22.1.2020
L’INVIDIA TRA PSICOLOGIA ED ETICA
Ormai da molti anni, con un gruppetto di amici, ci incontriamo due volte al mese a cena per conversare su un libro che ci siamo assegnati alla fine dell’incontro precedente. In queste settimane è la volta di un libretto a quattro voci, a cura di Giovanni Salonia, intitolato I come invidia. Una lettura gestaltica (Cittadella, Assisi 2015).
La discussione ha fatto emergere una difficoltà altre volte esperita: poiché nella storia dell’Occidente ogni parola attraversa trasformazioni semantiche profonde, se non si chiarisce preliminarmente il significato preciso in cui la si assume si rischia l’incomprensione. Nel caso di invidia, il vocabolo è stato adottato in almeno tre accezioni differenti. La prima (ben illustrata dal saggio di Valentina Chinnici, Antropologia di una passione triste. L’invidia nel mondo classico, che costituisce la prima parte di questo testo) potremmo definirla mitico-simbolica: “Per gli antichi l’invidia era molto più di un sentimento negativo o di un semplice vizio. Invidia era in effetti una forza potente e distruttiva, dalla quale bisognava in ogni modo difendersi” (p. 15). Di questa prima valenza semantica è rimasta un’eco nel linguaggio contemporaneo: per esempio quando affermiamo che qualcuno è “rimasto vittima” dell’invidia o vi “ha ceduto” o non vi ha saputo “resistere”.
Poiché questo modo di concepire le passioni umane rischia di de-responsabilizzare i soggetti (celebre l’orazione di Gorgia che assolve Elena nell’ipotesi che si sia invaghita di Paride perché vittima incolpevole di Eros), si è gradatamente affermato un secondo significato che potremmo definire filosofico-teologico: l’invidia come “vizio”, dunque come un’attitudine costante a moltiplicare progetti distruttivi – più raramente anche atti: l’invidia paralizza, immobilizza - nei confronti di chi possiede (oggettivamente o, per lo meno, ai nostri occhi) più di noi.
Con la psicologia e, più specificamente, con la psicoanalisi emerge e s’impone un terzo significato: l’invidia come “sentimento” spontaneo, irriflesso, pre-razionale. Secondo l’icastica definizione di Giovanni Salonia, “l’invidia è il desiderare ciò che l’altro possiede” (p. 37).
Non ho le competenze per discutere la legittimità di questa accezione psicologico-psicoterapeutica del vocabolo, ma da filosofo – dunque, per così dire, dall’esterno – non posso non avanzare un allarme: che adottando in maniera esclusiva e indiscriminata questo significato di “invidia”, anche fuori da un ambito di analisi psichica, si rischia di oscillare fra rigorismo esagerato e lassismo pernicioso.
Provo a spiegarmi.
Tutti noi siamo abitati da bisogni, avvertiamo più o meno prepotentemente passioni e desideri: questo è un dato di fatto, in se stesso positivo. Nell’Elogio della follia, già nel XVI secolo, Erasmo da Rotterdam si divertiva a notare che senza tanti impulsi irragionevoli (o, per lo meno, pre-razionali) la vita dei singoli – come la vita del genere umano – non si perpetuerebbe. Capita quotidianamente, anche ai più fortunati di noi, di desiderare non solo ciò che possiamo facilmente raggiungere, ma anche qualcosa che altri posseggono e non è alla nostra portata immediata. Già solo per questo possiamo dirci “invidiosi”? Se rispondiamo affermativamente, rischiamo di assumere una prospettiva – contraddittoria – troppo rigorista (quasi impietosa) e troppo lassista (quasi deresponsabilizzante).
Infatti: da, una parte, sembra condannare alla radice ogni nostro moto interiore, anche il più naturale, anche il più spontaneo. Chi di noi può dire di non aver mai “desiderato” un oggetto o un attributo posseduti da altri e non da noi? La storia dell’ascetismo (in Occidente come in Oriente) ci attesta quanto vanamente ci si possa ‘mortificare’, flagellare, nel tentativo illusorio di estirpare le nostre esigenze fisio-psicologiche.
Ma, dall’altra parte, sembra legittimare anche un lassismo responsabilizzante. Infatti, se davvero desiderare ciò che non si ha e invidiare fossero sinonimi, tutti e tutte saremmo irrimediabilmente invidiosi e invidiose: dunque ci resterebbe solo da esserlo in maniera borghesemente misurata, educatamente moderata.
Per evitare l’impasse, Giovanni Salonia distingue una invidia “fisiologica” o “sana” da altre manifestazioni patologiche o “negative”: “Se una persona assetata vede qualcuno lontano che si sta rifocillando da una fonte d’acqua, sentirà legittimamente invidia” (p. 37). E’ una buona soluzione?
Penso di no. Infatti, nel nostro corredo culturale e linguistico, l’invidia è un vizio: come tale, è sempre “negativo”. Non sarebbe preferibile denominare in altro modo l’ invidia “fisiologica” o “sana”, per esempio chiamandola “desiderio da mancanza” (o “mancanza desiderante”), riservando il vocabolo “invidia” solo all’invidia “patologica” o “negativa”?
In questo modo – o in modo simile – il quadro complessivo si riconfigurerebbe pressappoco così.
Se nel deserto vedo qualcuno che ha trovato una sorgente e vi attinge, anch’io “desidero” bere alla stessa fonte e mi viene spontaneo considerare ‘fortunato’ chi vi è già arrivato. Ma se questo mio desiderio non degenera, se non arrivo ad augurarmi che l’altro rimanga a bocca asciutta qualora non giungessi anch’io in tempo a dissetarmi, perché dovrei definire “invidia” una “reazione” che – come scrive opportunamente lo stesso Salonia – “di per sé esclude qualsiasi valenza negativa perché esprime la sana constatazione di uno scarto tra avere/non avere” (ivi) ? Non si rischia così di omologare in uno stesso insieme gli innocenti (e magari virtuosi) gestori della propria sete e i colpevoli (e magari viziosi) invidiosi della gratificazione altrui? A me piacciono molto i dolci e, almeno altrettanto, i preliminari a letto: devo essere considerato un goloso o un lussurioso per il solo fatto che desidero sperimentare simili piaceri o piuttosto un modello di temperanza e di castità, se abitualmente rispetto una certa dieta ipocalorica ed evito di corteggiare tutte le donne affascinanti che incontro in giro? Salonia scrive che “l’invidia […] diventa negativa quando il confronto tra la mancanza che si vive e la fortuna che si vede nell’altro suscita rabbia furiosa, rancore, risentimento, cattiveria, tortura interiore, odio” (p. 38). Riterrei preferibile sostituire l’aggettivo “negativa” con il sostantivo “invidia”: “l’invidia diventa invidia quando…”. Sino a quando il successo o la ricchezza altrui mi suscita, irriflessivamente, un “semplice fastidio” (ivi), non è giusto che mi (si) consideri un invidioso. Oserei dire – ma qui si aprirebbe un altro capitolo – che neppure nel caso che tale fastidio si trasformasse in “ossessione” (ivi) si potrebbe parlare di “invidia” in senso morale, etico, valutativo: tale diventa il nostro stato d’animo psichico (infastidito leggermente o pesantemente ossessionato che sia) solo se, e a partire da quando, assumo consapevolmente e intenzionalmente questi sentimenti e li trasformo in progetti distruttivi (più spesso: autodistruttivi), in habitus (ossia in attitudine permanente che si rafforza moltiplicando le azioni invidiose).
Queste distinzioni concettuali hanno precise conseguenze pratico-operative.
Se uso “invidia” nel linguaggio degli psicologi e degli psicoterapeuti, essa è “un’emozione primaria” (p. 57): dunque costituisce – almeno in alcune correnti psicoanalitiche di matrice freudiana – lo “ <<strato roccioso>>, di fronte al quale bisogna fermarsi perché limite insuperabile che neppure l’analisi può curare” (p. 58). Né stupisce che, persino negli orientamenti come la Gestalt Therapy per i quali l’invidia è “una emozione disfunzionale” sostituibile con “emozioni positive e di crescita” (p. 64), si preveda la possibilità dell’impasse: se in terapia si configura un sentimento di invidia del paziente nei confronti del terapeuta percepito “in posizione up” (p. 68), “la relazione terapeutica può rischiare – come sostiene la Klein – una sorta di blocco incurabile” (ivi).
Se uso “invidia” nel campo semantico dell’etica (filosofica e/o teologica), essa è un vizio: dunque un orientamento esistenziale consapevolmente assunto e ‘coltivato’ che, con attenzione e perseveranza, può essere destrutturato e trasformato in gioiosa gratitudine per i carismi di cui siamo tutti arricchiti per il solo fatto che uno di noi, un membro dell’unica famiglia umana, li possiede e li gestisce saggiamente. Se poi l’altro si ostina a tenere per sé i beni ereditati o acquisiti, tendere a convincerlo - o a costringerlo legalmente - a condividerli con chi ne ha oggettiva necessità non è certo ‘invidia’, ma esercizio di giustizia e di coraggio. Nella prospettiva greca di un Aristotele (ripresa nel Medioevo cristiano da san Tommaso d’Aquino) non possiamo parlare di bene o di male morale, di eticamente giusto o di ingiusto, di virtù o di vizio, sino a quando restiamo sul piano che precede la deliberazione razionale. E’ solo se, e quando, acconsentiamo liberamente ai nostri impulsi pre-razionali che compiamo gesti valutabili moralmente. Anzi, precisa Aristotele, non basta neppure che una o due volte abbiamo trasformato in ubriacatura il nostro piacere per il vino o in orgia il nostro piacere sessuale perché ci si possa considerare intemperanti: e cita in proposito il versetto della tradizione popolare “una rondine non fa primavera”. (Ovviamente per lui lo stesso criterio vale in senso positivo: un’elemosina occasionale a un mendicante o un atto di cortesia verso uno straniero di passaggio non fanno di me né una persona generosa né una persona gentile).
In un Paese di tradizioni cattoliche potrebbe risultare non del tutto superfluo considerare un’ultima ‘applicazione’ della necessità di distinguere fra campo semantico psicologico e campo semantico filosofico-teologico: a proposito del comandamento conclusivo dell’elencazione biblica ( “Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo”). Chi lo interpreta in chiave psicologica, lo trova aberrante e (ovviamente) lo rigetta: come posso vietarmi di desiderare la bella casa del vicino se la mia è fatiscente? Solo chi lo interpreta in chiave etica, può condividerlo: dipende da me trasformare l’attrazione (inevitabile) per una bella casa, o per una bella donna, in “desiderio” di possederla a qualsiasi costo.
Pare che l’esegesi specialistica dei testi biblici possa incoraggiarci in questa direzione. In un sito purtroppo anonimo (https://usandculture.wordpress.com/tag/non-desiderare-la-donna-daltri/ ) si legge infatti: “Oltre al poco lusinghiero accostamento di donne e buoi, lascia perplessi l’uso del verbo ‘desiderare’. Proibire un desiderio pare eccessivo, pure per il Dio padrone della Bibbia: molti psicologi moderni lo definirebbero anche controproducente, per l’effetto catartico dei desideri, se questi non sfociano in azioni illegali. Che verbo è stato utilizzato, in origine? ‘Chamad’. Questo verbo, oltre a ‘desiderare’, sembra avere anche altri significati. Per lo storico delle religioni Ambrogio Donini, esso vuol dire ‘gettare l’occhio addosso’ e si riferisce a un’azione magica, tipica della stregoneria, volta a lanciare il malaugurio sulla proprietà o sulla donna altrui per impadronirsene, qualcosa che va ben oltre il semplice vagheggiamento. C’è anche chi passa oltre il malocchio, come Joel M. Hoffman, curatore del sito goddidntsaythat.com. Dal confronto tra l’utilizzo fatto in diverse parti dell’Antico Testamento, in particolare Esodo 34:24, Deuteronomio 7:25 e Proverbi 6:25, Hoffman conclude che in tutti questi casi chamad è meglio tradotto da ‘prendere’, ‘impossessarsi’ piuttosto che ‘desiderare’, indicando un’azione concreta e non una fantasia. Se le cose stanno così, i divieti espressi nel nono e decimo comandamento [nella catechesi cattolica il comandamento biblico conclusivo si sdoppia] diventano in pratica un’estensione del settimo, ‘Non rubare’, articolato fino a specificare che cosa non si può prendere o rubare. Ma allora per quale motivo questa insistenza sul desiderare? E’ probabile che, come in altri passi della Bibbia, agisca la forza della tradizione: chamad è sempre stato tradotto con desiderare e allo stesso modo continua a essere fatto”.
Augusto Cavadi