17.1.2019
Fenomenologia della banalita’ secondo Davide Miccione
Davide Miccione è uno dei più raffinati e arguti pensatori italiani contemporanei e, per questo, ovviamente, è noto ma non notissimo; comunque molto apprezzato dai non molti che lo conosciamo. Pensiero unico, forse neanche quello. Saggi sul banale contemporaneo (Algra, Viagrande – Ct 2018, pp. 60, euro 5,00) è l’ultimo gioiellino che ho trovato, a sua firma, in libreria. Come l’autore spiega nella Nota bibliografica conclusiva, il volumetto raccoglie tre saggi apparsi in altrettante riviste (di nicchia, aggiungo pleonasticamente) e li presenta con una nota introduttiva in cui – alla luce dell’asserto di Agamben (“il contemporaneo lo si vede solo se non si coincide con esso”) – enuncia il suo principale proposito: posto che, grazie a internet, “il sapere è nudo ed esposto davanti ai nostri occhi ma noi non abbiamo più voglia”, “prendo sul serio il banale che ci circonda e provo a farlo dialogare con i concetti che dovrebbe postulare. Un esercizio a volte divertente, a volte irritante, ma in ogni caso necessario”.
Nel primo saggio, Il terzismo malattia senile del moderatismo, si traccia, appunto, una “fenomenologia del terzismo”: atteggiamento tipico di chi “sa già prima che ci si deve porre al centro, anche a costo di costruire due posizioni uguali e contrarie di comparabile estremismo persino laddove non ve ne siano” (“un po’ come se uno volesse porsi in una equidistanza arbitrale tra lo scippatore e il rapinato sottolineando l’aggressiva veemenza con cui quest’ultimo si aggrappa alla propria borsa”). Miccione fa alcuni nomi di “terzisti” (i più illustri dei quali firmano o firmavano, sul “Corriere della sera”), ma anche di anti-terzisti. Per esempio di Pier Paolo Pasolini che, soprattutto nelle Lettere luterane, si è dimostrato disposto a “pensare che esista la storia, a vigilare, a cogliere dove stia <<il regresso e la degradazione>> avendo <<la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile>>”; o anche Benedetto Croce che, a un giovane erudito, chiede: “Voi vedete la lotta dei deboli e dei forti. Dalla parte di chi siete tratto a mettervi?”. Questi – che da terzista avrebbe risposto “di nessuno! Mai!” – risponde “esplosivamente: da quella dei forti!”. Al che Croce: “Ebbene, se sentite così, siete fascista con chiara coscienza: con la stessa coscienza con la quale io sono avversario, perché io e coloro presso cui sono stato educato e formato abbiamo avuto per massima, che bisogna porsi sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi”.
Nel secondo saggio la banalità viene rintracciata, sulla scia di Günther Anders (e, in sua difesa, in polemica con l’Umberto Eco di Apocalittici e integrati), nella supina accettazione del primato del televisivo sul reale, al punto che è il secondo a modellarsi secondo criteri e gusti del primo: “Al di là di ciò che si trasmette, l’effetto della tv sarà quello di allontanare dalla concretezza della vita: <<il così detto ‘mondo reale’, quello degli accadimenti, è già mutato anch’esso, perché se ne fa un fantasma, perché viene già abbondantemente arrangiato in modo che il suo svolgimento si presti quanto meglio possibile alla ‘trasmissione’, ossia riesca bene nella sua versione fantasma>>”. Nel mondo della fantasia e della rappresentazione artistica domina da tempi immemorabili il Superman: caratterizzato, come voleva Eco, da “atemporalità e apoliticità” o piuttosto, come intuito da Anders, come veicoli di “tesi ideologico-filosofiche”? Miccione non ha dubbi: “le tesi di Anders sembrano oggi ancora più vere di quanto non sembrassero all’epoca della loro pubblicazione” (1980). “Il fumetto supereroistico” degli ultimi decenni può essere interpretato come smentita progressiva dell’opinione di Eco: “Con gli X-Men, con Watchman, bellissimo, ambizioso e complesso romanzo a fumetti di genere supereroistico dove la dimensione politica dei supereroi è onnipresente, ma soprattutto con Thor”, “incarnazione del dio della mitologia nordica”, che fa proprio il “quesito neocon se il possesso di un potere militare superiore legittimi il predominio politico sul mondo e fino a che punto. Insomma Thor (e ci perdoni il dio scandinavo per il paragone) come Bush”.
Nel terzo e ultimo saggio Miccione si concentra su una versione della banalità di ardua decifrazione perché accuratamente celata negli anfratti dell’universo accademico. La domanda-guida: come mai, all’interno “del più ampio declino delle Humanities in Europa”, in particolare in Italia si registra “un deserto di opere e individualità filosofiche”? Probabilmente – è la risposta – perché, vengono “applicati indici di produttività e di continuità in modo da eliminare dal sistema universitario colui che mediti o faccia pause di riflessione spesso dettate dalla ambizione e difficoltà del suo progetto teorico. La valutazione produttivistica ha finito così con l’espellere alcune caratteristiche senza cui la filosofia non può sopravvivere: l’ambizione del progetto, la cura rigorosa della scrittura, la radicalità della proposta e la tendenza a spingersi al largo del pensiero. Tutte queste caratteristiche non si sono conciliate con la necessità di produrre spesso ‘piccoli’ testi per mantenere gli indici di produttività e hanno spinto sul proscenio un tipo umano che aveva come scopo filosofico fare il suo lavoro di ordinaria amministrazione o partecipare al grande coro del dibattito filosofico senza steccare ma senza prevaricare”.
A fine lettura si comprende meglio quanto si era letto nella prefazione dell’autore a proposito del pensiero “implicito” che sembra accomunare il Nord e il Sud del pianeta, ancor più l’Est e l’Ovest: che “nella tecnologia, nella ricchezza, nella sicurezza e nel controllo” vadano individuati “solo beni indiscutibili” e che, dunque, abbia senso discutere esclusivamente sulla “scelta dei mezzi per raggiungerli”. Con la conseguenza che “ambienti come l’editoria o la ricerca o l’arte o la scuola, in cui de iure dovrebbero essere presenti parametri che non siano il semplice profitto, o l’efficienza o l’innovazione, non sono più abitati da altro che da discussioni sui mezzi, mai sui fini. Chi non è stato del tutto espiantato dalla capacità di pensiero vive, con una sofferenza di cui non sempre riesce a darsi conto, la sua presenza in queste realtà dove il fine è non solo non più perseguibile ma neppure evocabile, in cui l’editore non deve pensare a costruire una cultura che resista al passare del presente ma a vendere nell’immediato, lo studioso non deve occuparsi di nessuna forma di orizzonte veritativo o di salvaguardia dei beni spirituali della civiltà ma partecipare vittoriosamente a ludi bibliografici, l’artista non può mettere la bellezza tra i suoi obiettivi ma occuparsi dell’oscillare delle sue quotazioni e l’insegnante non si occupa della Bildung dei giovani allievi ma di addestramento al lavoro”. Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
https://www.zerozeronews.it/limportanza-di-conoscere-davide-miccione/
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