“Le nuove frontiere della scuola”
Anno XVI, n. 49, febbraio 2019
LA RECIPROCITA’ COMUNICATIVA IN OGNI INIZIATIVA DI EDUCAZIONE ALLA LEGALITA’
Pochi ambiti d’intervento pedagogico-didattico si prestano a (noiosa) retorica più dell’educazione alla legalità[1]. Le attività che si svolgono in questo campo risultano inutili nei casi migliori, dannose negli altri. Infatti l’overdose di omelie civili cui vengono sottoposti gli alunni – tranne lodevoli eccezioni – sin dalla scuola primaria, li rende insofferenti a ogni proposta del genere anche nelle scuole secondarie.[2]E’ dunque urgente ipotizzare e sperimentare forme alternative di coinvolgimento degli allievi. Nessuno ha ricette miracolose in tasca, ma almeno un criterio metodologico e pedagogico di fondo andrebbe adottato con rigore inflessibile: la reciprocità comunicativa. Già nelle attività “istruttive” la trasmissione unilaterale dei contenuti disciplinari si rivela claudicante: una cosa è dettare la traduzione di un testo latino, o la soluzione di un’equazione, alla classe e tutta un’altra cosa è guidarla nel processo di traduzione, o di soluzione algebrica, a partire dalle ipotesi (ovviamente spesso errate) suggerite di volta in volta dai ragazzi. Questo metodo inventivo e costruttivo, che parte dalle opinioni degli alunni e le sottopone – in clima di serena ricerca collaborativa – al vaglio della critica argomentata (sia da parte dei compagni che degli insegnanti) mi pare non solo preferibile, ma irrinunciabile, quando si ardisce passare dal piano dell’istruzione al piano dell’educazione. Se non si vogliono formare né ribelli seriali né ovini passivi, i princìpi valoriali e comportamentali in una comunità devono essere “scoperti” (o – in altra prospettiva – “concordati”) in assetto di riconoscimento reciproco della dignità di esseri umani pensanti, prescindendo dunque da altri ruoli istituzionali che possono , e devono, pesare in altri momenti del processo educativo (per esempio quando si tratta di penalizzare quanti, giovani o adulti, mostrano con i fatti di non rispettare le norme negoziate).
In concreto, direi che le iniziative di educazione alla legalità democratica, più che su conferenze ex cathedra, dovrebbe incentrarsi su laboratori di pratica filosofica intorno al tema[3]; su giochi di ruolo; su spettacoli teatrali con sceneggiature, poesie, canzoni e danze preparate dai ragazzi; sulla costruzione di ipertesti informatici da mettere a disposizione di altre scuole… Senza contare innumerevoli altre metodologie come quelle elaborate all’interno del Teatro dell’oppresso (di Augusto Boal) o i dialoghi maieutici (di Danilo Dolci).
In questa ricerca di nuovi percorsi di comunicazione non può mancare un elemento tradizionale, anche se opportunamente integrato: l’incontro con un protagonista storico della lotta per la legalità democratica. Da quando la scuola si è aperta maggiormente alla contemporaneità questa modalità comunicativa è stata praticata sia con personaggi in carne e ossa (i più anziani ricordiamo gli incontri con magistrati come Borsellino o con prefetti come Dalla Chiesa o con parenti di vittime di mafia come Rita Bartoli Costa o Michela Buscemi) sia con personaggi storici rappresentati sullo schermo (con risultati talora deludenti, talaltra efficaci come nei casi de Il giudice ragazzino di Alessandro Di Robilant, I cento passi di Marco Tullio Giordana e Alla luce del sole di Roberto Faenza).
In che senso questo registro narrativo – di per sé adatto più di altri ad attrarre l’attenzione [4]- va però rivisto e integrato? Perché la storia pura e semplice – raccontata dal vivo o mediante un prodotto audiovisivo – è “materia” preziosa di apprendimento, ma solo “materia” appunto. Essa va “letta”, anzi intus-lecta: va inquadrata in un contesto epocale, va decifrata nei suoi significati riposti, va interpretata criticamente, va applicata creativamente alla propria situazione esistenziale, sociale e politica. Senza un lavoro preparatorio, accompagnatorio e consecutivo, la testimonianza rischia di restare un episodio emotivamente toccante (se a renderla è un protagonista o un congiunto di protagonisti) o, meno ancora, la consumazione banale di un ennesimo prodotto cinematografico[5].
In concreto: l’esperienza di interventi formativi con dirigenti scolastici, docenti e alunni di vari ordini mi attesta che il modulo narrativo va preceduto da un approccio informativo almeno sommario e va seguito, poi, da una libera discussione ermeneutica. Ma così l’occasione formativa non diventa troppo impegnativa per chi la gestisce e soprattutto per chi ne fruisce? Qui bisogna essere chiari: se dei soggetti (adulti o adolescenti) non sono disponibili a questo genere di “complicazioni” è preferibile che si esonerino dalla partecipazione a momenti di educazione alla legalità. La tattica degli interventi a pioggia – “Parliamo, proiettiamo, discutiamo…anche in presenza di maggioranze poco motivate, e ancor meno silenziose: qualche cosa resterà!” – si è dimostrata ampiamente fallimentare quando non controproducente. Se affermiamo nei libri di pedagogia la necessità ineliminabile della libertà nella relazione educativa dobbiamo essere conseguenti: al diritto di apprendere non può non corrispondere il diritto all’ignoranza. E anche nell’ipotesi di alunni motivati bisognerebbe rassegnarsi a lavorare in gruppi non più numerosi di una classe scolastica: le adunate oceaniche, in enormi palestre brulicanti di alunni eccitati dall’idea di evitare qualche ora di lezione curriculare, sono fisiologicamente inconciliabili con qualsiasi processo minimamente serio di apprendimento.
Nella letteratura sull’argomento esiste un lunghissimo elenco di testi adatti a preparare un gruppetto di persone all’incontro con un volto preciso - una storia effettiva - di protagonista dell’impegno per la crescita civile e contro la corruzione. A questa lista benemerita ho voluto dare, con la collaborazione decisiva di alcune amiche e di alcuni amici che stimo, un piccolo contributo. In vista dell’anno in corso (2018), in cui ricorre il 40° anniversario dell’assassinio di Giuseppe Impastato e il 25° anniversario dell’assassinio di don Pino Puglisi, abbiamo preparato degli strumenti bibliografici che fossero utilizzabili da varie fasce d’età. Così per i bambini più piccoli (7 – 11 anni) è uscito un libretto, illustrato da Mirella Mariani e Tiziana Longo, con testi scritti da me insieme a Lilli Genco: Padre Pino Puglisi (Edizioni Il pozzo di Giacobbe). Alla stessa fascia di età Melania Federico e Adriana Saieva, con le illustrazioni di Letizia Algeri, hanno dedicato il loro Tutti in campo. E tu, conosci Peppino Impastato?(Edizioni Navarra). Ancora in collaborazione con Lilli Genco abbiamo edito un testo per i ragazzini (11 – 14 anni), illustrato da Carla Manea: Il mio parroco non è come gli altri! Docu-racconto su don Pino Puglisi (Edizioni Di Girolamo). Per gli studenti delle scuole medie superiori e per gli insegnanti ho pubblicato Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Edizioni Di Girolamo), arricchito da una lettera “postuma”, Caro Peppino, di Maria D’Asaro. Agli stessi lettori, giovani e adulti, è destinato il libro a sei mani (scritto con la collaborazione di Francesco Palazzo e Rosaria Cascio, entrambi - da giovani - amici e collaboratori del parroco di Brancaccio) Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia(Edizioni Di Girolamo), impreziosito dalle testimonianze di due amici del presbitero palermitano: don Francesco Michele Stabile e Salvo Palazzolo. Alcuni di questi testi – soprattutto il libretto concepito per i ragazzini della scuola media di primo grado - sono forniti di un apparato didattico che induca l’adolescente ad allargare lo sguardo dalla biografia circoscritta del protagonista (presentato senza concessioni all’agiografia più o meno leggendaria) alle tematiche più generali: che cos’è davvero il sistema di dominio mafioso, cosa può fare il cittadino “comune” per contrastarlo, quali gesti quotidiani possono “allenare” alla resistenza morale, quali organizzazioni della società civile impegnate statutariamente contro la mafia si possono contattare direttamente o attraverso internet [6].
Sarebbe sciocco presumere che questi strumenti didattici posseggano capacità taumaturgiche: come ogni altro, essi funzionano se chi li adotta è per primo egli stesso convinto della valenza politica del suo ruolo pedagogico[7]. Gli alunni di ogni età intuiscono agevolmente se chi narra una storia lo fa con distacco interiore, per dovere professionale o per curiosità intellettuale, oppure con sincera partecipazione esistenziale: come nel caso di quel rabbino paralitico che (si tramanda), commentando una pagina biblica riguardante una danza gioiosa del popolo ebraico, si infervorò al punto da alzarsi e da mettersi a ballare egli stesso. Racconta veramente solo chi rivive.
Tanto trasporto, per quanto necessario, sarebbe comunque insufficiente. L’educazione alla legalità costituzionale esige, per completezza, un ultimo – più arduo – passaggio: da narratori appassionati di testimonianze farsi testimoni credibili in prima persona. Il mondo della scuola troppo spesso prepara al mondo della vita, ma nel senso deteriore del termine: prepara a subire ingiustizie, ad assistere a favoritismi, a rassegnarsi alle sperequazioni delle opportunità di partenza, a constatare che la furbizia (anche sleale) viene premiata più della saggezza e della lealtà. Quando si danno contesti del genere – e il docente sa di non essere disposto né alla coerenza dei propri comportamenti né ancor meno alla contestazione dell’andazzo complessivo – è meglio rinunziare all’ipocrisia delle liturgie laiche in nome di princìpi etici altisonanti. Senza maestri si cresce molto meglio che con maestri double face.
A scanso di fraintendimenti: nessuno è perfetto né può, dunque, aspettare di diventarlo prima di educare alla cittadinanza consapevole e attiva. Ma una cosa è accettare le proprie fragilità, ammettere i propri difetti, riconoscere i propri errori – senza trincerarsi nella insindacabilità del proprio ruolo di insegnante o di dirigente scolastico o di sindaco o di parroco – e tutta un’altra cosa è stabilizzarsi nella mediocrità, fare del compromesso morale la bussola della propria vita per non rinunziare né ai soldi né al potere, e però anche pretendere dalle nuove generazioni ciò che non si è stati in grado di raggiungere.
Non ci sono scorciatoie. L’etica s’insegna incarnandola, la democrazia s’insegna praticandola, la bellezza della legalità s’insegna facendola sperimentare nel sistema quotidiano delle relazioni educative.
Augusto Cavadi www.augustocavadi.com
[1]Cfr. A. Cavadi, Legalità, Educazione alla in Dizionario enciclopedico di mafie e antimafia, a cura di M. Mareso e L. Pepino,Edizioni Gruppo Abele, Torino 2013, pp. 326 – 328.
[2]Cfr. A. Cavadi, Strappare una generazione alla mafia. Lineamenti di pedagogia alternativa, Di Girolamo, Trapani 2005, soprattutto le pp. 91 – 93.
[3]Cfr. A. Cavadi, Legalità, Di Girolamo, Trapani 2013: il testo, originariamente preparato per incontri di formazione con artigiani e manovali della Filca – Cisl, è stato successivamente sperimentato anche in contesti scolastici.
[4]Una conferma dell’attrattiva esercitata dalla narrazione di storie – vere o inventate – l’ho sperimentata anche nel lavoro con i detenuti: cfr. il mio Filosofare in carcere. Un’esperienza di filosofia-in-pratica all’Ucciardone di Palermo, Diogene Multiemdia, Bologna 2016, specialmente le pp. 17 – 22 e 28 – 40.
[5]Cfr. A. Cavadi ( cura di), A scuola di antimafia, Di Girolamo, Trapani 2006, soprattutto le pp. 287 – 289.
[6]Insomma riprendo, in forma sintetica ed elementare, nozioni e informazioni più ampiamente fornite nei miei precedenti Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa può fare ciascuno di noi qui e subito(Dehoniane, Bologna 2002) e La mafia spiegata ai turisti (Di Girolamo, Trapani 2005).
[7]Sul nesso etica-politica-pedagogia, in una prospettiva di narrazione esperienziale, cfr. A. Cavadi, La mafia desnuda. L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, Di Girolamo, Trapani 2017.
3 commenti:
Particolarmente ispirate queste riflessioni. Grazie.
Quando concordiamo un laboratorio di pratica filosofica per “educare” noi e i nostri studenti verso la legalità democratica?
Grazie Augusto!
Quando vuoi tu. Ma, forse, è meglio che mi comunichi pure il tuo nome...:)
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