“Adista” 29.12.2018
INCONTRARE DIO NELLE PROFONDITA’
Lc 1, 1-4; 4, 14-21
La lettura evangelica di oggi è composta da due brani ben distinti.
Il primo (Lc 1, 1 – 4) è proprio l’incipit del vangelo attribuito a Luca e, nonostante il tono apparentemente distaccato, contiene indicazioni preziose. Intanto fa riferimento a “molti” che, prima di lui, “hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi”: dunque i primissimi secoli hanno conosciuto una pluralità di “vangeli”, ben al di là dei quattro diventati “canonici” e di altri considerati “apocrifi”. Anche se in proporzioni differenti, tutti questi vangeli – tuttora disponibili o perduti del tutto o in parte – contengono elementi ‘storici’ ed elementi ‘teologici’: perciò secondo i criteri storiografici moderni nessuno può essere accolto come oro colato, ma neppure può essere ritenuto completamente inaffidabile. Chi dice che il vangelo secondo Luca, come ogni altro, non è un resoconto in cronaca diretta degli avvenimenti, bensì una re-interpretazione didattica? Luca stesso ! Egli ha intervistato “testimoni oculari fin da principio”, ma nel ruolo di “ministri della Parola” e in vista di una finalità pedagogico-catechetica: “in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto”.
La seconda pericope (Lc 4, 14 – 21) ci pone dinanzi agli occhi un Gesù già adulto, all’inizio della sua missione: nell’atto di
fare outing, o meglio – visto che si tratta di una dichiarazione del tutto spontanea – coming out rispetto alla sua identità messianica. La scena è costruita in maniera teatralmente efficace: un po’ troppo efficace per essere evenemenzialmente ‘vera’ (tanto più se si mette in parallelo con i brani numerosi sul “segreto messianico” che Gesù avrebbe imposto in ogni occasione ai discepoli). Ma ciò che importa all’evangelista – e ai lettori di ogni generazione dopo di lui – è il significato della scena: l’illustrazione di ciò in cui consiste l’essenziale dell’esistenza di Cristo e, dunque, dell’esistenza di quanti intendono fare spazio al messaggio evangelico. Se chiedessimo a un buon parroco di campagna o una suora plurilaureata in teologia o a un docente liceale formatosi sui manuali di storia più diffusi, molto probabilmente avremmo risposte disparate: o moralistico-consolatoria (“Gesù è venuto per rivelarci che ci attende un paradiso se saremo buoni e un inferno se saremo cattivi”); o raffinatamente elaborata (“per coinvolgerci nella koinonìa della circuminsessione intratrinitaria”); o storicistico-convenzionale (“per realizzare il progetto di una nuova religione migliore dell’ebraica”) e così via. Ma se, senza pregiudizi di alcun genere, ci limitiamo ad ascoltare la voce stessa di Gesù (come ci viene proposta in questo brano), la risposta è di una semplicità tanto disarmante quanto impegnativa:
fare outing, o meglio – visto che si tratta di una dichiarazione del tutto spontanea – coming out rispetto alla sua identità messianica. La scena è costruita in maniera teatralmente efficace: un po’ troppo efficace per essere evenemenzialmente ‘vera’ (tanto più se si mette in parallelo con i brani numerosi sul “segreto messianico” che Gesù avrebbe imposto in ogni occasione ai discepoli). Ma ciò che importa all’evangelista – e ai lettori di ogni generazione dopo di lui – è il significato della scena: l’illustrazione di ciò in cui consiste l’essenziale dell’esistenza di Cristo e, dunque, dell’esistenza di quanti intendono fare spazio al messaggio evangelico. Se chiedessimo a un buon parroco di campagna o una suora plurilaureata in teologia o a un docente liceale formatosi sui manuali di storia più diffusi, molto probabilmente avremmo risposte disparate: o moralistico-consolatoria (“Gesù è venuto per rivelarci che ci attende un paradiso se saremo buoni e un inferno se saremo cattivi”); o raffinatamente elaborata (“per coinvolgerci nella koinonìa della circuminsessione intratrinitaria”); o storicistico-convenzionale (“per realizzare il progetto di una nuova religione migliore dell’ebraica”) e così via. Ma se, senza pregiudizi di alcun genere, ci limitiamo ad ascoltare la voce stessa di Gesù (come ci viene proposta in questo brano), la risposta è di una semplicità tanto disarmante quanto impegnativa:
“Portare ai poveri il lieto annuncio,
proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l'anno di grazia del Signore”.
Per decenni uomini e donne (più uomini che donne, per la verità), nutriti da grossi volumi di teologia ed elevati ai vertici dell’unione mistica, mi hanno riempito le orecchie della raccomandazione di non ridurre l’esperienza di fede alla dimensione ‘orizzontale’ dell’attenzione attiva e fattiva verso “poveri”, “prigionieri”, “ciechi” e “oppressi”: ma dove, e come, e quando, e in che termini, Gesù avrebbe proclamato il primato della dimensione ‘verticale’? Forse sarebbe il caso di pensare che c’è un solo modo di sperimentare il divino: l’andare né in verticale né in orizzontale, ma “in profondità”. Dio ci attende nella profondità della nostra anima (di cui nessuno, secondo Eraclito, ha mai misurato i confini); nella profondità dell’universo planetario (in cui siamo immersi); ma, anche e soprattutto, nella profondità della sofferenza (fisica e psichica, morale e spirituale) dei nostri fratelli viventi, umani ma non solo.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Grazie Augusto, anche per i tuoi illuminanti post, che leggo e condivido pienamente.
Mauro
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