PALERMO – Cosa può dirci ancora Edgar Morin, il quasi centenario filosofo e sociologo francese che da decenni sostiene la necessità di superare i confini tra le nazioni, nella consapevolezza di essere tutti figli e cittadini della Terra-Patria, casa comune dell’umanità? Nel libretto “Pensare il Mediterraneo, mediterraneizzare il pensiero” (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2019, €10, a cura di Augusto Cavadi, prima edizione italiana del saggio già pubblicato in Francia nel 1999) il filosofo propone nuovi spunti di riflessioni davvero intriganti ed attuali.
Morin constata che, nella nostra società secolarizzata, dove “lo sviluppo della Triade Scienza/Tecnica/Industria ha perso il suo carattere provvidenziale”, è stata purtroppo ormai smarrita la certezza e la fiducia nel futuro. Ma è proprio questa crisi di futuro a suscitare una sorta di rivincita del passato: “Quando il futuro è perduto e il presente è malato, allora non resta che rifugiarsi nel passato, cioè a dire nel ritorno alle radici etniche, nazionali, religiose. Se la coscienza planetaria è sottosviluppata e la coscienza umanistica è in crisi, dappertutto acquistano vigore le formule nazionaliste integrali, integriste o nazional-religiose”.
In questo quadro di rinascita delle sirene nazionaliste – oggi si userebbe il termine “sovraniste” – Morin assegna all’Europa e al Mediterraneo un ruolo centrale nella composizione dei conflitti e nella costruzione di un futuro di pace: “La costruzione di un’Europa politica e culturale, al di là dell’economia, sarà lo sviluppo di un’Europa della diversità in cui la sua area mediterranea conserverà la sua specificità e la sua autonomia. Non si può riscoprire il Mediterraneo se non cessando di percepirlo come frontiera e considerandolo come bene comune e grande canale di comunicazione”. Il filosofo afferma quindi che è necessario ritrovare nel Mediterraneo l’essenza dell’apertura, della comunicazione, della tolleranza e della razionalità: “Dobbiamo ‘rimediterraneizzarci’ come cittadini della comunicazione e cittadini della complessità. Come il mondo non può salvarsi che grazie a una religione della fraternità umana, così il Mediterraneo non può salvarsi che grazie a una fraternità mediterranea”.
Sollecitato dalla lingua francese, dove Mediterraneo è femminile (la Méditerranée), l’autore continua a parlare del Mare nostrum con accenti quasi lirici e commossi, esortando a ritrovare la sua sostanza materna e inclusiva, che dovrebbe aiutarci a sentirci figli e fratelli, e a guardare al futuro con il “principio speranza”, pur senza fedi religiose, certezze scientifiche o promesse storiche. Il saggio è inoltre arricchito da notizie biografiche su Morin (nome di battaglia assunto dal filosofo al posto del cognome vero, Nahoum, quando si impegnò nella resistenza anti-nazista) e da un’interessante postfazione del professor Alberto Cacopardo, che sottolinea la necessità di estendere il comandamento “non uccidere” dagli angusti confini nazionali ai confini planetari, mentre purtroppo sinora “L’orizzonte dell’etica definisce un ‘noi’ al di fuori del quale incombe un’estraneità che non è umana come noi. Questo è il meccanismo antropologico che rende possibile la guerra: il misconoscimento della comune umanità”.
Nella prospettiva di una nuova etica capace di superare i temibili conflitti tra nazioni e gruppi religiosi, il mare Mediterraneo potrebbe divenire “il fecondo terreno d’incontro tra i mondi che si affacciano alle sue onde”, con l’impegno a costruire quell’umanesimo planetario agognato anche da Ernesto Balducci. Preziose infine, nel capitolo conclusivo del libro, le notazioni del curatore Augusto Cavadi, che sottolinea come il passaggio da una coscienza individualistica a una planetaria venga considerato dal filosofo francese una tappa decisiva del processo di “ominizzazione” e pone l’accento su quello che lo studioso chiama “vangelo della perdizione”. Sciogliendo il legame bi-millenario tra l’annunzio di fraternità e la speranza religiosa di salvezza, il laico e non credente Morin scrive: “Tutti gli essere viventi sono gettati nella vita senza averlo chiesto, sono promessi alla morte senza averlo desiderato. Vivono tra nulla e nulla… Siamo perduti, ma abbiamo un tetto, una casa, una patria: il piccolo pianeta in cui la vita si è creata il proprio giardino, in cui gli esseri umani hanno formato il proprio focolare, in cui ormai l’umanità deve riconoscere la propria casa comune. Dobbiamo essere fratelli, non perché saremo salvati, ma perché siamo perduti. Dobbiamo essere fratelli, per vivere autenticamente la nostra comunità di destino di vita e di morte terreni”.
Allora, conclude saggiamente Cavadi: “Ci vuole molta follia per sprecare la nostra caduca esistenza personale in conflitti e distruzioni, anziché investirla per rendere accogliente il giardino che ci ospita per pochi frammenti di tempo”.
Maria D’Asaro
http://www.ilpuntoquotidiano.it/il-mediterraneo-diventi-il-mare-della-fraternita/
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