, il quale può al massimo essere una “riorganizzazione delle mappe” (anche se non sempre e non necessariamente lo è), ma mai un “riapprendimento” e una “rieducazione”, i quali mettono in gioco un atteggiamento pedagogico-educativo che è uno dei più infidi pericoli per la consulenza filosofica, pronto a farla deragliare e a inficiarne l’efficacia.
Inoltre, come scrivevo anche allora, «la logoterapia include sistematicamente altri momenti, sui quali la distanza da un lavoro filosofico è molto ampia», quali «il “contratto” terapeutico», la «polarizzazione attentiva (spesso a livello subliminale) alle “sfumature” dei messaggi comunicativi» - che appare piuttosto una manipolazione del comportamento comunicativo prescindente dalla trasparenza della relazione dialogica - e «una componente metodologica, che risulta nei più recenti lavori della scuola italiana addirittura centrale». Ne concludevo che «l’unica “ricerca” [cioè quel che la consulenza filosofica deve solo ed esclusivamente essere] qui presente è quella - tutta “tecnica” e desunta da precise conoscenze psicologiche - di specifiche forme distorsive, che sono interpretate come “sintomi” di disagi sottostanti e da fronteggiare attraverso strategie d’intervento a loro volta linguistico-psicologiche».
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Caro Neri,
in quel tuo lavoro, mi pare, rimanevi quasi esclusivamente sul piano del processo della pratica, non affrontando la questione dello “sguardo” che essa ha su se stessa e sulla sua missione. Adesso puoi aggiungere qualche considerazione da questa angolazione ?
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Caro Augusto,
lo farò volentieri, prendendo spunto da quel che tu stesso scrivi per descrivere l’opera di Frankl.
Ciò che dell’approccio frankliano confligge con la consulenza filosofica è proprio il fatto che assuma la presenza nell’uomo di qualcosa come un “bisogno di senso” e/o una “sofferenza spirituale”. E ciò per almeno due ragioni, che ti spiegherò brevemente.
La prima è che, nella misura in cui si tratta di un’assunzione, essa non è “filosofica”, bensì “dottrinaria”: la filosofia pone dubbi, non assume. Nel processo del filosofare la postulazione può avvenire, ma non può esser fatta in fase fondativa, perché un’assunzione (qualunque essa sia) non sarà compatibile con qualsivoglia lettura del mondo, ma solo con quelle che la ritengano valida. Va da sé che assumerla, da parte del filosofo consulente, costringe (magari inconsapevolmente, il che è peggio) a riconoscere “uomo” solo chi abbia o possa avere quel “bisogno”, mentre rende incomprensibile (almeno se non ridotto a “malato”, “immaturo”, “perverso”, ecc.) chi non l’abbia.
La seconda è che quella postulazione porta a lavorare in modo - se non propriamente terapeutico, qual è peraltro proprio quello di Frankl - quantomeno strategico-strumentale: l’uomo ha una sofferenza noogena dovuta a un bisogno di senso frustrato, ergo si tratta di agire strategicamente sulla causa per ottenere l’effetto di eliminare la sofferenza. Nulla di ciò è in gioco nella Philosophische Praxis/Consulenza filosofica, nella quale - come ben ripete Achenbach (per non dire quanto l’ho ripetuto io...) - non si tratta di agire in modo strategico-strumentale, né di guarire, né di educare, né di aiutare, né di soddisfare bisogni (neppure nel caso siano “spirituali”), né di alleviare sofferenze, bensì solo di filosofare, di fare una ricerca di verità nel pensiero dell’ospite, assieme a lui medesimo. Il resto né ci interessa, né ci deve interessare, dato che siamo filosofi e non terapeuti, guaritori o educatori.
Per inciso, proprio il rimaner rigorosamente filosofi, ossia ricercatori, senza cedere alle tentazioni (umane, troppo umane) di aiutare l’interlocutore e di soddisfarne le esigenze è la cosa più difficile della professione di consulente filosofico, quella sulla quale cade la maggior parte di coloro che provano a praticarla.
Per concludere, il consulente filosofico non si occupa del “bisogno di senso” - che magari è pane per i denti del prete - ma della consistenza e della chiarezza della visione del mondo dell’ospite. E se questi viene e pone un “problema di senso” (a me, in quindici anni, è successo una volta sola e già dopo una seduta avevamo chiarito che si trattava di un “problema di corna”...), la questione da porre è: ma come mai ha questo dannatissimo bisogno di “senso”? Quali sono le ragioni per cui non riesce a vivere bene anche senza?. La differenza da Frankl è, mi pare, enorme.
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Caro Neri,
le tue idee sul “bisogno di senso” mi ricordano Freud quando sosteneva che avvertirlo fosse sintomo di disagio psichico. Sinceramente non capisco queste posizioni se non ipotizzando un equivoco terminologico. “Senso” è per me innanzitutto “direzione”: la mattina mi sveglio e ho bisogno di chiedermi che “senso” avrà la giornata: in che direzione, verso quale méta, procederà. So che non potrò stabilire tutto da me, ma so anche che – se voglio – potrò non farmi determinare totalmente da processi biochimici, condizionamenti sociologici, eventi storici… Insomma, alla fine della giornata, potrò fare un bilancio fra i miei desideri-progetti e le esperienze-realizzazioni effettivamente attuate. Può darsi che ne risulti una giornata del tutto insignificante, banale, piatta, meccanica. In una parola sintetica: senza senso, assurda. Ma può darsi, invece, che almeno in minima parte abbia avuto un significato, una originalità, una sporgenza sul conformismo. In una parola sintetica: un senso.
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Caro Augusto,
in effetti una delle ragioni per cui non mi piace l’uso del termine “senso” è proprio la sua ambiguità. Con grande frequenza, infatti, il significato che - esplicitamente o meno - viene dato alla parola non è quello che specifichi tu, bensì è “scopo e valore della vita”, qualcosa che si determina una volta per tutte e che spesso viene identificato in un unicum - per inciso, proprio ciò che Frankl, sposando almeno in parte la tesi di Freud che si tratti di un disagio psichico, sostiene essere deleterio, nella misura in cui rende fragile la visione del mondo e perciò vulnerabile l’esistenza.
Ma tu escludi che sia questo il modo in cui usi “senso” e dai al termine il significato di “direzione della giornata”. Un tale uso mi pare condivisibile, ma esso di fatto esclude proprio la possibilità che esistano seri “problemi di senso”: perché la direzione del cammino di un giorno è diversa da quello di un altro; perché anche all’interno della giornata ce la costruiamo momento per momento e possiamo cambiarla ogni volta che vogliamo; perché può ben accadere di avere delle giornate “senza meta” e sarebbe opportuno che imparassimo anche a goderne, invece di riempire ogni giorno di “mete da raggiungere”, triste eco di quella cultura produttivista che nobilita il lavoro e con ciò gli permette di distruggere il pianeta. Perciò, un “problema di direzione”, nel modo in cui l’hai definita, non fa sì che ci si rechi da qualcuno che ci aiuti a identificarla; e se ciononostante si volesse andare da un filosofo consulente, questi - non potendo dare consigli - non potrebbe far altro che porre in questione il bisogno stesso: la consulenza, infatti, come dice Achenbach è “bonifica dei bisogni”, ovvero coltivazione del “bisogno giusto”, come preferisco esprimermi io. Del resto, che il “bisogno di senso”, anche inteso come dici tu, non sia un bisogno necessario e perciò, se crea disagio, possa essere superato, ce lo ricorda Antonio Machado con i suoi versi tanto spesso citati in ambito pratico-filosofico:
Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel rivolger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a rifare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.
Un piccolo chiarimento sul senso come disagio psichico, al quale alludevi riferendoti a Freud. Personalmente cerco di tenermi assai lontano da ogni lettura eziologica: per me non esistono “disagi psichici”, se non nel senso ovvio e banale che ogni “disagio” è un fenomeno psichico, ovvero appartiene alla sfera emotivo-corporea. In altre parole, non esiste un “disagio logico”, ma solo fallacie o confusioni logiche che, percepite, producono un disagio sul piano emotivo-corporeo. Ecco allora che il concetto di “senso”, inteso come “scopo e valore della vita”, è potenzialmente produttore di “disagio” sul piano psichico: averlo all’interno della mappa del mondo induce un “bisogno di senso”, soddisfare il quale è possibile in due forme entrambe perniciose: una forma “forte” - il senso ha un’“oggettività” non decisa dal singolo individuo portatore di vita - che obbliga ad affidarsi alla fede in un essere trascendente che lo sugelli, aprendo una serie di conflitti tra fede e ragione; una forma “debole” - il senso è soggettivo, lo decide l’individuo - che porta a quella fragilità delle visioni del mondo e alla vulnerabilità dell’uomo messe in luce da Frankl.
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Caro Neri,
prendo atto della differenza delle nostre posizioni sulla questione del senso della vita. E, tanto per restare alla larga da qualsiasi irenismo, ti provoco su una questione che sfiori nella tua risposta: la fede in una Trascendenza (più o meno confessionalmente determinata). Premesso che, a mio parere, si può essere convinti che la natura umana abbia alcuni fini o scopi “oggettivi” senza necessariamente rifarsi a un “essere trascendente” che “suggelli” questa oggettività (conosco, ad esempio, molti aristotelici atei o agnostici convinti che la fioritura dell’umano si abbia solo nella conoscenza di ciò che davvero è e nel servizio del Bene della polis), non vedo – comunque – perché l’ipotetica convinzione che l’universo non sia una totalità ontologicamente autosufficiente debba necessariamente aprire “una serie di conflitti tra fede e ragione”. Certo vi sono molti modi di concepire la fede (pensiamo alla dogmatica cattolica o alla paradossalità kierkegaardiana), così come molti modi di concepire la ragione (pensiamo al positivismo), che rendono conflittuale la compresenza nel medesimo soggetto di “credere” e “sapere”: ma si tratta, appunto, di alcuni modi di interpretarli.
Sul versante che interessa noi filosofi “praticanti”, questo significa – esprimo il mio parere sperando che sia il tuo e temendo che non lo sia – che, così come ci si può rivolgere nello stesso periodo della propria vita (sia pure per esigenze differenti e con differenti aspettative) a un consulente filosofico e a uno psicoterapeuta (vedi gli scritti raccolti a cura di Giorgio Giacometti in Sofia e psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto), ci si possa rivolgere a un consulente filosofico e a un consigliere teologico-religioso (vedi gli scritti raccolti, per la medesima edtrice Liguori di Napoli, da Chiara Zanella in Sofia e agape. Pratiche filosofiche e attività pastorali a confronto). Insomma: a mio sommesso avviso, nulla vieta a un coniuge in dubbio se divorziare o meno, o a un genitore sconvolto dalla diagnosi infausta per un figlio, di rivolgersi sia a un prete sia a uno psicoterapeuta sia a un filosofo (ognuno per un’angolazione differente da cui affrontare il proprio problema). Specie se, in concreto, queste figure professionali saranno incarnate da soggetti convinti che ogni contaminazione fra psicologi-psicoterapeuti, filosofi-consulenti e consiglieri pastorali non può che arricchire la competenza specifica di ciascuno, dal momento che - come un poliedro - l’essere umano è uno e centomila. Obiezioni ?
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Caro Augusto,
no, certo, nessuna obiezione riguardo al fatto che ci si possa rivolgere a più specialisti allo stesso tempo; del resto, io stesso ho lavorato in un centro di salute mentale operando sulle medesime persone in collaborazione con psichiatri, psicologi ed educatori: ognuno faceva il proprio lavoro, diverso da quello degli altri, e spesso il lavoro dell’uno completava o favoriva quello degli altri.
Sulla contaminazione come arricchimento della competenza reciproca ho invece qualche perplessità. Infatti, se il lavoro di ciascuno è diverso, la “contaminazione” può davvero avere quel significato negativo che porta con sé in origine il termine, perché può invitare a svolgere un lavoro improprio, cioè quello che dovrebbero fare gli altri. L’unica cosa che la collaborazione può insegnare è a conoscere meglio il lavoro altrui per evitare di farlo, ma questa non è “contaminazione”, bensì solo migliore conoscenza dell’opera dei colleghi.
Per venire all’altro tema, inizio dalla tua premessa che, francamente, trovo quantomeno curiosa: certo che esistono atei o agnostici “convinti” dell’oggettività di fini o scopi per l’uomo; peccato solo che la loro sia una “convinzione” e non una “dimostrazione”, e perciò sia soggettiva e non oggettiva! In altre parole, forse non avranno fede in una essere trascendente, ma certo ce l’hanno in valori trascendenti. E il problema “logico” tra fede e sapere sta nella trascendenza, sia essa in un essere supremo o in valori.
Siamo con ciò al tema della compresenza di fede e sapere. Io non penso affatto che i due aspetti non possano convivere nello stesso soggetto: penso solo che non sia facile, o quantomeno non frequente, che ciò succeda. La ragione è semplice e in qualche modo la mostrano anche le tue stesse parole. Hai infatti parlato di “ipotetica convinzione che l’universo non sia una totalità ontologicamente autosufficiente”, ma questa - in quanto “convinzione” - è una posizione soggettiva; come tutte le ipotesi, essa è legittima ma, come tutte le ipotesi, richiede di essere dimostrata come vera, oggettiva; viceversa, di solito la si assume per vera già quando la si pone come ipotesi, e si corre subito a cercare qualcosa che la soddisfi - appunto una Trascendenza. E se qualcuno si azzarda a sostenere che l’ipotesi sia falsa - che il mondo, cioè, sia ontologicamente del tutto autosufficiente - o che la risposta teologica non cambia in nulla i problemi ontologici ipoteticamente sollevati, apriti cielo!
In vita mia ho conosciuto qualche credente che faceva pacificamente convivere fede e ragione: erano persone che non pretendevano di razionalizzare la fede, che non parlavano di “insufficienza ontologica del mondo” ma solo di personale bisogno di credere nella trascendenza, che non confondevano i due piani e riconoscevano l’“assurdità” razionale della loro fede. A loro non ho nulla da obiettare, anzi, sono pronto a concedere che sia comunque “ragionevole” - per quanto non “razionale”- lasciare all’uomo la libertà e il diritto di coltivare anche i propri sogni irrazionali: non siamo fatti di pura ragione (e, aggiungerei, fortunatamente). A condizione, tuttavia, che esso sia consapevole dello “statuto” di quel che fa quando si dedica alla propria fede. Devo dire, però, che questo tipo di credenti è piuttosto raro e che, anzi, tra coloro che si ritengono tali sono frequenti quelli che, “quando il gioco si fa duro”, si rivelano indisponibili alla chiara distinzione dei due piani.
Potrei concludere dicendo che proprio questo tipo di credenti può giustamente recarsi contemporaneamente da un consulente filosofico e da un consigliere teologico-religioso: il primo si occuperà della chiarezza delle loro mappe del mondo, il secondo della chiarezza delle loro mappe dell’aldilà-del-mondo. Anche qui, è importante che non ci sia contaminazione, altrimenti l’uno prenderà a occuparsi di quel che è compito dell’altro e viceversa, e allora addio chiarezza!
Prima di concludere il nostro carteggio vorrei però tornare al tema da cui eravamo partiti, cioè a Frankl, chiedendoti: ma una volta preso atto della nostra diversità di posizioni rispetto al senso della vita, in quanto consulenti filosofici che ne facciamo di quest’ultimo? Ammesso che qualcuno venga da noi a porcelo come problema (ripeto, a me in vent’anni è successo una sola volta), ci mettiamo a cercare una risposta o lasciamo questo compito ad altri - per esempio ai logoterapeuti - e ci occupiamo di altro? Credo non ci sia bisogno di dire come la pensi io...
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Caro Neri,
ti devo, dunque, una precisazione e una risposta.
La precisazione: nel mio vocabolario una convinzione può essere sia soggettiva e indimostrata sia acquisita dopo lunga riflessione e articolato ragionamento (anche se, in quanto filosofica, non può mai ritenersi irreversibile davanti a nuove contestazioni… convincenti). Anch’io, come te, rispetto chi sostiene di credere per motivi non supportati dalla ragione (o per lo meno dalla ragionevolezza), ma personalmente sono interessato a visitare l’ambito del noumenico, del trascendente, solo con i modesti mezzi dell’intelligenza (intuitiva e discorsiva). Comunque qua dovrei esplicitare un concetto di fede lontano dal linguaggio comune (influenzato soprattutto dalla dogmatica cattolica tradizionale) e vicino, se mai, al Wittgenstein che annotava qualcosa del genere: “Invece di dire «io credo», preferisco dire «io t’amo». E molti pseudo-problemi si dissolvono da sé”.
Quanto alla risposta che mi solleciti sul “senso della vita”, posso solo dirti che, evidentemente, intendiamo questa espressione in due maniere radicalmente diverse. Secondo la mia interpretazione, infatti, è qualcosa di così universale che potrei capovolgere la tua affermazione: non solo i nostri “ospiti” lo avvertono spesso, ma direi che - addirittura - in fondo in fondo non avvertono che tale bisogno di senso. Quando Socrate afferma che “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”, a quale ricerca secondo te si riferiva? Secondo me alla ricerca di ciò che dà sapore all’esistenza, di ciò che rende preferibile il vivere al morire o al non-esser-mai-nato: nel mio dizionario, alla ricerca di ciò che strappa l’esistenza all’assurdo e le conferisce un “senso” potenziale (che sta a noi attuare o lasciare in nuce). Poi, soltanto poi (un poi logico, non cronologico), ha senso – è ragionevole – interrogarsi sulle problematiche categoriali quotidiane: il rapporto con i propri colleghi di lavoro, la ricerca di un compagno, la relazione con i figli, l’impegno socio-politico e così via… Qualche volta Frankl mi serve per sottolineare quanto sia importante cercare un “senso” della vita per sopravvivere ai travagli, ma come consulente filosofico mi sforzo di aggiungere – magari gradualmente - che lo si deve cercare a prescindere dai nostri “bisogni” emotivi, psichici, persino esistenziali. Che lo si deve cercare senza essere sicuro di trovarlo e che anche l’eventuale “scoperta” – la “convinzione” maturata – che la vita non abbia alcun “senso” (neppure potenziale) rende la vita stessa più “degna di essere vissuta”.
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Caro Augusto,
non ho esitazione a rispondere che per me la ricerca a cui si riferisce Socrate è quella della conoscenza di come è fatta la realtà in cui viviamo, ovvero la ricerca di mappe del mondo sempre più adeguate a farci vivere bene. L’intera speculazione di Socrate, così come quella di Platone, muove dal problema della convivenza civile ad Atene, che è appunto “vita quotidiana”; ogni sua/loro teorizzazione in merito a fondamenti, valori e mondo iperuranio deriva dalla necessità di dare una base oggettiva a una mappa capace di comprendere e affrontare efficacemente quel problema politico. Del resto, se vogliamo considerare Socrate il “padre” della filosofia, non è possibile assegnare alla sua ricerca un significato così determinato e ristretto qual è quello del “senso della vita”: moltissimi filosofi si sono del tutto disinteressati di questo tema, utilizzando però il suo stesso approccio.
Personalmente non ho mai pensato che la filosofia fosse ricerca di “ciò che dà sapore all’esistenza, di ciò che rende preferibile il vivere al morire o al non-esser-mai-nato”: tutto “dà sapore all’esistenza”, come a suo modo recita Machado; e cosa tra questo tutto possa per ciascun individuo rendere “preferibile il vivere al morire o al non-esser-mai-nato” mi sembra proprio cosa da “convinzione soggettiva” che, in quanto tale, non è - né può o deve essere - oggetto del filosofare, che si occupa invece di cose di una qualche oggettività.
Del resto, aldilà della mia preferenza soggettiva, anche oggettivamente mi pare insostenibile che compito della filosofia sia la ricerca del senso della vita, per una moltitudine di ragioni: perché si è filosofi quando il sapere non si ha, e se (come tu dici) il senso della vita è indispensabile per vivere, allora è necessario conoscerlo e seguirlo, cioè cessare di esser filosofi per vestire i panni dei sapienti; perché se la filosofia più che dar risposte pone domande, allora non può che frustrare la richiesta di senso (e infatti non è un caso che Achenbach sostenga che la consulenza filosofica frustra la domanda dell’ospite); perché, ancora, avremmo elenchi e manuali interamente da riformare, visto che, come già accennavo, gran parte dei filosofi di ricerca del senso non si sono occupati; perché - infine e soprattutto - cercare un “senso della vita” è già assumere una determinata dottrina che preveda che esso possa esistere, nonché farsi schiavi di uno stato umano che ne fa sentire il bisogno.
Riguardo a quel che dici sulle convinzioni, mi sembra di capire che il tuo modo di intenderle sia prossimo alla distinzione cui accennavo nella mia precedente missiva, quella tra ciò che è “razionale” e ciò che, pur irrazionale, è “ragionevole”. E non c’è dubbio che anche chi si interessi di tarocchi, spiritismo o parapsicologia lo faccia con i mezzi della propria intelligenza: infatti, di solito i loro discorsi sono intelligibili e talvolta anche suggestivi e affascinanti. Il problema nasce quando essi credono che le carte abbiano un reale potere di previsione, che gli spiriti circolino concretamente tra le case abbandonate o il potere del cervello guarisca davvero i tumori a distanza - in una parola, che l’universo irrazionale, che indagano razionalmente, esista. È allora che nascono quelli che chiamavo “conflitti tra fede e ragione”, perché si vuol affermare che esista ciò che si dichiara inconoscibile, violando la distinzione dei due campi.
Certo, se tu precisi di sostituire a «io credo» un «io amo», il problema è in parte risolto, sia perché ci si può ben innamorare di un’inesistente immagine della nostra o altrui mente, sia perché con tale passo esci completamente dal piano della razionalità per entrare in quello dei sentimenti. Questi ultimi, come sai, non sono propriamente materia dei filosofi (se non per una loro classificazione dossografica), bensì degli psicologi. Un filosofo, e ancor più un consulente filosofico, i sentimenti può solo studiarli per comprendere a quali valori siano legati (come fa per esempio Achenbach con lo svanito innamoramento tra la giovane greca e il maturo tedesco in Saper vivere); quindi in questo caso la mia domanda sarebbe: cosa ti ha fatto innamorare di Dio? O, ancora più precisamente: quali tuoi valori soddisfa l’essere di cui ti sei innamorato, e che posto hanno quei valori nella tua visione del mondo?
Devo confessare invece che sono piuttosto sorpreso dalla tua affermazione secondo la quale i nostri ospiti non proverebbero altro bisogno che quello di un senso della vita: come ti scrivevo, in vent’anni un solo consultante mi ha presentato questo problema e, senza neppure che avessi bisogno di porlo in questione, in breve lui stesso ha confessato di averlo messo avanti “per darsi un tono”; perciò mi sembra incredibile che i tuoi consultanti l’abbiano viceversa messo sempre a tema. Né potrei accettare un’eventuale obiezione per la quale il bisogno di senso starebbe in verità alla base delle “problematiche categoriali quotidiane”: come infatti c’insegna Achenbach, in quanto filosofi dobbiamo prendere le parole dei consultanti per quello che sono, senza interpretarle alla luce di “teorie del sospetto”, che non sono solo quelle della psicoanalisi, ma anche tutte le pretese “universalizzazioni” che possiamo assumere riguardo una pretesa “natura umana”.
Riguardo poi proprio la pretesa universalità del “bisogno di senso”, Augusto, permettimi di contestarla, stavolta per ragioni non solo di principio, ma anche e soprattutto puramente esperienziali. Le prime concernono il fatto che un bisogno come questo, simbolico e non materiale come possono essere il freddo e la fame, esiste solo se c’è un apparato concettuale che lo supporta e svanisce se quello viene meno; in parole più semplici, si ha bisogno di un senso della vita se si crede che questo esista e sia importante, mentre se si riconosce che la sua ridondanza, inconsistenza o ininfluenza, il bisogno si dissolverà. Si spiega così l’esistenza delle ragioni esperienziali: al pari di me, anche la maggior parte delle persone che frequento abitualmente il bisogno di un “senso della vita” infatti non ce l’hanno. Vivono e fanno cose che sembrano loro importanti, di valore, necessarie, ma non legano il loro esser nate a “missioni da compiere”. La lirica di Machado che ti ho riportato ne è un’ulteriore conferma, così come lo sono la spiritualità orientale, tutta legata all’aderire alla vita momento per momento, senza fini o progetti, o la Lebenskönnerschaft di Achenbach, che si basa sulla non ipostatizzazione di alcun sapere, significato, valore.
E allora, concludendo questo nostro interessantissimo scambio, posso dire di non stupirmi che la nostra professione non sia decollata: perché già le differenze emerse tra me e te - che pur siamo persone serissime, rigorose, costantemente dedite alla riflessione sul loro agire e pure piuttosto affiatate - sono sufficienti a delineare percorsi assai diversi, anzi, due approcci direi quasi incompatibili: tu hai di fronte un uomo necessariamente bisognoso “di senso”, io uno che non sa neppure cos’esso sia; tu hai per obiettivo della tua pratica dare una risposta concreta a quel bisogno, io trovare un equilibrio concettuale e teoretico entro il quale il senso può esserci o non esserci, senza volerne soddisfare il bisogno neppure nel caso sorgesse. Se avessimo tempo - e forse dovremmo trovarlo! - potremmo esplicitare ancora molte altre differenze, conseguenza di queste. Trascurando qui il fatto che, a mio parere, il tuo approccio non è conforme alla Praxis achenbachiana (che il bisogno non lo soddisfa per principio), ti domando: stanti cotante differenze, e aggiunte poi tutte quelle che emergerebbero dal confronto con altri colleghi, come vuoi che il pubblico dei potenziali “ospiti” possa mai riconoscerci come membri paritetici di una medesima professione?
E con questa retorica e triste domanda, ti saluto con autentico affetto.