“Dialoghi mediterranei”
1 settembre 2019
Una Psicologia della Liberazione presuppone
una liberazione della psicologia
“Il ricercatore non è un osservatore esterno, neutrale, distaccato
ma un soggetto sentipensante
che richiede di combinare la mente con il cuore,
la ragione con il sentimento”
(Orlando Fals Borda)
“La psicologia è stata sempre chiara riguardo alla necessità della liberazione personale […]. Tuttavia, la psicologia è stata generalmente assai poco chiara sull’intima relazione tra alienazione personale e alienazione sociale, tra controllo individuale e potere collettivo, tra la liberazione di ogni persona e la liberazione di tutto un popolo. E ancora, spesso la psicologia ha contribuito a oscurare la relazione tra alienazione personale e oppressione sociale, come se la patologia delle persone fosse qualcosa di alieno alla storia e alla società o come se il senso dei disturbi del comportamento si esaurisse sul piano individuale”: così, in Verso una Psicologia della Liberazione(1986), Ignacio Martín-Baró. Parole che, dopo più di trent’anni, nella nostra felicissima epoca del post-ideologico (del post-politico, del post-sociale, del post in generale), risuonano ancor più bizzarre di allora. E che il lettore italiano non avrebbe mai ascoltato se una (relativamente) giovane casa editrice, la Bordeaux, non avesse avuto l’anticonformismo di pubblicare un’antologia dell’autore, Psicologia della Liberazione, a cura di Mauro Croce e Felice Di Lernia, con uno scritto di Noam Chomsky (Roma 2018, pp. 331, euro 18,00; disponibile anche in e-book).
Ignacio Martín-Baró: ma chi era costui? Nato in Spagna nel 1942, diciassette anni dopo entrò nell’ordine dei Gesuiti. La sua solida formazione culturale (laurea in filosofia e letteratura, in teologia, in psicologia) indusse i superiori a chiedergli di stabilirsi in El Salvador e di dedicarsi alla gestione dell’Università Centroamericana José Simeón Cañas (UCA). La sua missione, religiosa intellettuale politica, svolta con incredibile intensità in tutta l’America Latina, fu stroncata la notte del 16 novembre 1989 da un’irruzione delle Forze Armate Salvadoregne che trucidarono, insieme a una domestica dell’UCA (Elba Ramos) e alla giovane figlia (Celina Ramos) , sei docenti (di varie discipline, ma tutti inspirati dai princìpi della Teologia della Liberazione): Ignacio Ellacuría, Segundo Montes, Juan Ramón Moreno, Amando López, Joaquín López y López e il quarantasettenne Ignacio Martín-Baró.
Rinunzio a comprimere l’abbondanza dei contenuti di questo bel libro nei limiti usuali di una “recensione” e preferisco saccheggiarlo, qua e là, per cogliere spunti di riflessione attualizzante per chi oggi, in Italia, coltiva la psicologia e più in generale le scienze umane.
Una prima indicazione riguarda gli storici. Questi testi – compresa la conferenza di Chomsky a Boston su Il contesto socio-politico dell’assassinio di Ignacio Martín-Baró– costituiscono una preziosa miniera di fonti per una storiografia meno eurocentrica rispetto alla dominante nelle nostre istituzioni scolastiche e universitarie. Quasi mezzo secolo dopo i Gulag sovietici e i Lager nazisti, a pochi chilometri dagli Stati Uniti d’America (e con la complicità, ora diretta ora indiretta ora permissiva, di tutti i governi statunitensi), si sono consumati crimini orrendi di cui l’opinione pubblica mondiale ha appreso poco e di cui avrebbe appreso nulla se non ci fossero stati delitti clamorosi come l’assassinio in chiesa dell’arcivescovo di San Salvador Oscar Romero (1980). Migliaia di sindacalisti, contadini, giornalisti, operai, preti e suore – anche solo sospettati di collusione con la guerriglia antigovernativa – venivano assassinati (spesso nel silenzio omertoso delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche ) “strappando loro le unghie, decapitandoli, mutilandoli e giocando con le loro membra, o semplicemente lasciandoli morire di fame” (p. 286). Una contadina, “tornando un giorno a casa, trovò la propria madre, la sorella e i suoi tre figli messi seduti intorno a un tavolo completamente decapitati: <<ogni testa era stata collocata con cura davanti al rispettivo corpo con le mani appoggiate sopra, come se ognuno la stesse accarezzando>>. Gli assassini, appartenenti alla Guardia Nazionale salvadoregna, ebbero difficoltà a sistemare in posizione seduta un bebé di 18 mesi, così decisero di inchiodare le sue mani sopra la testolina affinché si sostenesse. Al centro del tavolo pensarono di collocare una grande bacinella di plastica piena di sangue” (pp. 287 – 288). Le formazioni militari e para-militari perseguono una precisa strategia terrorizzante: “Le persone non sono solo uccide dagli squadroni della morte in El Salvador, esse vengono decapitate, le loro teste appese a delle picche e utilizzate per decorare il paesaggio. Gli uomini non vengono solamente sventrati dalla polizia salvadoregna (Salvadoran Treasury Police); vengono loro recisi i genitali per poi ficcarglieli in bocca. Le donne salvadoregne non vengono solamente violentate dalla Guardia Nazionale; vengono tagliati loro i seni e con essi si copre loro la faccia. Non è sufficiente uccidere i bambini; vengono trascinati sul filo spinato finché la loro carne si stacca dalle ossa, mentre i loro genitori vengono costretti a guardare” (p. 289).
Quando, come in questi mesi in Italia, Forze dell’ordine irrompono, per esempio, nelle case private a strappare striscioni di critica politica o addirittura di esaltazione di valori umanitari, si assiste a ben più che ‘piccoli’ abusi: sono i prodromi di una dinamica che, a valanga, può portare alla totale soppressione delle libertà civili. E sorprende non registrare in Parlamento delle vigorose proteste da parte degli esponenti di tutte le formazioni politiche diverse da quella cui appartiene l’attuale Ministro degli Interni.
Il quadro storico raccapricciante sarebbe incompleto, però, se si tacesse su un elemento di segno opposto: l’emergere e il configurarsi di un complesso articolato di teorie e pratiche che, radicate nella Teologia della Liberazione, si sono poi diffuse in molti altri campi: dalla “Pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire al “Teatro dell’oppresso” di Augusto Boal, dalla “Filosofia della Liberazione” di Enrique Dusssel alla “Teoria della dipendenza” degli economisti Fernando H. Cardoso ed Enzo Falletto, dalla “Ricerca-azione partecipativa” del sociologo Orlando Fals Borda ad alcune espressioni della letteratura (“Non sarebbe esagerato affermare che si impara molto di più sulla psicologia dei nostri paesi leggendo un romanzo di García Márquez o di Vargas Llosa che i nostri lavori tecnici sul carattere e la personalità”, pp. 71 – 72).
E’ soltanto in questo contesto storico-sociale che si possono interpretare correttamente gli insistenti inviti di Ignacio Martín-Baró, ai suoi colleghi psicologi e psicoterapeuti, a “realizzare una Psicologia della Liberazione” che “esige in primo luogo” una “liberazione della psicologia” (p. 83). Inviti, innanzitutto, a superare una “ricercata asetticità scientifica” (coincidente, in concreto, con l’accettazione della “prospettiva di chi detiene il potere”): “Come psicologi scolastici abbiamo lavorato a partire dalla direzione della scuola e non a partire dalla comunità; come psicologi del lavoro abbiamo selezionato o formato il personale a seconda delle esigenze del proprietario o del gestore, non a partire dai lavoratori e dai loro sindacati; inoltre come psicologi di comunità siamo arrivati spesso alle comunità seduti sul carro dei nostri schemi e progetti, del nostro sapere e del nostro denaro. Non è facile definire come inserirci nei processi dal punto di vista del dominato e non del dominatore. Non è facile nemmeno abbandonare il nostro ruolo di superiorità professionale o tecnocratica e lavorare gomito a gomito con i gruppi popolari. Però se non ci imbarchiamo in questo nuovo tipo di prassi, che oltre a trasformare la realtà trasforma noi stessi, difficilmente riusciremo a sviluppare una psicologia latinoamericana che contribuisca alla liberazione dei popoli” (pp. 88 – 89).
Per questo ai giovani che vogliono diventare psicologi egli consiglia, preliminarmente, “un buon bagno di realtà, ma di quella stessa realtà che opprime e angustia le masse popolari”; e, nel corso degli studi, prima di consultare la bibliografia su un problema, che “si lascino toccare dal problema, che si imbevano dell’angosciante realtà quotidiana” (p. 109).
La doppia esortazione di Ignacio Martín-Baró, rivolta agli psicologi, di inquadrare il singolo paziente in un contesto socio-economico e politico-culturale più ampio nonché di impegnarsi consapevolmente nella trasformazione graduale di tale contesto complessivo non è di poco peso. Ammettiamolo francamente: è rivoluzionaria e, in quanto tale, assai gravosa. Intanto è gravoso dover allargare lo sguardo dal microcosmo del soggetto sofferente al macrocosmo del sistema sociale che di tale sofferenza è matrice: lo può uno psicologo che non sia solo psicologo, ma anche sociologo e, in ultima analisi, filosofo. La tendenza oggi dominante va in direzione tenacemente opposta: non solo ci si illude di diventare validi psicologi immergendosi esclusivamente in studi psicologici (per esempio ignorando la letteratura e la storia); ma la stessa ottica psicologica è introspettiva, concentrata nella ricerca delle cause endogene dei disturbi mentali e emotivi, quasi fossimo atomi che vagano nel vuoto immateriale, asociale, astorico. Come nota ancora Di Lernia, “un indicatore emblematico di questa deriva è l’abuso delle recenti utilissime scoperte in campo neuroscientifico, abuso che tende a spostare tatticamente il locus of controldei fenomeni umani dalla realtà sociale esterna al cervello, in una sorta di ipertrofia indotta delle funzioni cerebrali” (p. 300).
Quasi non fosse abbastanza gravoso l’allargamento del campo d’osservazione dello psicologo, Martín-Baró indica un secondo obiettivo ‘rivoluzionario’: non limitarsi alla analisi, ma intrecciare conoscenza e azione trasformatrice. Il presupposto è nella convinzione, già espressa da Kurt Lewin (1890 – 1947), che “la ricerca che non produce nient’altro che libri non è sufficiente” (p. 303): che dunque occorra essere un militante politico, o per lo meno un cittadino attivo, non ‘accanto’ alla propria professione ma proprio ‘dentro’ l’esercizio della stessa. Tutto ciò a costo di sacrificare la propria correttezza scientifica? Per nulla. Ogni psicologo, come ogni intellettuale, sta in una certa posizione sociale: l’onestà intellettuale e la completezza scientifica stanno nel sapere con chi si è già, obiettivamente, schierati e nel dichiararlo apertamente.
A questo punto viene facile ipotizzare l’obiezione degli psicologi: ma, insomma, questo collega sudamericano che cosa pretendeva – che cosa pretenderebbe – da noi in un’epoca di concentrazione epistemica sul particolare, sul dettaglio, e di irresponsabilità al cospetto di mutamenti epocali che trascendono le possibilità di condizionamento da parte dei semplici cittadini? Ci vuole saggi nel tempo degli specialismi ed eroi nel tempo della passività impotente? Non sono autorizzato a rispondere, a nome di Martín-Baró,a tale (eventuale) obiezione. So solo che egli è vissuto, ha lavorato ed è stato assassinato per la duplice “utopia” di uno sguardo sulla complessità e di un intreccio con la prassi. E che abbandonare simili orizzonti significherebbe ridurre “il lavoro curativo dello psicologo” (in sé, indubbiamente, “necessario”) a “semplice palliativo che contribuisce a prolungare una situazione che genera e moltiplica quegli stessi mali che vuole curare” (p. 249). O peggio, per riprendere con Mauro Croce le preoccupazioni di Ian Parker, a “strumento di controllo sociale”, a “parte integrante della ideologia dominante che rinforza e giustifica i suoi stereotipi e i suoi valori offrendo come unica felicità del soggetto l’adattamento a un sistema politico ed economico” (p. 32).
L’eredità di Martín-Baró è esportabile fuori dalla sua patria d’elezione e dal tempo di lacerazioni civili in cui visse? A prima vista, sembrerebbe di no. Ma se, ad esempio, ripercorriamo i cinque difetti principali che egli individuava nella “epistemologia” della psicologia sud-americana, siamo sicuri che non siano rintracciabili – tutti o in parte – nelle correnti più diffuse della psicologia europea (e, in particolare, italiana)?
A suo parere, tali “presupposti che solo raramente si discutono e i quali ancora più raramente si propongono alternative” sarebbero:
a) Il “positivismo”, il quale sottolinea “il come dei fenomeni, tendendo tuttavia a lasciare da parte il che, il perché e l’affinché” (con la conseguenza che si sente “tanto comodo in laboratorio, dove può <<controllare>> tutte le variabili” e finisce “per ridursi all’esame di autentiche futilità, che dicono poco o niente sui problemi di ogni giorno”) (p. 76). Esso rischia di ignorare “ciò che non esiste ma che sarebbe storicamente possibile, se si dessero altre condizioni” (pp. 76 – 77): “considerare che la realtà non è niente più di ciò che è dato, che il contadino salvadoregno è semplicemente fatalista o il nero americamo meno intelligente, costituisce un’ideologizzazione della realtà che termina consacrando come naturale l’ordine esistente” (p. 77);
b) l’ “individualismo”, a causa del quale “si assume che il soggetto ultimo della psicologia sia l’individuo come entità di senso di per se stessa”, riducendo “i problemi strutturali a problemi personali” (p. 78);
c) l’ “edonismo”, inteso come “la pretesa che, dietro a ogni comportamento, ci sia sempre per principio una ricerca di piacere o di soddisfazione”: pretesa che “ci rende forse ciechi di fronte a differenti aspetti dell’essere umano” (come l’altruismo), “ma altrettanto presenti” (pp. 78 – 79);
d) la “visione omeostatica” in base alla quale si tende a “valutare come negativo tutto ciò che rappresenta la rottura, il conflitto, la crisi” (p. 79) all’interno di un sistema dato;
e) l’ “astoricità” che induce ad accettare “la scala dei bisogni di Maslow come una gerarchia universale” o “la scala Stanford-Binet” come idonea a misurare il quoziente intellettivo di popolazioni assai diverse dalle nord-occidentali del pianeta, ignorando che “tanto i bisogni quanto l’intelligenza siano in buona misura una costruzione sociale” (pp. 79 – 80).
Se dal piano epistemologico più teorico passiamo al piano storico-sociale, non c’è dubbio che in certi contesti, come l’America Latina a cavallo tra il secondo e il terzo millennio, sia più facile che in altri diagnosticare la contrapposizione fra schieramenti contrari. Ma oggi, in Italia, è davvero impossibile individuare chi opprime e chi è oppresso? Chi evade le tasse su profitti immensi e chi le paga regolarmente (se non altro perché gli vengono trattenute in busta-paga)? Chi assume dipendenti in maniera totalmente (o quasi totalmente) illegale e chi è costretto dall’indigenza ad accettare di lavorare subordinatamente in condizioni inique? Chi invade abusivamente gli spazi pubblici per costruirsi la seconda casa sulla spiaggia e chi non ha un tetto per l’inverno né una spiaggia accessibile per l’estate? Chi accaparra per sé, i congiunti, le amanti le cattedre universitarie o le poltrone dell’amministrazione pubblica e chi, privo di appoggi, non riesce neppure a entrare in un corpo di polizia? Chi controlla la tratta degli schiavi e delle schiave provenienti dall’Africa, ma anche dall’America Latina e dall’Est europeo e chi, ingannato da false promesse, è tritato quotidianamente in questi meccanismi infernali? Chi difende il sistema maschilista e patriarcale e chi di questo sistema iniquo paga le conseguenze con sofferenze quotidiane e solo epifenomenicamente con la vita ? Chi aderisce a organizzazioni criminali di stampo mafioso e, mediante l’intimidazione, succhia proventi illeciti e chi, per una serie di ragioni, subisce i taglieggiamenti e si priva di una parte dei frutti del proprio lavoro? Gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito. La narrazione corrente ci dice che ormai la lotta fra classi è un relitto sorpassato. Molto probabilmente la terapia per superare tale lotta, proposta dal comunismo marxista-leninista, lo è: non altrettanto la diagnosi che Marx e Engels ne proposero meno di due secoli fa, la quale va ripensata in tanti limiti (ecologia, diritti delle donne, diritti degli animali…), certamente non ignorata.
Ammettiamo pure (per comodità argomentativa) che, nonostante le considerazioni appena formulate, dall’angolo di osservazione di un italiano della prima metà del XXI secolo, l’esortazione agli psicologi di impegnarsi attivamente nella trasformazione del sistema socio-economico-politico non soltanto in quanto cittadini, ma proprio in quanto psicologi, possa suonare eccessiva o anacronistica. Tuttavia, a una riflessione ulteriore, la valutazione potrebbe mutare. Come Augusto Boal, trasferendosi dall’America Latina in Europa, ha scoperto che le oppressioni non sono solo di natura materiale, ma anche culturale e psichica (e tutte dipendono, in qualche misura, dal sistema complessivo in cui si è inseriti), così ritengo che molte indicazioni di Martín-Baró siano – purtroppo – attuali anche nell’Italia di oggi (e non solo).
Sappiamo quanto egli avvertisse, con Paulo Freire, la necessità di “coscientizzare” popolazioni impossibilitate “a leggere e a scrivere l’alfabeto, ma soprattutto a leggere se stessi per scrivere la propria storia” (p. 71). Ebbene, siamo sicuri di vivere in un contesto radicalmente differente? O la maggior parte della popolazione italiana attuale, come ci informano i sociologi e i linguisti, ha difficoltà a decifrare frasi che comprendano più di tre termini (soggetto, predicato e complemento) e, soprattutto, a interpretare le analisi politiche e le conseguenti proposte degli schieramenti elettorali? E nella crisi delle “grandi narrazioni” non siamo noi tutti – “intellettuali” compresi – in una condizione di spaesamento, di sfiducia nella progettualità collettiva, di rinunzia rassegnata a “scrivere la storia”? Se così fosse (come mi pare facile ammettere), alla “psicologia nel suo insieme, sia quella teorica sia quella applicativa, la sociale, la clinica e la educativa” (p. 70), non si può chiedere di trainare l’intera società contemporanea dall’impasseepocale in cui versa, ma le si può e le si deve chiedere di non ignorare il nesso fra patologie individuali e patologie sociali, come se fosse possibile vivere da soggetti equilibrati in un contesto di squilibri strutturali. Promettere salute psichica in sistemi sociali ammalati è un inganno: non certo meno colpevole se consumato per ignoranza professionale.
Solo una colpevole cecità potrebbe indurci, dunque, a supporre che le indicazioni deontologiche di Martín-Baró valessero solo in un’area geografica, e in un segmento di tempo, delimitati. Lo conferma un’esemplificazione ancora più concreta. L’autore scrive poco prima di essere ucciso: “Esiste un’abbondante bibliografia in merito alla psicologia del lavoro, ma non sulla psicologia dei senza-lavoro. Lo studente di psicologia viene formato in orientamento vocazionale, in selezione e addestramento del personale […]. Ma niente o quasi niente di equivalente per affrontare il problema di coloro che, per il disegno strutturale di un sistema socio-economico assurdo, sono destinati a passare la maggior parte della loro vita senza lavoro, o magari perennemente occupati a cercare un’occupazione” (p. 99). E così commenta, nella sua intelligente Postfazione, Felice Di Lernia: “In un contesto come quello italiano, così fortemente marchiato da una crisi occupazionale senza prospettive, nel quale intere sacche di popolazione giovanile non avranno mai un lavoro stabile e forse neanche un lavoro vero e proprio, nel quale il problema della disoccupazione adulta spinge centinaia di migliaia di persone verso una esistenza non priva di disturbi che non è esagerato definire disperata, una psicologia dei senza-lavoroè una psicologia di cui si sente la mancanza” (p. 299).
Un’altra applicazione delle teorie esposte da Martín-Baró fuori dal contesto centro-americano, per esempio italiano, è costituito dal nesso fra maschilismo e violenze psico-fisiche sulle donne:
Prima di tutto, deve esistere un contesto sociale che stimoli o per lo meno permetta
la violenza .Con questo ci riferiamo a una cornice di valori e norme, formali e informali,
che accetti la violenza come una forma di comportamento possibile e addirittura la richieda.
In u ambiente, per esempio, dove il maschilismo è considerato una virtù che un uomo che
si rispetti deve possedere, lo stupro è contestualmente favorito, anche se le leggi formali
possono proibirlo (p. 163).
Da lettore siciliano vorrei chiudere con qualche sottolineatura dal punto di vista del Meridione italiano.
Per Martín-Baró non è contestabile che la psicologia abbia influenzato favorevolmente la pedagogia, i costumi sociali, le relazioni affettivo-sessuali…anche degli strati più indigenti della società. Tuttavia è altrettanto incontestabile che a fruirne maggiormente i servizi siano stati sino a oggi gli stradi alti e medio-alti: “la psicologia” – tranne rare e lodevoli eccezioni – “non si occupa dei problemi delle grandi masse popolari”: essa è “emarginata dalle sofferenze e dai bisogni degli emarginati” (pp. 120 – 121). Quanto scrive a proposito del Centro America non vale, sostanzialmente, per il Meridione italiano attuale?
L’attenzione clinica raramente è andata oltre le domande dei settori
potenti, l’orientamento scolastico solo eccezionalmente ha guardato
al processo formativo a partire dalle necessità delle maggioranze, la
consulenza familiare o personale quasi mai ha messo in discussione
le esigenze del sistema sociale prestabilito, e perfino la psicologia di
comunità si è accontentata, il più delle volte, di stimolare qualche
forma di assistenzialismo verso gruppi sociali considerati vittime di
un destino ingrato. […] La sfida della psicologia latinoamericana”
è costituita, dunque,
“dall’orientare la propria influenza sociale a occuparsi prioritariamente
o preferenzialmente degli interessi dei gruppi dominati, dei problemi
delle masse popolari, delle speranze e dei sogni di quei vasti settori
della popolazione latinoamericana che continuano a dibattersi tra i
prosaici bisogni di soddisfazione delle proprie necessità materiali più
elementari” (p. 127).
Dopo aver ricordato che un professionista sensibile alla prospettiva della “Liberazione” deve imparare a lavorare non soltanto per i ceti svantaggiati della società ma dal loro punto di vista, Martín-Baró indica agli psicologi (ma si tratta, ovviamente, di indicazioni di portata più ampia) “tre compiti urgenti”, “tanto teorici quanto pratici”:
1. “In primo luogo, il recupero della memoria storica. La difficile lotta per raggiungere la soddisfazione quotidiana delle necessità basiche spinge le moltitudini popolari a rimanere in un permanente presente psicologico, in un qui e ora, senza un prima né un dopo; e ancora, l’opinione dominante struttura una realtà apparentemente naturale e astorica, che porta a accettarla automaticamente”. Nell’impossibilità di “trovare le radici della propria identità”, “il latinoamericano medio ha di stesso rispetto a altri popoli” una “immagine predominante negativa” che costituisce “un vivaio propizio al fatalismo conformista” (p. 90). E’ differente la condizione psicologica del siciliano medio che - ignorando le grandi battaglie combattute (e perse) dai suoi recenti predecessori sia alla fine dell’Ottocento (i “Fasci siciliani”) sia nel Secondo dopoguerra (la lotta per la terra) – si auto-concepisce come inchiodato a un destino di arretratezza e di sottosviluppo ?
2. “In secondo luogo” è necessario “de-ideologizzare l’esperienza quotidiana”: attraverso “i mezzi di comunicazione di massa” si fa costruendo “un falso senso comune, ingannevole e alienante, propizio al mantenimento delle strutture di sfruttamento e degli atteggiamenti conformisti” (p. 91). Ancora una volta: è differente la condizione psicologica del siciliano medio che – condizionato dalla visione del mondo produttivistica e consumistica dominante soprattutto nelle trasmissioni televisive – si convince che nessuno dei beni già a sua disposizione (aria pulita, sole, mare, clima temperato, frutti della terra saporiti…) può gratificarlo e che, perciò, ambisce a uno stile di vita ‘cinematografico’, lussuoso, dispendioso, identificato come il modello ideale e irrinunziabile della felicità in questo mondo?
3. “Infine, dobbiamo lavorare per il potenziamento delle virtù dei nostri popoli” (p. 91). Qui il parallelismo può funzionare solo come struttura formale del discorso, non anche in considerazione dei contenuti specifici. L’autore cita infatti una serie di qualità del popolo salvadoregno (“incorruttibile solidarietà nella sofferenza”, “capacità di votarsi e sacrificarsi per il bene comune”, “grande fiducia nella capacità umana di trasformare il mondo”, ”speranza in un domani che violentemente continua a essergli negato”, pp. 91 – 92) che – tranne in qualche caso- mi sembrano estranee alla fisionomia tipica dell’ethossiciliano. Il quale è però connotato da altre “virtù” valorizzabili: senso di responsabilità verso la famiglia d’origine e soprattutto verso la famiglia creatasi con il matrimonio, laboriosità, disposizione all’ospitalità…
Se ci si riferisce al contesto meridionale è impossibile tacere degli spunti che i discorsi dello psicologo-martire suggeriscono in tema di criminalità organizzata. Egli, nell’ampio capitolo dedicato alla violenza, egli evidenzia la differenza fra gli atti di violenza esercitati da singoli individui e le strutture socialiviolente, sottolineando come gli psicologi sociali – in linea con l’opinione pubblica dominante – tendono a focalizzare i primi e a ignorare i secondi: se entro in un ristorante armato di pistola e a volto coperto per rapinare i clienti compio un atto unanimemente considerato violento e come tale perseguito; ma se il proprietario del ristorante abitualmente impone ai suoi dipendenti, mediante il ricatto del licenziamento, di firmare per ricevuta delle buste-paga dove è segnato un salario di gran lunga superiore all’effettivamente percepito, questa violenza sistemica resta invisibile. Così, mentre gli atti dei singoli mafiosi (omicidi, ferimenti, stragi…) vengono stigmatizzati, le strutture mafiose (controllo degli appalti pubblici, corruzione sistemica nelle amministrazioni pubbliche, meccanismi di promozione nelle banche o negli ospedali in base a valutazioni che prescindono dai meriti professionali dei candidati…) restano ignorate o considerate inevitabili, quasi parti di un paesaggio naturale.
Altra luce gettano le analisi di Martín-Baró sulla delucidazione degli atti violenti perpetrati dai mafiosi. Per alcuni di essi uccidere un commerciante che neppure conoscono di vista o intimidire un membro di una giuría popolare, impegnato in un processo di cui si ignorano imputati e capi d’accusa, potrebbe risultare psicologicamente difficile: ecco perché hanno bisogno di un “qualche tipo di permesso per fare ciò che fanno, al punto da sentirsi giustizieri” (Sanford e Comstock citati a p. 165), e in generale considerano le loro vittime nemici “oggettivi” del gruppo criminale cui appartengono. Martín-Baró ha in mente soldati e poliziotti di regimi politici dittatoriali, o squadroni della morte che li spalleggiano, ma la trasposizione agli adepti di organizzazioni criminali nostrane mi pare abbastanza spontanea.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com