“REPUBBLICA-PALERMO”
4.8.2019
LA SCUOLA E I VALORI ETICI DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
La scuola deve solo istruire o anche educare gli alunni? La questione è molto meno semplice di quanto appaia a prima vista. Nelle sale d’attesa dei dentisti o sui social la risposta ricorrente è affermativa: in una fase di difficoltà delle agenzie educative tradizionali (famiglie e chiese in primis), spetterebbe agli insegnanti impartire ai giovani gli elementi basilari di una corretta convivenza civile.
Questa opinione, per quanto diffusa, non tiene conto di almeno due obiezioni. La prima è più intuitiva: a scuola – dove arriva a cinque o sei anni, quando i tratti essenziali del suo carattere sono ormai forgiati dall’eredità biologica e dalla situazione ambientale - un ragazzo trascorre solo una parte delle sue giornate, una parte delle giornate della sua settimana, una parte dei mesi l’anno. Ma, ammesso che fosse possibile ai docenti “educarli”, sarebbe anche legittimo? Ogni educatore ha – consapevolmente o meno, più spesso inconsapevolmente – un progetto pedagogico in mente: un’idea di uomo e di donna, un modello antropologico e morale che vorrebbe incarnato dall’educando (come si chiama ancora in qualche testo ‘classico’). Siamo sicuri che un genitore cattolico vorrebbe che il figlio fosse “formato” da un docente di orientamento ateo (o viceversa)? Che una madre femminista e progressista vorrebbe per la figlia una maestra tradizionalista di convinzioni conservatrici (o viceversa) ? Che dei genitori musulmani vorrebbero dei professori ebrei ortodossi (o viceversa)?
A questo punto si potrebbe ipotizzare che l’insegnante ideale sia una sorta di computer, che istruisce cognitivamente senza condizionare pedagogicamente. Ma, a parte il piccolo particolare che un docente-computer potrebbe trasmettere tutto tranne l’essenziale (intendo l’interesse, anzi la passione, per la conoscenza, la riflessione, il dialogo), resta un dato su cui si presta poca attenzione: che, anche non volendo, ogni adulto costituisce – di fatto, oggettivamente – una proposta etica per i giovani. Nel modo di vestire, nel modo di gesticolare, nel modo di rivolgersi agli altri - senza contare i commenti che inevitabilmente ‘scappano’ tra una spiegazione e l’altra di matematica o di greco sugli immigrati o sulla crisi ecologica – ogni insegnante è un “corpo” insegnante, vivo e eloquente, significativo e condizionante. Egli ha dunque il dovere di curare la valenza morale e pedagogica del suo insegnamento, concentrandosi (e limitandosi) per quanto possibile sui valori etici inclusi nella Costituzione della Repubblica democratica che lo ha assunto e lo stipendia. Se tradisce questo grappolo di valori, non rispettando le norme in cui di volta in volta i codici civile e penale li traducono, va licenziato senza pietismi. E’ accaduto con gli insegnanti agrigentini che hanno barato sui privilegi della legge 104. Benissimo.
Ora attendiamo che lo stesso criterio – impeccabile – si applichi a tutti gli insegnanti che calpestano, in parole e in azioni, i princìpi costituzionali. Come avvertiva Kant nel Settecento, da cittadino ho il diritto di criticare pubblicamente le leggi dello Stato con i discorsi e con gli scritti; ma, come funzionario dello Stato, no. In cattedra non ho il diritto di contestare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (dunque anche degli omosessuali o dei Rom) o il ripudio della guerra come mezzo per dirimere le controversie internazionali. Tanto meno – passando dal piano delle parole al piano dei comportamenti - ho il diritto di trattare in maniera platealmente iniqua (sin dal primo anno, all’atto dell’iscrizione in un corso piuttosto che in un altro) gli alunni in base al ceto sociale e al censo delle famiglie o di assentarmi dalle lezioni abusivamente (adducendo inesistenti impegni di amministratore comunale o di sindacalista, approfittando della negligenza di dirigenti scolastici che non chiedono di volta in volta la certificazione); così come non è lecito che svolga attività professionali extra-scolastiche o senza l’autorizzazione, anno per anno, della dirigenza o comunque talmente impegnative, in termini di tempo e di energie intellettuali, da pregiudicare le prestazioni in aula previste dal contratto di lavoro.
Nel mezzo secolo trascorso nel mondo della scuola ho ascoltato troppe volte – sia pure a mezza voce –colleghi che adducono, per autogiustificarsi, o motivazioni ideologiche o più banalmente motivazioni economiche. La professionalità docente dovrebbe, in effetti, essere rifondata radicalmente spezzando il (tacito) patto vigente fra l’amministrazione statale e i candidati all’insegnamento: “Ti assumo senza selezioni rigorose, ti esonero da qualsiasi verifica in itinere, ma in cambio accetti uno stipendio irrisorio”. Fino a quando la situazione resterà immutata, gli alunni migliori di ogni annata sceglieranno carriere più prestigiose socialmente e più gratificanti economicamente. Chi, nonostante tutto, continua a optare per l’insegnamento non può nascondersi dietro nessun alibi: il suo ruolo è d’istruire, ma senza dimenticare che in ogni relazione sociale ci educhiamo – costruttivamente o negativamente – gli uni con gli altri.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Caro Augusto, a mio sommesso avviso nel tuo articolo metti troppa carne al fuoco. Ci sono almeno tre tematiche distinte che andrebbero approfondite e, magari, affrontate separatamente. Il titolo che ha dato "La Repubblica" è poi troppo roboante e non rende giustizia della complessità delle tue riflessioni. Un abbraccio.
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