Sull'ultimo numero della rivista on line "Phronesis" (accessibile gratuitamente per intero), Davide Miccione mi ha regalato una bella recensione del mio testamento spirituale ("a babbo vivo", come a suo tempo si è affrettato a precisare Bruno Vergani):
Con gratitudine la riproduco sul mio blog (che ormai è anche il mio archivio):
“Phronesis”, n. 2, seconda serie, febbraio 2020
Recensione di Davide Miccione
del volume:
Augusto Cavadi, Mosaici di Saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2015, pp. 367.
A vent’anni dal suo arrivo in Italia e pur consapevole del suo momentaneo letargo, continuo a pensare che la consulenza filosofica rappresenti la “via regia” per la consapevolezza della avvenuta Svolta pratica. La trasformazione achenbachiana del filosofo da “grossista” a “dettagliante”, l’incontro con il singolo e non più con il pubblico, con l’interlocutore che adesso mi parla e non con la massa dei lettori, il ritorno a movenze socratiche da lungo tempo dimenticate, ci portano di necessità in altri luoghi da cui la filosofia “tradizionale” in cui tutti noi siamo cresciuti finalmente ci appare visibile. Ma accanto alla via regia, centrata con tutta evidenza sul colloquio individuale e su quel vero e proprio trauma (più rimosso che elaborato o riassorbito in verità) di pensare il filosofo come professionista, esistono altre strade, viottoli, sentieri. Alcuni larghi e comodi ma che non portano da nessuna parte, altri che consentono al viaggiatore solo sguardi banali, su piazzole di sosta e autogrill di catena tutti uguali; altri ancora invece tortuosi, stretti, accidentati, che aprono però panorami inaspettati e non altrimenti osservabili. Ognuno di questi itinerari ha un suo cartografo, sterratore, asfaltatore e persino esattore di pedaggio che esplora e propone (partendo da essa e giungendo a essa) una propria idea di ragione: quella di Sautet è conversevole, colta, pienamente “continentale” nel suo storicizzare le questioni; quella di Lipman è logica, pubblica, pragmatica; quella di Pollastri sembra invece dialettica, radicale e con aspirazioni alla totalità e così via. Ma in Italia, contemporaneamente all’entrata in campo di Achenbach, si muoveva già uno sherpa che tutti questi sentieri li stava battendo o spesso perfino tracciando, battezzando e disboscando: Augusto Cavadi. Prima che le pratiche filosofiche avessero un termine in grado di unirle concettualmente Cavadi si era già dato da fare per esplorarne un buon numero. L’idea di ragione che guida Cavadi nella sua esplorazione è insieme politica e spirituale. Alla perenne ricerca di un senso (non a caso l’interesse ritornante per la logoterapia di Frankl e il tentativo di mettere in evidenza eventuali affinità tra questa e la Pratica filosofica), sembra evidente per Cavadi che questo non si possa trovarlo sottraendoci al mondo, inseguendo quello stato di sospensione/eccezione che traspare da certe pagine della ultima Arendt o nelle “morti apparenti” di Sloterdijk. Il senso in Cavadi passa sempre da un immergersi nel mondo e non da un allontanarsi da esso, è sempre un senso da trovare insieme, nel dialogo. Un dialogo che tenta di stringere di più i dialoganti ad un sentire comune, ad una verità minima trasversale, che ha a cuore i dialoganti almeno tanto quanto la verità che si origina dal dialogo; è dunque, quella cavadiana, una ragione che necessita una attenta vigilanza contro la tentazione del sincretismo e dell’irenismo come altre dovrebbero guardarsi invece dall’astrattezza o dalla deriva eristica. In questo orizzonte, Mosaici di saggezze assume una posizione centrale e non aggirabile in quella imponente mole e varietà di scritti dell’autore che rischia, con il solo peso del numero, di rendere difficile al critico la delineazione di una traiettoria di sviluppo teorico. Mosaici appare come la presentazione del retroterra teorico da cui Cavadi muove e al contempo della terra promessa verso cui si dirige. La chiave sta non tanto nel titolo quanto nel sottotitolo che, come spesso accade, è meno ad effetto ma decisamente più esplicativo: Filosofia come nuova antichissima spiritualità. Il tema sembrerebbe dunque la spiritualità come nesso. Nesso tra che cosa? Qui la questione si fa più difficile. Forse tra filosofia e religione, in fondo i due temi principali presenti nella produzione di Cavadi? In alcune pagine Cavadi sembra portarci a pensarlo pur negandolo (ad esempio si pensi alla costruzione, a ricalco di quelle religiose, di cerimonie comunitarie filosofiche presentata nell’appendice del libro). Tendo però a pensare che il vero nesso si collochi piuttosto tra teoria e pratica giacché la spiritualità non può certo essere solo una teoria o una forma di cultura o un genere letterario ma una pratica: «essa non è una mera teoria né tanto meno ideologia, ma praxis nel senso plenario del termine, inseparabilmente interiore ed esteriore» (Mosaici p. 63, da ora in poi indicato con il solo numero di pagina) e la filosofia, nell’interpretazione cavadiana, certamente lo è altrettanto. Questa centralità della comunità dialogante (ci si concentri sul sostantivo e si noterà come negli scritti di Pollastri o nei miei è quasi sempre l’individuo e non la comunità ad essere in dialogo) già alcuni passi di Mosaici di saggezze, dove la lingua chiara e piana di Cavadi sembra salire di tono e di ispirazione, bastano per mostrarla nel suo essere qui già e non ancora. Ad esempio, si legga dove si descrive il rapporto tra le scienze umane e la comunità scientifica: «risultato di queste specializzazioni è l’immenso cantiere della cultura planetaria: una sorta di alveare da cui – senza interruzione – miriadi di api sciamano in cerca dei fiori più svariati e ne succhiano il nettare per tornare, infine, nella casa comune a produrre ogni tipo di miele» (p. 22), o ancora: «in questa apertura di orizzonti [...] si realizza l’unica globalizzazione che può rendere sensata l’internazionalizzazione delle transazioni economiche: il meticciato degli spiriti, lo scambio delle intuizioni, l’emendazione reciproca e l’integrazione delle tradizioni sapienziali» (p. 46).
Non stupirà, dopo queste righe, la scelta di far iniziare il volume con un protrettico, genere alla cui frequentazione Cavadi non è nuovo avendogli già dedicato un sentito volume (E, per passione, la filosofia, Di Girolamo 2006). Procedendo in questa esortazione al filosofare, che pur risalendo fino al padre del “genere” – Aristotele - prende nuova linfa dallo sguardo consulenziale e da una diversa conseguente pensabilità del ruolo sociale della filosofia, Mosaici procede poi a dichiarare l’intento del volume con una circospezione insolita per l’autore, solitamente più diretto nel presentare la tesi portante dei suoi lavori e che fa pensare che Cavadi abbia ben colto la notevole ambizione della sua impresa, da lui descritta come l’azione di «recuperare, e valorizzare, alcuni filoni spirituali contenuti nella storia della filosofia occidentale. Filoni rilevanti né più né meno di altri, ma che [...] rischiano di precipitare nell’oblio» (p. 47), lavorando però «non in concorrenza con le spiritualità attuali, ma per ampliarne la gamma, recuperare gli elementi costitutivi di una spiritualità filosofica» (p. 49).L’ambizione e la difficoltà, e dunque anche il pregio di quest’opera (di testi che dissodano il già dissodato sono pieni i dipartimenti, soprattutto dopo l’apocalisse bibliometrica e citazionale di questo decennio), sono costituiti dall’estrema difficoltà a fissare il significato e i limiti del concetto di spiritualità (ben più dei suoi “vicini”: mistica, religione, etica ecc.) e dalla scivolosità dell’oggetto spiritualità, di cui l’autore del resto non fa alcun mistero, e infine dalla conseguente difficoltà a rintracciarla nella storia della filosofia, isolarla, renderla percorribile tracciandone passerelle e camminamenti e lavorare ad ipotesi di riabilitazione e rivitalizzazione. Un compito estremamente difficile minacciato perennemente dal pericolo di sovra-estendere o sotto-estendere semanticamente la spiritualità, un pericolo che incombe su tutte le parole ma che diventa certezza per alcune. La ricerca di Cavadi sembrerebbe dunque essere storica e induttiva, paziente e graduale, ma ogni ricerca (è una vecchia storia che ci portiamo dietro da Platone) parte pur sempre, diciamo così, da un identikit del ricercato. Per tratteggiarlo Cavadi mette in campo, da filosofo formato teologicamente, una via negationis, asserendo che la spiritualità non è fede (o più precisamente che la fede non ne è un elemento costituente e necessario), che non ha a che fare con lo spirito (nel senso che nella spiritualità non è implicita una adesione a una antropologia filosofica dualista che distingue il corpo da un principio immateriale) e che non è necessaria neppure la presenza di Dio. Cavadi inoltre, coerentemente con la ragione comunitaria e dialogante cui accennavamo prima, ci tiene a eliminare l’idea di una spiritualità come fuga dal mondo, come condizione solitaria, nonché l’idea di una spiritualità come lusso per ricchi, posteriore al primum vivere o, ancora, come condizione apolitica. Questa via negationis, che fa da preambolo all’indagine più propriamente storico-filosofica, pur fornendo annotazioni perlopiù ragionevoli e condivisibili, procede non stringendo ma semmai ampliando ulteriormente l’estensione semantica dell’oggetto del libro.
La questione fondamentale che dà senso al volume non è però l’indagine sulla spiritualità come costruzione di un modello teorico rigido e definitorio, bensì l’indagine sulla dimensione spirituale della filosofia nella storia e sulla possibilità di proporsi della filosofia come spiritualità filosofica. Sulla scorta di Hadot, Cavadi tratteggia le questioni storiche sottese al tema della spiritualità nella filosofia, descrivendo l’ingrottamento di tali questioni in una filosofia ormai nel medioevo degradata ad “ancilla”, riflette su “l’auto ridimensionamento della filosofia” acutamente definito come una decurtazione percepita come un guadagno e sulla catastrofica identificazione degli intellettuali come di coloro che si occupano d’altro: «la laicità è diventata, quasi senza che ce ne accorgessimo, sinonimo di “a-spiritualità”» (p. 75). Ne seguiranno tutti i corollari di questa trasformazione, dal linguaggio tecnico al rinserramento accademico. Un peggioramento rispetto a un’epoca in cui il cristianesimo pensava di essere la migliore filosofia (come del resto ogni filosofia ha sempre pensato di sé) ma non l’unico canale della spiritualità e l’unica guida dell’esistenza, una perdita rispetto ai primissimi secoli d. C. visti come stato di grazia della spiritualità e del pensiero in quanto periodo in cui le varie religioni e una filosofia non ancora amputata della sua capacità di farsi prassi, stile di vita, exemplum, comunità, convivevano in fruttuosa dialettica.
Oggi questa riflessione di Cavadi appare tanto più preziosa quanto più il tempo presente ci riporta ad una situazione di pluralismo spirituale in cui pensare alla religione ancora come monopolista rischia di non cogliere la vacatio attuale e di lasciare scoperte parti fondamentali della vita umana. In questa cornice s’inserisce la chiamata alle armi (filosofiche) che questo volume senza dubbio rappresenta. Posta la cornice, resta a Cavadi il compito di preparare se non il dipinto almeno un cartone preparatorio di quello che la filosofia come spiritualità o la spiritualità filosofica che dir si voglia può diventare. Cavadi evita subito uno scoglio insidioso, quello di santificare il modello ellenistico e proporre la sua ripresa come ripresa della spiritualità filosofica tout court, passaggio su cui metteva in guardia già Mádera e, con più convinzione, i due autori richiamati in nota, Martha Nussbaum, con cui lungamente Cavadi dialoga, e Pollastri, che richiama l’attenzione del lettore sulla natura terapeutica e dogmatica delle scuole ellenistiche. Questo rifiuto di modellizzarsi sulla filosofia ellenistica non si traduce però, molto saggiamente, nella preferenza per un’altra epoca o un’altra tradizione filosofica.
Nelle pagine seguenti Cavadi analizza a volo d’uccello e con scelte interessanti e personali alcuni filosofi moderni e contemporanei nel tentativo di metterne in evidenza gli aspetti utilizzabili nella costruzione della spiritualità filosofica o comunque attestanti questo aspetto della loro filosofia. Questa concessione alla tradizionale perlustrazione storica del problema, coerentemente agli intenti espliciti del libro, lascia però dopo poche pagine spazio ad un più interessante tentativo di costruire a partire dalla propria esperienza e dai passi e dagli autori che lo hanno colpito, una ipotesi di spiritualità filosofica. Questa è la parte più vitale del libro, quella in cui Cavadi ibrida la sua esperienza di vita con i suoi ampi interessi provando non tanto a descrivere quanto a raccontare cosa una spiritualità filosofica possa dire e dare ad un uomo che le si avvicini. Questa parte del volume è sorprendente per capacità di cogliere le sfumature dell’esistenza e per il coraggioso tentativo di riuscire a creare delle partizioni nella complessa e olistica realtà umana. Questo tentativo finisce con il configurarsi come un’antropologia filosofica del filosofo, cosa tanto utile nell’attuale confusione quanto foriere di grandi e piccole catastrofi sono state le antropologie filosofiche dell’uomo nella sua interezza proposte nei vari millenni.
Passano così sotto gli occhi del lettore le proposte di Cavadi sui vari aspetti della vita del filosofo e sulla loro possibile esemplarità per gli altri uomini: l’attenzione per la conoscenza della realtà, per il rigore scientifico, l’equilibrio tra l’investimento meditativo su di sé e quello sugli altri, la modestia e la finitezza, il rapporto con il lavoro, con la vecchiaia, il silenzio e l’ascolto, e mille altre cose. Una varietà e una sincerità di scrittura che porta il lettore a partecipare al ragionamento e a prendere posizione sulle posizioni prese da Cavadi riguardo alle singole questioni. In fondo anche questa seconda parte, come in un certo senso tutta l’opera di Augusto Cavadi, è una esortazione ad un filosofare comunitario. Stavolta l’esortazione non si rivolge a un generico uomo dotato di mente e cuore ma ai filosofi non chiusi alla svolta pratica. Ad essi tocca rispondere alle numerose sollecitazioni che il libro mette in campo: toccherà decidere se adottare il concetto di spiritualità filosofica o sostituirlo, se lasciarlo nell’estensione che il suo autore propone o ridurne l’ampiezza, se farlo coincidere con la pratica filosofica o differenziarlo. I margini sono ampi, sia per la natura pioneristica della proposta sia per il carattere non paradigmatico o vincolante della stessa (più volte Cavadi annota come molte pagine del libro rappresentino ciò che lui testimonia per sé e la sua esperienza e non ciò che pensa valga per tutti), e ampio è il campo d’azione e di pensiero che si aprirebbe ai filosofi.
Davide Miccione
1 commento:
Bella recensione quella di Davide Miccione, che mi ha fatto 'rileggere', a distanza di qualche anno, il bel libro che abbiamo presentato a Castellammare. Complimenti e grazie per il servizio attento e puntiglioso che riesci ad offrire, caro Augusto, mentre ci prepariamo a dare il saluto al carissimo Sergio, che della filosofia pratica esplorava soprattutto gli ambiti della non violenza e della pace, oltre che quelli della ricerca artistica.
Un abbraccio a te e ad Adriana.
Cosimo
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