mercoledì 29 gennaio 2020

CONTRO IMMIGRATI, CONTRO EBREI: IN NOME DEL VANGELO, CONTRO TUTTI ?


“Repubblica – Palermo”
29.1.2020

QUI C’E’ UN EBREO

Come suggerisco ai miei amici di passaggio da Palermo, anch’io qualche volta partecipo alla liturgia eucaristica, nel popolare rione del mercato Ballarò, presieduta da don Cosimo Scordato nella bella chiesa tardo-barocca di San Francesco Saverio. Domenica 26 gennaio, vi ho accompagnato Monica Coretti, una simpatica amica napoletana che ha scritto Scintille, un volume interessante di dialoghi con artisti vari sul rapporto fra dimensione religiosa ed esperienza estetica.
 Il brano del vangelo di Matteo (4, 12 – 23) evocava la chiamata dei primi apostoli: Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini»”. Sono parole che tante volte abbiamo ascoltato sin da piccoli – almeno sino a quando abbiamo frequentato le chiese – e dalle quali, solitamente, i preti hanno tratto lo spunto per far riflettere sul tema della “vocazione”, in particolare sulla vocazione al ministero pastorale. Ma don Cosimo, come spesso gli accade, ha un po’ spiazzato le attese: “L’invito ad essere pescatori di uomini non va inteso, immediatamente, in senso figurato, metaforico. Soprattutto ai nostri giorni, chiede di essere interpretato letteralmente: prima che il mare della vita, sono i nostri mari fisici a pullulare di gente che va salvata. Che va tratta fuori dai vortici e accompagnata alla riva. Come comunità cristiana dobbiamo chiederci se abbiamo fatto, e stiamo facendo, tutto il possibile per ‘pescare’ donne e uomini in pericolo. Non possiamo proclamare un’identità cristiana e disattendere l’invito evangelico a soccorrere chi rischia il naufragio”.
   In ogni celebrazione liturgica in questa chiesa del quartiere Albergheria è previsto uno spazio per gli interventi spontanei dei presenti che possono chiedere alla comunità di pregare per determinate intenzioni o di realizzare determinate proposte. Neanche domenica sono mancati i toccanti riferimenti all’attualità. Sandro Riotta, noto cultore di tradizioni ebraiche, ha preso spunto dalla tristissima notizia della scritta “Juden hier” (“Qui un ebreo”) sulla porta di casa, a Mondovì, del figlio di Lidia Beccaria Rolfi, deportata nel lager di Ravensbruck perché staffetta partigiana, per proporre che da oggi la stessa scritta sia riprodotta sui portoni di tutte le chiese cristiane. Riotta pensava, opportunamente, alla solidarietà che un discepolo del vangelo dovrebbe nutrire per ogni vittima dell’ingiustizia e dell’emarginazione. Ma a me è stato spontaneo, sulla sua scia, andare oltre: se si ritiene che, in qualche modo più o meno reale, le chiese sono un’abitazione privilegiata – se non certo esclusiva – della presenza di Gesù il Cristo (nella comunità orante e nel pane benedetto e condiviso), non è forse vero - in misura più o meno simbolica – che in ciascuna di esse vive un “ebreo”? Capisco che viviamo nell’epoca dell’ignoranza glaciale in cui un consigliere comunale leghista triestino può protestare contro chi afferma che Gesù fosse ebreo: ma chi ha un minimo di competenza storica e teologica può dimenticare che il cristianesimo nasce come tentativo, da parte di ebrei (Gesù, Maria, Pietro, Giacomo, Giovanni, Paolo, Marco, Matteo…) di rinnovare il messaggio originario dei profeti ebrei?   Che poi questo tentativo di rifondazione abbia portato le prime comunità a essere definite eretiche, e a staccarsi dall’albero del giudaismo, non cancella certo il DNA ebraico degli inizi. Per due millenni la stessa chiesa cattolica se ne è dimenticata, ma da Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II (1962 – 1965) da lui convocato non è più possibile dimenticarlo: gli ebrei, lungi dall’essere i “perfidi deicidi” della vecchia liturgia in latino, sono i “fratelli maggiori” dei cristiani di ogni confessione.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

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