Natura umana, biotecnologie e poteri economico-sociali sarà il titolo della lezione che terrà sabato 27 aprile 2019, alle ore 9.30, Orlando Franceschelli nell'ambito del Sesto Festival di "Filosofia d'a-Mare" a Castellammare del Golfo (Trapani). A seguire i partecipanti potranno partecipare ai laboratori di "con-filosofia" che Augusto Cavadi, Marta Mancini e Chiara Zanella terranno sul tema della conferenza di Franceschelli.
Il filosofo molisano si è occupato di queste problematiche nella sua ultima pubblicazione di cui riporto, qui di seguito, la mia recensione apparsa sulla rivista on line (gratuita) "Phronesis".
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“Phronesis”, anno 1, Seconda serie, n. 1
Marzo 2019
C’E’ ANCORA UNA DIFFERENZA FRA BENE E MALE?
In dialogo con Orlando Franceschelli
Tra le questioni che più frequentemente vengono proposte a un filosofo consulente da parte di singoli interlocutori, o di piccoli gruppi omogenei di committenti, si registrano senza dubbio le problematiche etiche. Ognuno di noi assorbe, sin dal latte materno, delle convinzioni sulla distinzione fra ciò che è bene e ciò che è male; e le conserva anche a lungo sino a quando persone o avvenimenti non le mettono in crisi. Infatti, se nessuno ci chiede ragione del perché riteniamo un’azione buona e un’altra disdicevole, procediamo determinati come treni su binari ben piantati. Se invece qualcuno ci interroga in proposito si configura un bivio: o interrompiamo, anche violentemente, la comunicazione (compromettendo la stessa relazione interpersonale) o, più raramente, ci mettiamo – talora anche con l’aiuto di un filosofo consulente – alla ricerca dei fondamenti delle nostre convinzioni morali.
Sappiamo che, in questi casi, il ruolo del consulente (almeno in una prima fase della relazione professionale) potrebbe consistere nel sondare nel consultante una qualche forma di coerenza logica fra alcune sue premesse di ordine generale (ontologiche e antropologiche) e le sue conclusioni pragmatiche; solo in una seconda fase , una volta accompagnato l’interlocutore a uscire dalla contraddizione schizofrenica fra alcuni princìpi e alcune conseguenze operative, potrebbe essere opportuno (con il consenso del consultante stesso) risalire al nucleo fondante della sua visione-del-mondo per sottoporla – dialogicamente - a critica. Per far questo, il consulente deve avere una panoramica abbastanza completa degli scenari possibili, almeno nell’epoca contemporanea, in ambito ontologico, antropologico e etico.
Tra questi scenari occupa un posto di rilievo – sia dal punto di vista della diffusione sociologica sia soprattutto dal punto di vista della consistenza teorica – la prospettiva “naturalistica” che, dopo Spinoza e Feuerbach, ha trovato delle conferme sperimentali formidabili nella biologia evoluzionistica darwiniana. Ed è all’interno di questa (per altro variegata) angolazione filosofica che Orlando Franceschelli, preoccupato da possibili derive relativistiche in senso nichilistico, propone la sua teoria etica nel recentissimo In nome del bene e del male. Filosofia, laicità e ricerca di senso (Donzelli, Roma 2018, pp. 189, euro 17,00). Il suo pensiero, limpido ma profondo, mi stimola a una triplice operazione: sottolineare l’impianto metodologico della ricerca; richiamare i tasselli principali cui essa perviene e che, insieme, costituiscono un quadro logicamente coerente; quindi, in un terzo momento, sollevare alcune riserve sulla sua prospettiva ontologica e antropologica di partenza.
L’impianto metodologico mi sembra particolarmente congeniale all’approccio di un consulente filosofico che, pur nel rispetto pregiudiziale per tutte le idee del consultante, deve aver chiara (almeno dentro di sé) la differenza fra teorie “plausibili” e teorie manifestamente inverosimili. E appunto a una “epistemologia della plausibilità” (pp. 49 - 50) si appella Franceschelli, intendendola come “sinergia tra filosofia e scienza” ossia come produzione di “valide argomentazioni razionali” senza “entrare in conflitto con l’attuale visione scientifica del mondo” (p. 50): epistemologia a cui “non può non accompagnarsi anche una pedagogia della plausibilità, ossia la laica disponibilità al dialogo e a rivedere la propria visione del bene e del male – nonché la condotta pratica che essa ispira – ogni volta che ci si trovi di fronte a evidenze empiriche o ad argomentazioni prima sconosciute o scarsamente considerate” (p. 50).
Con queste premesse di metodo, l’autore entra nel merito delle questioni prendendo l’avvio dalla prospettiva ontologica e delineando, in proposito, due scenari principali.
Il primo è dominato dal “principio creazione” (p. 15): le cose sono “creature” che devono a un Essere creatore l’esistenza, la quale è in se stessa un bene. Di conseguenza “anche le nostre valutazioni di bene e male devono confrontarsi con i valori e i fini che il creatore, secondo il suo provvidenziale disegno, ha incorporato nella stessa realtà empirica dell’universo” (p. 16).
Il secondo scenario è dominato dal “principio natura” (p. 17): le cose sono “indipendenti da ogni potere e disegno della mente-volontà di un agente soprannaturale” (ivi) e in esse, generate dalla natura e soggette a “inesauribile divenire” (pp. 17 – 18), “non è inscritto o incorporato alcun valore morale e alcun senso-fine ultimo” (p. 17).
All’interno delle grandi prospettive onto-cosmologiche troviamo, come caso particolare, la questione antropologica. A proposito della quale l’autore riprende la contrapposizione fra ottica naturalistica (secondo cui gli esseri umani sono “una delle tante forme di vita […]emerse dallafucina cosmica che è al di là del bene e del male”, p. 31) e l’ottica teistica (secondo cui essi non sono effetto accidentale dell’evoluzione cosmica ma rientrano a pieno titolo nel “provvidenziale disegno” del Creatore).
Poiché l’autore si riconosce all’interno delle concezioni naturalistiche sia in ontologia che in antropologia, le conseguenze etiche che gli interessano non derivano dal “trinomio Dio-uomo-mondo” bensì dal “binomio mondo-uomo” (p. 17): e si tratta di conseguenze assai lontane dal nichilismo rinunciatario o, peggio, aggressivamente dominatorio (alla Nietzsche). Infatti esse si fondano su due “segnavia” (o “formule imprescindibili”): la prima prescrive di procedere “al di là del bene e del male soprannaturali e naturali, ossia al di là di ogni concezione di entrambi condizionata da prospettive teologiche o antropomorfiche” (p. 35); la seconda – che integra dialetticamente la prima – prescrive, spinozianamente, che “bonum et malum retinenda sunt” (p. 37). Dunque: “male e bene non esistono veramente: non si trovano in qualche cielo metafisico e non sono incorporati nella realtà naturale (prima formula). Essi però a noi esseri umani appaiono come tali, ossia per noi costituiscono un problema che non possiamo non affrontare (seconda formula)” (p. 38).
Come homines sapientes abbiamo a disposizione “empatia e ragione” (p. 63) grazie al cui connubio ci è possibile individuare quegli atteggiamenti, personali e collettivi, atti a “contrastare la fonte del sommo male morale (l’indifferenza verso la sofferenza) e a far fiorire il sommo bene terreno (la possibile felicità di ogni essere senziente)” (p. 77). Franceschelli stesso dedica tutta la parte construens del suo denso testo ad esemplificare come “l’identificazione del bene con la felicità possibile e del male con l’indifferenza verso la sofferenza” potrebbe contribuire ad affrontare alcune scottanti questioni del nostro tempo: “dignità e diritti degli esseri senzienti; utilizzazione della crescente potenza della tecnica, a cominciare dalle bio-tecnologie; solidarietà samaritana verso chi soffre; cooperazione a favore dei beni comuni, incluso il godimento di quello che certo rientra tra i più preziosi e feriti: la bellezza in ogni sua manifestazione” (p. 83).
Pur se brutalmente sintetizzato (anche per lasciare nel lettore della recensione la curiosità di fruire direttamente delle sue pagine) il discorso di Franceschelli suscita riflessioni, perplessità e obiezioni che proverò a esternare nello stesso atteggiamento di concordia (convergenza di cuori pensanti !) di cui egli dà ancora una volta testimonianza[1].
La mia prima considerazione riguarda il passaggio dal “trinomio Dio-uomo-mondo” al “binomio mondo-uomo” (p. 17): questo “congedo”, che non ha nulla di nostalgico, anzi viene designato anche come “affrancamento” e “emancipazione” (termini tutti che non gettano una luce molto favorevole sul termine a quo), da cosa è giustificato? Anche in questo testo, come nei precedenti, mi pare di cogliere nell’autore un’oscillazione fra due posizioni: sembrerebbe da una parte che in omaggio al suo “scetticismo” consideri le due teorie ugualmente “plausibili”, ma dall’altra che la teoria teistica lo sia assai scarsamente e la teoria a-tea molto di più. Mi chiedo quanto siano compatibili scetticismo e ateismo: non costituisce quest’ultimo una posizione un po’ troppo ‘forte’ per uno ‘scettico’ (proprio come lo sarebbe, d’altronde, il teismo creazionistico)? Poiché escludo che in un filosofo si possano dare preferenze davvero immotivate, quasi dogmatiche[2], avanzo un'ipotesi esegetica: Franceschelli, acuto e stimato studioso di Karl Löwith, registra quasi come incontrovertibile l’orientamento ateo del pensiero moderno dopo Spinoza, Hume, Feuerbach e Nietzsche.
Se questa mia spiegazione fosse fondata, mi sorgerebbero due perplessità. La prima riguarda una questione di fatto, storica: nel pensiero moderno troviamo orientamenti altrettanto rilevanti, ma non certo atei, come Cartesio – Locke- Voltaire - Kant – Hegel – Schelling- Jaspers. La seconda perplessità è di principio: se Franceschelli fosse storicista, potrebbe esonerarsi dalla fatica di giustificare il suo ateismo appellandosi al principio che lo sviluppo storico è di per sé evoluzione teoretica. Ma egli, che da decenni si è lasciato consapevolmente alle spalle il marxismo, si vieta da sé il ricorso (sia pur tacito) al criterio della verità come figlia del tempo.
La problematica, dunque, appartiene per intero al piano teoretico-ontologico: il principio natura (p. 17) è davvero più convincente del principio creazione (p. 15)? Sarebbe ridicolo affrontare in questa sede l’interrogativo. Posso solo accennare ad alcune considerazioni per cui lo ritengo tuttora legittimo. Come vedo attualmente le cose, l’universo è una sorta di frutto maturo in evoluzione (per certi versi) e in deperimento (per altri versi). Le scienze hanno il diritto/dovere di indagare questo dato empirico, osservabile, misurabile, nella speranza di darci delle risposte a domande tutt’ora aperte (sull’età del cosmo, sulle sue dimensioni quantitative, sull’eventuale esistenza di cosmi paralleli…). Gli esseri umani possiamo fermarci a questo approccio fenomenologico, descrittivo; oppure sporgerci su una domanda meta-scientifica: perché questo universo, o questo eventuale pluriverso, esiste anziché no? E’ la domanda di chi guarda wittgensteiniamente il mondo come una noce racchiusa nelle mani di un bambino e si chiede, con Leibniz e con Heidegger, come mai esista qualcosa anziché il nulla.
A questa domanda si può rispondere, come opportunamente ricorda Franceschelli, in almeno due modi alternativi[3]: il mondo è “creatura” (la sua esistenza “dipende necessariamente dalla scienza, potenza e benevolenza di un padre celeste”) (p. 15) oppure è ”natura” (“la totalità cosmica è una realtà generata spontaneamente da madre natura”) (p. 17)[4]. Ciò che mi preme notare, innanzitutto, è che entrambe queste risposte sono filosofiche. Nel discorso di Franceschelli mi pare adombrata un’illusoria differenza fra chi fa metafisica (qualsiasi forma di teismo) e chi non la fa (qualsiasi forma di ateismo), laddove sono convinto che affermare che la “natura” sia evidente non implica che lo sia il “naturalismo”. In altri termini: che la natura sia è un dato evidente, che esista-solo-la-natura è una tesi metafisica esattamente come la tesi che non-esiste-solo-la-natura (uso l’aggettivo metafisico come sinonimo di ontologico, non di sopra-naturale; forse sarebbe meglio sostituirlo con intra-fisico). Aggiungo che ciascuna di queste due tesi comporta serie obiezioni e aporie, ma – appunto – ciascuna delle due (e non la tesi creazionistica soltanto). Come conciliare una qualche intenzionalità benevola nell’ipotetico Fondamento assoluto dell’universo con la marea incontenibile di sofferenze constatabili dappertutto ?[5]E, però, d’altra parte, dire che “la totalità cosmica […]è generata spontaneamente da madre natura” (p. 17) non significa affermare che il mondo (per ipotesi privo di autocoscienza e di intenzionalità) è il Fondamento assoluto di se stesso, dal cui nocciolo caotico per un gioco di improbabilissime probabilità si è evoluto questo cosmo e, in esso, si sono configurati del tutto casualmente animali autocoscienti e progettanti come gli esseri umani? Qui il vocabolario consueto non ci supporta più. Se si adotta un’angolazione ontologica, secondo cui tutto ciò che è è evocabile come “essere”, l’ambito della natura percepibile certamente è; ma si spiega da sola o possiamo – se non addirittura dobbiamo – ammettere che esista un ambito non sopra-naturale, ma super-naturale, iper-naturale, che rientri esso stesso nel grande mare dell’essere ?
Senza inoltrarmi in una diatriba millenaria, mi limito a segnalare un’implicazione fondamentale: a differenza di quanto sostiene l’autore, in entrambe le prospettive metafisiche il cosmo fisico si svolge su un registro “extramorale”. Per chi crede in un Dio come per l’ateo, la pioggia che cade sui campi aridi non è più “buona” del fulmine che incenerisce un contadino. Ma allora che farsene dell’adagio tomistico del bonum et ens convertuntur (“l’esistenza delle cose è in se stessa un bene”)(p. 16)? Qui si tratta del bene ontologico che non va confuso con il bene morale. Nerone o Hitler in quanto esseri viventi, pensanti, volenti…sono un quid positivo: costituiscono un bonummaggiore, ad esempio, di una pietra. I loro pensieri, i loro sentimenti, le loro azioni…valutati non in sé stessi, ma in relazione al resto dell’umanità, sono condannabili: moralmente un malum.La vita biologica, piscologica, intellettuale è sempre una ricchezza preziosa (Hegel ha scritto in proposito pagine efficaci), un “bene” “al di là”, o meglio “al di qua”, del “bene e del male” in senso etico. Con un’immagine (forse claudicante): tutto nell’universo è preferibile al nulla, se si prescinde dal rapporto con gli uomini; tutto, invece, diventa preferibile o meno al nullain relazione all’uso che gli esseri umani ne possono fare. L’energia atomica è ontologicamente una risorsa e moralmente neutra: solo l’uso tecnologico e politico la può rendere moralmente valutabile. Se queste mie considerazioni – che ritengo del tutto in linea con la costante tradizione giusnaturalistica, anche cristiana – sono valide esse fondano la possibilità, anzi la imprescindibile necessità, di un confronto paritetico sulle questioni morali tra “creazionisti” e “naturalisti”: quale che sia il loro pensiero in ontologia, sono ugualmente disarmati di fronte alle sfide etiche. Per nessuno dei due esistono, in sede di giudizio morale, “i valori e i fini che il creatore, secondo il suo provvidenziale disegno, ha incorporato nella stessa realtà empirica dell’universo” (p. 16). Che da un accoppiamento eterosessuale possa generarsi una nuova vita è, in sé, sempre e comunque un bonum: se, quando, per quali ragioni, a che condizioni sia moralmente un bonum o un malum interrompere lo sviluppo di uno zigote (o di un embrione) è una questione che va affrontata con gli strumenti della ragione dialogante, a prescindere dalle proprie convinzioni teologiche e/o metafisiche[6].
Se l’etica è, come sostiene Luigi Lombardi Vallauri, “a-tea” (nello stesso senso in cui lo è la matematica) – almeno sin quando si tratta di determinare le norme della convivenza civile, senza arrivare alla eventuale fondazione ultima delle stesse – non altrettanto si può dire della sua autonomia rispetto all’antropologia: le nostre etiche, infatti, sono strettamente legate alle nostre concezioni (filosofiche) dell’essere umano. E anche da questa angolazione ritorna l’alternativa tra teismo creazionistico e naturalismo immanentistico.
Darwin insegna che l’essere umano è il risultato di un’evoluzione dovuta all’intreccio di mutamenti genetici accidentali e di condizioni ambientali favorevoli; a questa tesi le religioni monoteistiche hanno, tradizionalmente, opposto la convinzione che la comparsa dell’uomo fosse il fine dell’universo e di tutte le possibili specie viventi. Personalmente ritengo che simile convinzione teologica, alla luce delle conoscenze astronomiche e astrofisiche attuali, sembra davvero assai poco sostenibile, se non addirittura risibile. Ma negare ogni delirio antropocentrico significa, necessariamente, optare per la tesi che siamo frutto del “caso” e della “necessità”? Che solo una fortuita concatenazione di incidenti nel percorso biologico abbia portato qualche ameba a diventare progenitore di Michelangelo, di Shakespeare e di Beethoven ? Che gli animali respiriamo, comunichiamo nell’intesa e nella lotta, ci riproduciamo… solo per una concatenazione di fattori imprevedibili grazie ai quali la temperatura atmosferica si è attestata in un range tale da non sopprimerci per l’eccesso di freddo e da non soffocarci per l’eccesso di caldo? Grazie ai quali troviamo nel pianeta di che sfamarci e di che dissetarci? Non ci vuole troppa “fede” per credere questo? Ovviamente non si tratta di mettere in discussione le acquisizioni (per la verità sempre riviste e precisate) delle scienze positive: si tratta solo di non trarre da esse delle conclusioni di carattere filosofico complessivo che le stesse non giustificano o, per lo meno, non impongono. Non conosciamo ancora i confini dell’universo né la sua origine (se ne ha avuto una) né la sua fine (se ne avrà una): come possiamo pretendere di pronunciarci sulle strategie di un Essere che, se dovesse esistere, sarebbe l’Origine e il Fine dell’intero cosmo? Tra le constatazioni empiriche vediamo la ferita di un dito che si rimargina con regolarità impressionante: senza invocare teorie generalissime (l’universo sarebbe intellegibile se non corrispondesse a una qualche forma di Intelligenza originaria? [7]) possiamo negare che ci sono enti non-intelligenti che si comportano intelligentemente? Hans Jonas è convincente solo quando mette in crisi le teodicee tradizionali o non merita neppure una confutazione quando sottolinea l’intrinseco finalismo di ogni ente ‘naturale’? E, più globalmente, era del tutto ingiustificata la convinzione di Aristotele che solo il più(un Essere già compiuto, in atto) può spiegare il meno(la tendenza di un ente ancora abbozzato, in potenza, a maturare)? Che è la gallina a dare senso (direzione) all’uovo e non viceversa?
In una prospettiva contemporanea la questione può anche essere riformulata in altri termini: è pacifico ammettere che “noi esseri umani” siamo “una delle tante forme di vita” “emerse dalla fucina cosmica che è al di là del bene e del male” (p. 31)? So che questa è la narrazione ormai quasi unanime nel mondo degli scienziati: ma a me continua a far problema l’idea che il Tutto ignori una sua parte; sia incapace di accorgersi di ciò che avviene in una sua microscopica concretizzazione (nell’essere umano, intendo). Mi continua a interrogare la teoria che il Tutto sia solo Natura priva della consapevolezza, ma che, in un qualche remoto angoletto del suo stesso tessuto, stia emergendo un ente dotato di autocoscienza e di autodeterminazione. Se si risponde che è proprio nell’uomo che la Natura prende consapevolezza di sé, avremmo il paradosso di una Natura (a-morale) che, almeno in un punto, si manifesta come dotata di senso morale: il paradosso di una madre, né benevola né malvagia (cfr. p. 23), che partorisce un figlio al quale s’impone “ineludibile” (p. 33) la domanda sulla benevolenza e sulla malvagità. Se, invece, si ritiene che l’essere umano costituisca non una manifestazione qualsiasi della Natura extra-morale bensì un novum unico, assoluto, che emerge dalla storia evolutiva inaspettatamente e ingiustificatamente, ci troviamo col rischio di esaltare la nostra condizione antropologica ancor più di quanto lo facesse l’antropocentrismo ebraico-cristiano. Personalmente sono proclive a ipotizzare (proprio per rendere conto dei dati esperienziali a noi evidenti) che la nostra specie sia una delle innumerevoli spie, più o meno luminose, sparse nell’universo, rivelanti che la Natura sia un orizzonte penultimo; che il Tutto (l’Intero dell’Essere) abbracci la Natura (visibile e misurabile) ma non si esaurisca in essa. Nel vocabolario di Eraclito, “il sapiente sa che la natura è armonia visibile-conoscibile e insieme segno dell’invisibile; non confonde in uno la distinzione; non pecca di hybris pensando che la propria umana saggezza possa disvelare il ‘proprio’ della natura. Ma può far-segno a ‘ciò’ di cui la natura, nella sua manifesta armonia, è segno. Il sapiente non nasconde il nascondimento, né discorsivamente può conoscerlo, ma lo ri-vela,lo mostra appunto come tale, nel farne-segno, semainein.Allora nella sua trama il discorso giunge alla massima tensione: tra conoscenza chira, saphes, e oscurità”[8]. Nel vocabolario di Giordano Bruno direi: che la natura naturata sia la faccia a noi conoscibile della natura naturante. Per riprendere la metafora materna: che, attraverso la maternità della Natura, operi una maternità ancora più radicale che designiamo, approssimativamente, con il termine “Dio” (del quale, ci avverte Tommaso d’Aquino sulla scia della teologia negativa, sappiamo ciò che non è piuttosto che ciò che è). In questo scenario, come il frutto di ogni albero saremmo interamente e veramente prodotti dal ramo (la Natura) e interamente e veramente prodotti dal tronco (Dio). Insomma: non riesco, ancora (?), a staccarmi dalla supposizione (così poco cara a Nietzsche e a Franceschelli) di un “retromondo” che dia ragione di alcuni enigmi del “mondo”; di un “mondo noumenico” che dia ragione dei “mondi fenomenici”; di una Bellezza assoluta che dia ragione delle bellezze relative che, certo, vengono riconosciute solo perché esistono esseri capaci di “conoscenza sensibile” (cfr. pp. 114 e ss.), ma che non potrebbero essere riconoscibili se non possedessero delle caratteristiche ontologiche intrinseche (al punto che non pochi pensatori hanno considerato il pulchrum come il quarto trascendentale, accanto a ens, verum e bonum)[9].
Se, dopo aver messo fra parentesi la questione ontologica, sospendiamo (provvisoriamente) anche la questione antropologica, arriviamo alla tematica specifica di questo libro di Franceschelli: l’etica. Qui distinguerei due piani. A un primo, fondamentale, livello (qualcuno direbbe meta-etico) ci si potrebbe chiedere con che coerenza teoretica si possa parlare di “male morale” (p. 34) in una prospettiva naturalistica in cui ogni vivente – dunque anche l’essere umano – appaia una manifestazione delle leggi (o dell’anomia caotica) della Natura: in virtù di quali argomentazioni le “passioni” e le “azioni” umane sarebbero diverse dalle azioni e dalle passioni di una pianta o di una belva? Perché, a differenza di queste ultime, le prime sarebbero valutabili con criteri morali (e non soltanto giuridiche: se mordi ti metto la museruola, se picchi le donne ti metto in prigione)? Ma così non usciamo dall’angolazione della questione antropologica: la ritroviamo dal punto di vista della libertà e, dunque, della responsabilità etica. C’è però un secondo livello, meno radicale, in cui possiamo parlare di etica: il livello della dialettica sociale fra pensanti. Qui l’approccio di Franceschelli mi pare molto convincente: mettiamo fra parentesi ciò che ci separa (concezioni teologiche, teorie ontologiche, visioni antropologiche) e appelliamoci, quasi a un minimo comune multiplo, a quello che ci unisce al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Mi permetterei solo di avanzare un’ultima obiezione e di suggerire un’ultima precisazione.
L’obiezione. Il pensatore cattolico Romano Guardini, che per altro stimo molto, ha accusato di “slealtà” quei pensatori esterni alla tradizione biblica che avrebbero abusivamente tradotto la Rivelazione in “valori cristiani secolarizzati”[10]; e Franceschelli sembra d’accordo con lui, al punto da voler prendere esplicitamente le distanze da questo genere di abusivi. Questo modo di vedere le cose si basa su alcuni presupposti che mi sembrano oggi, anche alla luce della storia delle religioni e della teologia delle religioni, ingiustificabili: primo fra tutti il presupposto che la Bibbia sia proprietà esclusiva di chi l’ha scritta, di chi l’ha tramandata e di chi l’accoglie come Parola di Dio in senso unico e incomparabile. A mio avviso, la Bibbia - che contiene pagine altissime e pagine bieche – è inspirata (nelle pagine altissime) dallo Spirito divino esattamente come lo sono (nelle pagine altissime) la Bhagavad Gita, i Dialoghi platonici, il Corano, le liriche di Leopardi, i discorsi di Gandhi e di Martin Luther King: e come tutte queste – e simili opere somme dell’umanità – appartiene all’intera umanità. Può un cristiano, rimanendo tale, prendere in prestito un’intuizione di Lucrezio o una teoria di Marx o una riflessione antropologica di Nietzsche senza essere tacciato di slealtà o di appropriazione indebita? Perché a un non-cristiano dovrebbe essere vietato fare altrettanto con qualche intuizione di Gesù o con qualche riflessione antropologica di san Paolo?
E, per finire, arrivo alla precisazione. La virtù (sacrosanta ?) della laicità implica certamente il riconoscimento del “pluralismo” come “un dato di fatto da affrontare rispettando la libertà, le ragioni e i valori dell’altro” (p. 129): ma “rispettare” la libertà altrui è da intendere nello stesso senso in cui diciamo “rispettare” le ragioni e i valori altrui? Sono decisamente convinto di no. Non sarei intellettualmente ed esistenzialmente ciò che sono se non avessi vissuto in un contesto antropologico, sociale e politico in cui è stata – quasi sempre – rispettata la mia “libertà”; ma non lo sarei neppure se non fossero state assai poco rispettate molte mie “ragioni” e non fossero stati contestati molti miei “valori”. Da queste critiche distruttive sono uscito o rafforzato nelle mie convinzioni o, più spesso, liberato da pregiudizi ed errori. Qualche volta, supponendo negli altri il medesimo desiderio di confronto radicale (che non solo non esclude, ma al contrario presuppone una solidarietà cor-diale con il portatore sano di teorie insane), ho incontrato reazione amareggiate e amareggianti: ma non vedo alternative.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
[1]Forse non è superfluo precisare che esporrò opinioni del tutto personali che non pretendono di coinvolgere nessuna corrente di pensiero e nessuna chiesa. Infatti sono stato affettuosamente citato dall’autore (a p. 161) come “filosofo e credente”: ma, soprattutto nel contesto culturale italiano, è molto facile essere confusi con certi modi di filosofare, e ancor più di credere, in cui non mi riconosco per nulla.
[2]Costretto dalla sinteticità dell’esposizione qualche volta l’autore dà l’impressione di un’eccessiva sbrigatività sulla tematica, come quando scrive: “E tuttavia, proprio se non siamo interessati a tornare prima di Nietzsche, ossia al trinomio Dio-uomo-mondo”…(p. 48). C’è una notevole differenza, filosoficamente impegnativa, tra essere “interessato” a una questione (ogni pensatore ne esclude tantissime dal suo orizzonte) e ritenere che quella determinata questione non sia, in sé, interessante.
[3]Forse in questa sintesi sto forzando il pensiero dell’autore perché egli, piuttosto che esaminare alcune risposte a questa domanda, mette in discussione proprio la legittimità della stessa: una domanda che, “essendo condizionata alla radice dal principio creazione”, “non può costituire neppure la domanda fondamentale della stessa filosofia” (p. 162). Se, come Franceschelli, si intende “principio creazione” in senso lato, sostenendo dunque che risale a Platone (seguito a ruota, almeno sulla domanda teologica, da Aristotele), ci troviamo in una strana situazione: di non poter considerare “fondamentale” (magari non “la” domanda fondamentale della filosofia , ma “una delle” domande fondamentali della filosofia) una questione che è stata ritenuta tale da quel pensatore a proposito del quale “non si è mancato di affermare che tutta la filosofia successiva” “sarebbe poco più di un commento alla sua opera e alla versione demiurgica del principio creazione” (p. 130). Sorge dunque il sospetto che le riserve verso questa domanda siano “condizionate” pregiudizialmente dall’adozione del “principio natura”.
[4]Sembrerebbe che per l’autore questo ”naturalismo” sia un ritorno alle origini del pensiero filosofico (“una natura ormai tornata a essere effettivamente sine Deo,ossia la ‘natura creatrix’ e ‘affrancata da padroni superbi’ (dominis privata superbis) descritta da Lucrezio sulla scia di Epicuro e Democrito”) (p. 23): sarebbe interessante chiedersi se la polemica contro il politeismo antropomorfico popolare, operata dai pensatori citati, li abbia condotti davvero lontano da qualsiasi ipotesi di “divino”, fosse pure il panteismo dei primi pensatori greci (da Talete a Senofane e Parmenide). Insomma: sarebbe interessante chiedersi se il “naturalismo” odierno sia davvero una rinascita del “naturalismo” pre-cristiano, impregnato di un senso del sacro da cui oggi ci si guarda come da un fattore inquinante . Secondo Giorgio Colli, ad esempio, è possibile affermare che “tutta la sapienza di Eraclito sia un tessuto di enigmi che alludono a un’insondabile natura divina. Si tratta del tema dell’unità dei contrari. Si è detto che l’unità, il dio, il nascosto, la sapienza sono designazioni del fondamento ultimo del mondo. Tale fondamento è trascendente. Dice Eraclito: <<Nessun uomo, tra quelli di cui ho ascoltato i discorsi, giunge al punto di riconoscere che la sapienza è separata da tutte le cose>>” (La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 2002, p. 68). Comunque, anche se il naturalismo greco fosse materialistico, noi oggi siamo indotti – o addirittura costretti – dalla fisica post-newtoniana a chiederci se la “natura” sia sinonimo di “materia” (e, nel caso lo si possa affermare, se - più radicalmente - il costitutivo primigenio della “materia” sia tale nel medesimo senso in cui abbiamo usato questo semantema da Platone e Democrito sino a Feuerbach e Comte o non consista, piuttosto, in una “energia” tutta da determinare).
[5]Franceschelli dedica a questo nodo cruciale di ogni creazionismo le pp. 24 – 28. Il mito della cacciata di Adamo e Eva dal Giardino originario è chiaramente inutilizzabile, come ha fatto sant’Agostino e dopo di lui moltissima teologia, per spiegare la presenza del male “fisico” nell’universo. Se esso rimane tra i più “tenaci” e “diffusi” (p. 25) – nonostante che “la visione della sofferenza come espiazione di una colpa” sia “ormai messa apertamente in questione anche da non pochi teologi” (p. 29) - a mio parere dipende dal fatto che tale mito, invalido come strumento di spiegazione di ogni sofferenza e di ogni dolore, tuttavia getta una luce istruttiva sul legame fra alcuni errori umani ed alcunesofferenze (nella vita dei colpevoli e soprattutto di altri incolpevoli). Anzi, a parere di numerosi esegeti contemporanei, il racconto biblico più che protologico, rivolto al passato, è escatologico, rivolto al futuro: vorrebbe, poco teoreticamente e molto praticamente, suggerire che l’umanità abiterebbe in un paradiso terrestre se vivesse la lealtà, la trasparenza, la solidarietà.
[6]Cito una pagina in cui mi sono imbattuto, quasi casualmente, proprio in questi giorni: “L’analisi razionale della ‘natura’ è un principio al quale il pensiero cristiano ama riferirsi e si sa quanto frequente è stato il ricorso alla cosiddetta ‘legge naturale’ nelle questioni etiche: vedi l’etica tradizionale, che condanna come ‘contrari alla natura’ alcuni comportamenti. Questo principio va sottoposto a un’attenta riflessione critica, perché l’utilizzazione di questo criterio è talora avvenuta con accentuatissime forme di assolutismo, quasi che le leggi naturali consistano in un prontuario preciso di precetti specifici e immutabili, deducibili dalla ‘natura’ stessa. Si tratta, invece, di un criterio complesso, che tiene conto di tutta la realtà del creato nella varietà e complementarietà dei suoi elementi strutturali e si tratta soprattutto di un criterio dinamico, quanto evolutiva e dinamica è la realtà del creato. La natura cioè non è una realtà compiuta e finita (entelechia), ma è soggetta a fondamentai processi di sviluppo e di evoluzione. Ciò vale non solo nel senso che si evolve la conoscenza che l’uomo ha della natura e dell’universo, ma nel senso più profondo che la natura stessa viene evolvendosi secondo processi di perdita e assunzione di dati, che la conoscenza e la scienza di volta in volta colgono, sceverano e propongono. Entro questi processi dinamici è possibile attribuire qualche significato permanente alla natura? Senza dubbio, ed è quanto anche il pensiero teologico cerca di fare, ma non già riflettendo su un ‘ordine naturale’ sentito e difeso come immutabile, ma partendo dall’autocomprensione che gli uomini hanno della natura in quel momento e luogo e confrontandola, quanto è possibile, con quella di altri tempi e luoghi. E’ questo il solo modo di riferirci alla natura, alle sue leggi; dobbiamo affidarci criticamente alla cultura in cui hic et nunc siamo immersi, utilizzando ad esempio i risultati a cui pervengono nel nostro caso l’insieme delle discipline biologiche (come la sociobiologia, la fisiologia, l’anatomia comparata, le neuroscienze, l’etologia, la zooantropologia)” (Gianfranco Nicora, Anche gli animali pregano, Messaggero, Padova 2018, pp. 17 – 19).
[7]Come è noto (l’autore lo ricorda a p. 40) questa intrinseca intellegibilità del cosmo induceva Einstein a una forma di “religiosità” a -confessionale.
[8]M. Cacciari, Filosofia e tragedia. Sulle tracce di Carlo Diano, Introduzione a C. Diano, Il pensiero greco da Anassimandro agli stoici, p. 14.
[9]A questo proposito tengo a precisare che la tesi platonica (di Platone e dei platonici) sul rapporto fra bellezza terrena e bellezza sovra-terrena (differenza che non coincide con naturale e soprannaturale: ho sempre capito che per Platone e i platonici la dimensione divina fa parte della Physis,anzi le “idee” sono le matrici ontologiche che rendono ciò che sono gli enti naturali) non mi sembra che sia sintetizzabile nella frase: “la (falsa) promessa di felicità di cui, secondo i platonici, è portatrice la bellezza terrena” (p. 131). Che per alcuni platonici, come Agostino (specie da anziano), sia così è probabilissimo; ma, in generale, ho sempre inteso la questione nel senso che la bellezza terrena è una promessa attendibile della felicità assoluta, promessa che diventa falsa (cioè deludente) qualora tale felicità assoluta la si attenda esclusivamente dalla bellezza terrena (goduta nel tempo) e non dalla Bellezza assoluta (goduta intermittentemente nel tempo e definitivamente nell’eternità). Trovo la teoria dell’amore platonico, come Socrate la espone nel Simposio,di un realismo ineccepibile.
[10]Cfr. pp. 155 – 156.
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