Sull'ultimo numero della rivista telematica (scaricabile GRATUITAMENTE) "Comunicazione filosofica" è ospitata una mia recensione di uno degli ultimi testi di Davide Miccione:
“Comunicazione filosofica”
Maggio 2019
LE LEZIONI PRIVATE DI CONSULENZA FILOSOFICA DI DAVIDE MICCIONE
A trent’anni dall’avvìo in Germania (ad opera di Gerd Achenbach) e a vent’anni dall’importazione in Italia (ad opera, soprattutto, di Neri Pollastri), la philosophische praxis – da noi tradotta, non proprio felicemente, con “consulenza filosofica” – resta un’attività professionale semisconosciuta. Anzi, per l’esattezza: misconosciuta. Infatti non è che la si conosca poco, o in pochi; la si conosce male nel senso che quasi sempre si suppone di conoscerla e, dunque, non ci si preoccupa di informarsi nel merito.
Qualcuno la scambia per una forma di counseling, di assistenza psicologica mediante strumenti tratti dalla storia della filosofia; qualche altro per una versione laicizzata del prete cattolico o del guru induista, dai quali ci si aspetta una parola illuminante in un momento di difficoltà esistenziale; qualche altro ancora – ma si tratta di casi più rari – suppone che si tratti di una consulenza didattica rivolta a chi, leggendo libri di filosofia, trovi difficoltà di decifrazione dei testi.
Nella concreta esperienza quotidiana può capitare di tutto e un “consulente filosofico” non è un robot programmato per svolgere una sola funzione: è prima di tutto un soggetto umano a cui può succedere, accidentalmente, di dare – se richiesto - un consiglio, un incoraggiamento o un chiarimento tecnico su un classico del pensiero filosofico. Ma, in quanto consulente filosofico, egli è abilitato e dedicato ad altro: a che, esattamente?
Uno dei più stimati consulenti filosofici italiani, alla cui professionalità deve moltissimo l’associazione nazionale “Phronesis” (www.phronesis-cf.com), Davide Miccione, lo spiega in un aureo libretto di poco più di cento pagine: Lezioni private di consulenza filosofica (Diogene Multimedia, Bologna 2018, pp. 106, euro 9,80). E lo fa proprio con andamento filosofico (almeno secondo una certa accezione, poco accademica, di filosofia): cioè problematico, autobiografico, dialogico, ironico e autoironico…
Proviamo a restituire il filo rosso del suo discorso.
Nella prima lezione (lezione? “L’ultima cosa che dovrebbe fare un consulente quando fa consulenza, ma forse la prima, in questo momento, da fare se si parla di consulenza”) l’autore parte dalla constatazione che, dopo tanti anni, i filosofi consulenti siano pochi e, tra questi pochi, pochissimi riescono a vivere solamente di questa professione. Mentre, però, in altri questa constatazione sa di amara delusione, Miccione avverte sentimenti – e soprattutto esprime giudizi – di segno opposto: in una fase storica di “pensiero unico, forse neanche quello”, è davvero sorprendente che ci sia ancora un’associazione su scala nazionale che organizzi “congressi tra professionisti (per quanto poveri) che leggono classici, meditano sui problemi dell’esistenza e partecipano a complessi seminari invece che, più consuetamente, utilizzare anglobecerismi, parlare in pubblico leggendo slide, e sostenere che il problema sia la brand reputation”. Insomma: stupefacente è il fatto che ci siano ancora laureati in filosofia che intendono questa disciplina come “costruzione di un habitus in cui si ascolta anche ciò che ci fa male, si riesaminano le proprie posizioni, si chiede a se stessi lentezza e non velocità, fedeltà e non disattenzione, una disciplina che non offre soluzioni e ricette, ma ci rende più acuti e capaci di fare domande.”
Nella seconda lezione ci si interroga sullo “spazio” della consulenza filosofica. Il consultante – il cittadino ‘comune’, solitamente digiuno di storia della filosofia – che bussa allo studio di un filosofo consulente che cosa cerca (o dovrebbe cercare se fosse almeno in grado di percepire il suo bisogno, se non fosse così povero – come direbbe Heidegger – da non percepire come mancanza la propria povertà) ? Di essere aiutato a esplorare il “non-pensato” che ognuno di noi veicola senza saperlo; a “restituire al pensiero” quelle sfere vitali che viviamo meccanicamente (“il lavoro, il sesso, l’amore, l’uso della tecnologia, il corpo, il denaro, l’appartenenza a una comunità eccetera”). Insomma: nella relazione di consulenza filosofica si fa né più né meno di quanto hanno fatto, da Socrate in poi, i filosofi autentici. Essa è un “dialogo filosofico ad personam”: un dialogo effettivo, fra due persone in carne e ossa, non un dialogo costruito a tavolino da un genio speculativo come Platone o come Leopardi.
La terza “lezione” mette a fuoco la necessità, per il consultante e più ancora per il consulente, di essere disposti allo spiazzamento rispetto a ciò che tutti pensano e/ a ciò che tutti hanno sempre pensato. E perfino ad accettare le conseguenze sociologiche della dislocazione nella terra di mezzo fra gli “integrati” (che non hanno nulla da obiettare al modus vivendi dominante) e gli “apocalittici” (che rifiutano in toto l’assetto sociale attuale): “il filosofo è costretto (indotto, tentato) a restare in una posizione laterale periferica marginale, fuori dal gorgo dell’esistenza sociale dei suoi tempi. Discosto ma non separato, vicino ma non dentro”. Egli è alla faticosa ricerca di “una posizione adatta allo sguardo, alla riflessione e alla contemplazione. Dove gli eventi siano a vista ma ci interpellino con moderazione, ci lascino lo spazio e il tempo per pensare”.
A questo punto si potrebbe rispondere, come fa Miccione nella settima e ultima lezione, alla esigenza (essa stessa, però, passibile di problematizzazione) di una definizione della consulenza filosofica. Consapevole dell’arbitrarietà di ogni definizione, in quando comoda ma parziale, egli ne propone, “con levitas”, una: “un dialogo filosofico (o più compiutamente una serie di dialoghi filosofici) tra due individui avente come oggetto la vita di uno dei due o questioni ad essa riconducibili. Colui che pone liberamente come occasione di pensiero la propria vita si chiama consultante. L’altro, se è in grado di lavorarvi filosoficamente, consulente”. Dire che si tratti di “dialogo” esclude forme di comunicazione solo apparentemente simili: “non dibattito, non conversazione, non negoziazione. Dunque […] non è scontro tra verità previamente contrapposte, non è parlare per provare piacere o distrarsi, non è cercare un compromesso/risultato. E’ appunto un dialogo: vi è una dimensione di ricerca della verità possibile, un confronto e un incontro, una serietà che riguarda il senso della cosa.”
Perché l’autore si sbilancia solo nel capitolo conclusivo in un’ipotesi definitoria? Perché prima ha bisogno di chiarire la temperie culturale al di fuori della quale la consulenza filosofica sarebbe impensabile e della quale il movimento della philosophische praxis è, sia pur in minima parte, concausa. Riprende dunque, “in compresse”, i punti essenziali di un suo saggio, Ascetica da tavolo, “troppo zeppo di stimoli e forse un po’ troppo denso”:
1: “La filosofia ha <<subìto>> una svolta pratica”;
2: tale “svolta” impone un “ripensare in profondità il ruolo della filosofia e del filosofo”;
3: essa è “sintomo di un mutamento più generale”;
4: consiste nel “passaggio dalla filosofia come oggetto alla filosofia come pratica o, se si vuole, dalla filosofia al filosofare”;
5: consiste non nell’elaborare un’ennesima filosofia della pratica, ma nel far diventare la filosofia una pratica; non nel teorizzare la processualità, ma nel viversi come processo;
6: “l’atto originario della filosofia diventa così non la domanda sul mondo né la risposta, ma il colloquio filosofico entro cui due uomini vengono irretiti”;
7: “se il baricentro si sposta dagli oggetti filosofici prodotti (teorie, sistemi, libri) all’atto di produrli”, il consulente e il consultante esercitano entrambi il filosofare (anche se, di solito, il consulente filosofa a un più alto grado di “complessità, intensità, bellezza, completezza, tenuta” rispetto al consultante);
8: “il filosofo in consulenza si mette in gioco sempre daccapo, non si limita a elargire i doni già confezionati delle sue antiche meditazioni”;
9: la filosofia pre-pratica è l’insieme della produzione di testi filosofici che “si scrivono, si pubblicano, si recensiscono, si citano”, ma – così concepita – è diventata un “organismo in perenne espansione” ormai collassato (o in via di collasso) “a causa della sua stessa mole”;
10: se il filosofo non può illudersi di concepirsi come il lettore dei testi filosofici (di ieri e soprattutto sfornati giornalmente), non può neanche concepirsi come il produttore di nuovi testi che si illuda di trovare abbastanza lettori. Egli deve piuttosto, alla Socrate, tornare a vedere come un’occasione fortunata la possibilità di parlare con un interlocutore desideroso di filosofare;
11: la filosofia in quanto attività riconosce, come “gesto essenziale”, non l’ “insegnare” bensì il “dialogare”; il suo ambiente prediletto non più il recinto protetto delle aule e delle biblioteche, ma il mondo della vita come si svolge per le strade e per le piazze (“tracce di questa claustrofobia teoretica […] si trovano facilmente in Kierkegaard, Montaigne, Adorno, Nietzsche, Zambrano, Arendt, Anders ecc.”);
12: ritornare al gesto socratico di esporsi all’imprevedibilità degli stimoli esterni, pubblici, implica la riapertura di una “platea” di interlocutori potenzialmente infinita: dunque il passaggio dalla filosofia come patrimonio di pochi privilegiati (da trasmettere a eredi accuratamente selezionati) al filosofare come “bene comune” per chiunque ne voglia fruire.
E’ solo all’interno di questo orizzonte storico-culturale che si possono comprendere, infine, i capitoli quarto e quinto dedicati, in maniera specifica, a chi aspirasse a diventare un filosofo-consulente.
Nel quarto si risponde alla domanda, frequente da parte dei candidati a questo tipo di professione, su cosa bisognerebbe leggere. Comprensibilmente, l’autore si rifiuta di stilare un elenco necessariamente arbitrario e incompleto di titoli. Preferisce, dopo una premessa generale (“Non ci sono filosofi la cui conoscenza sia condizione necessaria o sufficiente per l’esercizio della disciplina”), suggerire “tre categorie” di “testi consigliabili”: una prima, “testi esplicitamente dedicati alla consulenza filosofica”; una seconda, “testi di critici della cultura e dello stile di vita occidentale”, dal momento che “senza il giro mentale a cui Polany, Illich, Pasolini, Foucault, Latouche, Adorno eccetera ci obbligano, difficilmente ci si troverà ad allargare il nostro sguardo sull’oggi a qualcosa in più rispetto a un impianto categoriale comune e asfittico”; una terza categoria, infine, è costituita da autori, come Anders, capaci di “analizzare la forma filosofica del mondo a partire da eventi comuni o da tendenze della società di massa” (nel caso di Anders “un incontro con una pattuglia di poliziotti, una visita in ospedale a un amico, un blackout, la lettura di un fumetto di Superman eccetera”).
Nel quinto capitolo, infine, Miccione affronta la questione della formazione di un consulente filosofico, impresa a suo avviso con “ben poche possibilità di avere successo”. Se infatti il consulente filosofico è prima di tutto ed essenzialmente un filosofo, tale o si è (per fortuna o per disgrazia) oppure è impossibile che qualcuno ci “formi” a diventarlo. “Individui che siano filosofi, non che facciano i filosofi”: come riconoscerli? Perché hanno sviluppato “un habitus mentale, una tendenza a problematizzare, una <<capacità di vedere con tanta forza il più piccolo e inessenziale fenomeno della vita quotidiana sub specie philosophiae>> come scriveva ammirato di Georg Simmel un giovane Lukács”. Dovrebbe essere evidente che “la perplessa riflessione di fronte alla quotidianità non può essere chiamata in azione a nostro piacimento ma fa capo con la nostra, potremmo dire, complessione spirituale”. “Vi è una formazione per fare questo? Certamente, ma essa fa corpo con la vita. La capacità di pensare e guardare filosoficamente si sviluppa leggendo, pensando, parlando, ascoltando, meditando, vivendo. Andando in crisi teorica e uscendone, facendosi domande e non trovando risposte, costruendo un filo filosofico che si affianca e si interseca con la propria vita e con le altre che osserviamo, provando a capire ritornando a distanza di anni su cose che la prima volta si erano celate alla nostra comprensione”. Se tutto ciò è impossibile da costruire in aule, corsi, laboratori, lezioni, seminari, conferenze, giochi di ruolo…” la formazione alla consulenza inizia riconoscendo i consulenti più che formandoli. E’ necessario riconoscere la curiosità per il pensiero, la concettualizzazione, i problemi universali, le categorie e dall’altra parte per gli individui, le loro storie, i mutamenti, le anse e le rapide delle biografie e della storia. Riconoscere la disponibilità a sbagliarsi, a modificare le proprie teorie, a trovare nel mondo un interessante repertorio di occasioni di pensiero, a non aver bisogno di dogmi per sorreggersi nonché a non fare dell’assenza di dogmi un dogma”.
“Ma se il consulente può solo essere riconosciuto e non formato, a che serve la formazione? Direi essenzialmente a tre cose. Tutte e tre poco sintoniche con la finzione dei concetti attuali della formazione”: “la prima è l’occasione di poterlo selezionare il consulente”, di riconoscere il candidato inadatto cercando di tenerlo fuori, per quanto si può, “tanto dalla formazione quanto dalla professione”; la seconda cosa è “creare una pausa di tempo sufficiente” (almeno tre anni) “in cui l’attitudine al pensiero dell’aspirante consulente possa occuparsi del tema del peso e del posto del dialogo filosofico nella vita degli uomini e del suo rapporto con la professione”; la terza cosa è sperimentare, in contatto con consulenti filosofici più anziani, “un luogo (lo spazio della consulenza) dove l’elemento filosofico può esprimersi in piena legittimità”, al riparo dalle “istanze che ci pressano: pragmatiche, operative, economiche, educative, strategiche, ecc.”.
Da queste, sia pur rapide, note si evince come la consulenza filosofica – liberata dalle sue caricature e dai suoi travestimenti – sia una professione tanto necessaria quanto improbabile da praticare. Infatti è proprio nei periodi storici in cui, per una serie di condizionamenti anche esterni si tende a pensare poco, che ci sarebbe maggior bisogno di pensiero; ma, appunto, anche minor consapevolezza di questo bisogno. Chi dovesse intraprendere tale professione per desiderio di arricchimento e/o di affermazione sociale mostrerebbe, già dai primi passi, la sua insipienza. Più saggio (ma di una saggezza differente dal “buon senso” dominante) è intraprenderla sapendo di candidarsi a far parte di una millenaria genia di individui che “viene bruciata, ostracizzata, irrisa, inglobata, temuta, annacquata, depauperata”. Anche se non (ancora ?) sradicata.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com