27.11.2019
CHE SIGNIFICA GODERE DI “BUONA” REPUTAZIONE ?
Una delle “Giornate dell’economia del Mezzogiorno” è stata dedicata, martedì 26 novembre 2019, al tema “La reputazione nella scuola e nell’università”. La questione messa a fuoco è delicata. Lo sviluppo economico di un Paese ha bisogno di un sistema d’istruzione (elementare, media e universitaria) che funzioni e che meriti una ”buona reputazione”: ma che significa, nell’orizzonte culturale odierno, godere di “buona reputazione”? Dove finisce il (legittimo) desiderio del riconoscimento dei propri pregi e comincia l’inganno del marketing commerciale?
Il legittimo diritto di essere “riconosciuti” per ciò che siamo
Nel Medio Evo cercare di ottenere una “buona reputazione” era considerato un difetto. Anzi san Benedetto, nella sua Regola, invita i monaci in cerca della perfezione cristiana a sradicare persino il desiderio di una buona reputazione ai propri stessi occhi: il settimo dei 12 gradini dell’umiltà consisterebbe infatti, secondo il padre del monachesimo cenobitico occidentale, “non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore, umiliandosi e dicendo con il profeta: <<Ora io sono un verme e non un uomo, l'obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe>>” (Capitolo VII). Questo gusto per l’auto-svalutazione non è solo un pallido ricordo del passato. Mi ha colpito apprendere che anche oggi – e anche in ambienti protestanti – si possono ritrovare tendenze del genere. Il vescovo episcopaliano John Shelby Spong racconta di aver appreso da un giovane prete, durante un viaggio in Nuova Zelanda, dell’esistenza in quella chiesa della “sindrome del papavero alto” consistente nel “considerare non appropriato brillare, alzare la propria testa sopra la folla. Viene premiato l’istinto gregario, non quello di guida. Quando un papavero cresce più alto degli altri nel campo, regolarmente gli si taglia la testa” (J. S. Spong, Perché il cristianesimo deve cambiare o morire. La nuova riforma della fede e della prassi della Chiesa, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2019, p. 203).
Queste forme di repressione del desiderio di essere apprezzati spiegano – pur senza giustificarla – la mania oggi dominante di mettere perennemente in mostra i propri pregi (veri o presunti): una volta sui giornali e in televisione, ora sul web. A un convegno di alcuni anni fa, a Castellammare del Golfo, un filosofo abbastanza giovane e molto rampante suscitò la divertita attenzione di molti di noi perché dalla mattina alla sera si riprendeva con un tablet e immetteva continuamente in rete ogni sua parola, ogni suo incontro. Questa moda – proprio in quanto sa di eccessivo - stanca prima gli altri e poi noi stessi. Ma nasce da un bisogno, da una esigenza, che va capita e filtrata criticamente.
E’ almeno da Hegel in poi che sappiamo quanto radicato sia in ciascuno di noi il bisogno di “riconoscimento”: se non sono qualcuno per qualcuno, sono nessuno anche per me. E’ spontaneo tendere a diventare - come individui o come esponenti di istituzioni - i promotori e i difensori della nostra immagine pubblica (si potrebbe dire della nostra onorabilità).
Le manovre diversive per evitare una “buona” reputazione
Questa dimensione antropologica pone, però, a una riflessione più attenta, diversi interrogativi. Primo e fondamentale fra tutti: voglio essere davvero riconosciuto nella mia verità ? O, detto altrimenti, voglio che la reputazione di cui godo sia “buona” nel senso che corrisponda all’effettiva realtà del mio essere?
Se la risposta a livello individuale o collettivo (nel caso di un’organizzazione, per esempio di un’istituzione scolastica o universitaria) fosse affermativa, saremmo nell’ambito della fisiologia, non certo della patologia. Il punto è che spesso vogliamo essere “reputati” non come siamo, ma come non siamo: non secondo verità (per quanto approssimativa), ma secondo qualcuna delle maschere che indossiamo. Se ingannevole, una reputazione non è una “buona” ma ‘cattiva’.
La distorsione può avvenire in direzioni opposte. Una prima, più nota e socialmente più fastidiosa tendenza è a sopravvalutare ciò che siamo, ciò che facciamo, l’organismo sociale in cui operiamo. La riflessione etica ha parlato, in proposito, di vari vizi: la vanità, la vanagloria, la superbia. Il superbo non si accontenta di essere valutato ‘oggettivamente’, pretende di essere supervalutato come un’auto usata in occasione di vendite promozionali.
Meno nota e, comunque, socialmente più tollerata la tendenza opposta all’auto-sottovalutazione. E’ il difetto di auto-stima per cui né si ammettono i propri pregi, i propri talenti, né si desidera che altri li riconoscano. C’è un nome per questa “sottovalutazione non sempre sincera, anzi spesso ipocrita, di se stessi”? Norberto Bobbio la definisce “modestia” (Elogio della mitezza e altri scritti morali, Pratiche Editrice, Milano 1998, p. 43), ma egli stesso sembra oscillare tra considerarla un vizio oppure una virtù, sia pur “debole”. Personalmente non ho esitazioni nel concepire la “modestia” come una qualità positiva, una virtù: l’attitudine a non cercare sempre e dovunque il proscenio. Ciò che vorrei cogliere è invece l’atteggiamento di chi esprime, sin dal volto e dal portamento, la convinzione di essere – come recita un detto siciliano - “nuddu miscatu cu nenti” (“nessuno mescolato con niente”). In mancanza di un vocabolo più adatto chiamerei questo vizio, opposto alla superbia, psico-nichilismo: la percezione di sé come nulla.
L’umiltà come desiderio di “buona” reputazione
Aristotele ci ha insegnato che due vizi opposti sono determinabili come tali in riferimento a una virtù che svetta tra e sopra tali vizi. Se la superbia rifiuta una “buona” (perché vera) reputazione tanto quanto, per motivi opposti, la rifiuta lo psico-nichilismo, quale sarebbe un atteggiamento adeguato? A mio parere, l’umiltà.
Mi rendo conto di usare un vocabolo storicamente strapazzato, ma – sino ad ora – non ne trovo uno più calzante e suggestivo. Per me, infatti, l’umiltà - a differenza di Spinoza (citato da Bobbio) per il quale consisterebbe nella “tristezza derivante dal contemplare la propria impotenza o debolezza” (ivi, p. 42) – consiste nel gioioso vedersi, ed essere visti, secondo verità. L’umile sa di essere impastato di humus, di terra: ma la terra, che non è l’intero essere, non è neppure un nulla. L’umile accetta i propri pregi e i propri limiti con distacco ironico: con ‘umorismo’.
Nel mondo della scuola e dell’università
Il mondo della scuola e dell’università – come il resto del mondo – pullula, dunque, di nemici della retta reputazione: di soggetti che vogliono essere riconosciuti per meriti che non hanno o di soggetti (questi ci sono pure, ma sono pochi e poco noti) che non vogliono essere riconosciuti per meriti che hanno. In entrambi i casi, di soggetti che non si propongono l’umiltà autenticaneppure come ideale regolativo.
In questo difetto di prospettiva etica vedrei la radice di molti malesseri contemporanei. Tra singoli docenti (soprattutto all’università) e tra istituti (soprattutto scolastici) vigoreggia la competizione per il prestigio, tanto più sfibrante perché si sa che esso, raggiunto una volta, non lo si può conservare nel cassetto: è piuttosto una conquista continua. Tu puoi essere considerato un docente bravo a trent’anni e mediocre a cinquanta. E ciò non solo perché siamo in divenire (dunque ci evolviamo e ci involviamo), ma anche perché il prestigio è intrinsecamente relativo all’ambiente. In un mondo di ciechi, si dice, beato chi ha un occhio: ma se arriva qualcuno che di occhi ne ha due, il monocolo cessa di essere reputato fortunato e di essere adottato come guida. Parafrasando Foucault, si potrebbe dire: “il prestigioso, proprio perché si tratta di uno che è solo un po’ più prestigioso degli altri, non è mai abbastanza prestigioso da non dover stare in guardia” (cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società in AA.VV., Bisogna difendere la società, Grande, Torino 2002, pp. 16 – 17).
Non pochi tendono a sciogliere questa fastidiosa problematicità etico-sociale della categoria “reputazione”. O proiettandosi generosamente in avanti, in un mondo utopico dove – secondo l’accezione originaria e autentica di ‘anarchia’ – viviamo e lavoriamo in “libertà, uguaglianza e fraternità”, senza né capi né sperequazioni economiche; o, più prosaicamente, pressando in direzione di un appiattimento demagogico simile a quella notte in cui – hegelianamente – tutte le vacche sono nere. (Questa seconda pista è stata percorsa dall’inizio della Repubblica a oggi, con la conseguenza che per generazioni gli studenti migliori hanno quasi regolarmente scartato l’idea di intraprendere una professione – come l’insegnamento – privo di incentivi economici, morali e sociali).
Personalmente condivido il sogno anarchico di una società in cui la competizione non sia rivalità ma emulazione dei migliori (in cui dunque si eserciti il petere cum: il cercare insieme): ritengo, però, che, nell’attesa, l’assenza di qualsiasi valutazione dei meriti (e dei demeriti) sia una ipotesi oggettivamente conservatrice. So benissimo, per aver letto con attenzione il saggio, di Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito (Laterza, Bari – Roma 2019), quante insidie si celino in ogni tentativo di misurare la professionalità di un docente e la valenza educativa di un istituto (scolastico o universitario). Ma, come scrive lo stesso Boarelli, una cosa è contestare il modo riduttivo di intendere oggi categorie come “valutazione” e “merito” (diciamo l’apparato ideologico costruito strumentalizzandole) e un’altra contestare queste stesse categorie “in quanto tali”: “la parola valutazione” potrebbe essere associata “ad una pluralità di processi, tutti ugualmente possibili, ciascuno con una propria storia e propri orizzonti di riferimento sul piano culturale e pedagogico”, senza ridurla ad una sola “forma specifica”; così come “la parola merito” potrebbe essere liberata dalla identificazione “con i procedimenti attualmente in uso per misurarlo” ed essere definita “facendo riferimento – ad esempio – a valori morali che trascendono la dimensione operativa e strumentale” (p. 63).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com