18.12.18
LA SCOMUNICA DEL 1949: UNA STORIA D’ALTRI TEMPI. O FORSE NO.
Il cattolico ‘medio’ si dice tale, anche dopo la fase critica dell’adolescenza, perché – tutto sommato – accetta un ‘pacchetto’ di idee, simboli, pratiche costituito da un nucleo originario (il messaggio di Gesù di Nazareth) e da un involucro storicamente sviluppatosi, attraverso cui quel nucleo è stato veicolato in venti secoli (la chiesa istituzionale). Le due componenti (vangelo + istituzione ecclesiale) non sono omogenee: il primo, infatti, come tutti i messaggi profetici è tendenzialmente contestatore e innovatore; l’altra, come tutte le grandi istituzioni, è tendenzialmente conservatrice. Da qui le tensioni interne al mondo cattolico in ogni secolo: ognuno, infatti, più o meno consapevolmente, attribuisce maggior peso a una delle due componenti, col risultato che s’incontrano ora cattolici più evangelici che istituzionali e ora cattolici più istituzionali che evangelici. La cronaca di questi giorni è una vistosa conferma di questa ipotesi interpretativa: essa infatti registra, da una parte, cattolici che in nome dell’universalismo evangelico sono disposti a mettere in discussione l’assetto secolare della “civiltà cristiana” e, dall’altra parte, cattolici che in nome della continuità identitaria assicurata da un’istituzione consolidata, sono disposti a rigettare in mare (metaforicamente e letteralmente) i portatori di nuovi bisogni e di nuovi valori.
La novità attuale è che, come pochissime altre volte, a dare più importanza al vangelo rispetto all’autoreferenzialità dell’istituzione, c’è un gruppo di vescovi tra cui il papa; mentre, a difendere la tradizione e i privilegi socio-economici, ci sono i restanti vescovi e, soprattutto, la maggioranza dei fedeli (evidentemente non proprio assidui lettori del Secondo Testamento).
Come andrà a finire? Morto un papa – Francesco – se ne farà un altro che ristabilirà l’assetto precedente, in cui la carica rivoluzionaria del vangelo sarà veicolata con tutte le precauzioni del caso, senza eliminarla del tutto ma evitando accuratamente che esploda? Oppure, anche dopo Francesco, ci saranno altre guide del popolo cattolico convinte della necessità di una conversione dei credenti prima ancora che dei ‘lontani’, degli ‘infedeli’?
Ritengo, francamente, che non sia facile rispondere. Nell’attesa che gli avvenimenti sciolgano il dilemma – e, per chi vuole, affinché si possa agire in una direzione o nell’altra – può essere molto istruttivo rivisitare la storia recente. Se non dell’intera chiesa cattolica, almeno della chiesa italiana. Soprattutto nel periodo in cui i ‘barbari’, i ‘nemici’, non venivano da fuori i confini nazionali ma vivevano, lavoravano, votavano da cittadini italiani in mezzo a cittadini italiani. Mi riferisco alla vicenda che Arnaldo Nesti ha rievocato, con abbondanza di documenti (talora inediti), in un libro edito in queste settimane: La scomunica. Cattolici e comunisti in Italia, Dehoniane, Bologna 2018,pp. 143, euro 12,00, corredato da una prefazionedi Luigi Bettazzi (vescovo emerito di Ivrea) e da una postfazione di Achille Occhetto (ex segretario generale del PCI). Mi limito, per ovvie ragioni, ad alcune considerazioni telegrafiche.
a) La diffidenza delle gerarchie cattoliche nei confronti del marxismo non erano, in linea di principio, infondate. Il Partito comunista italiano (negli anni dal 1945 al 1978, anno dell’assassinio di Aldo Moro) aveva come modello di riferimento l’Urss (l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) che, nelle sue zone di influenza, dava pessime prove di sé sia contro i dissidenti interni sia verso gli Stati satelliti (vedi invasione dell’Ungheria nel 1956 e invasione della Cecoslovacchia nel 1968). Come scrive lo stesso monsignor Bettazzi, “le notizie che provenivano dal mondo comunista – distruzione di chiese, prigionia e morte per sacerdoti, religiosi e religiose, e anche per chi avesse battezzato un neonato o compisse pubblicamente atti religiosi – avevano sparso la convinzione che vi fosse un’opposizione tale tra il comunismo sovietico e ogni forma di religione da dover mettere in guardia i fedeli da questo contrasto assoluto, un po’ come c’era stato nei primi secoli tra i poteri pagani e i cristiani, chiamati quindi al martirio” (p. 5).
Se oggi gli immigrati (a qualsiasi titolo e con qualsiasi mezzo) fossero tutti esponenti dell’islamismo fondamentalista, le preoccupazioni dei cattolici filo-salviniani sarebbero più che fondate; ma gli islamici sono solo una parte dei profughi e, tra di essi, i fondamentalisti sono una percentuale irrisoria. D’altronde la biografia dei terroristi islamici attesta, sino ad ora, che la stragrande maggioranza (o forse la totalità) non è sbarcata da nessun barcone, ma è nata e cresciuta in Europa.
b) Quando, nel 1949, la scomunica del Vaticano colpì attivisti ed elettori dei partiti e dei sindacati di sinistra era già entrata in vigore la Costituzione italiana (elaborata e approvata da tutte le forze politiche anti-fasciste). I cattolici anti-comunisti avrebbero potuto, del tutto legittimamente, pretendere il rigoroso rispetto delle norme democratiche concordate, senza chiedere che una fetta molto consistente dell’elettorato italiano fosse bollato come eretico e sovversivo. Anche oggi vige in Italia una Costituzione democratica: una cosa è pretendere che chiunque entri e viva dentro i nostri confini la rispetti (o, se non lo convince, lotti legalmente per una sua revisione seguendo le modalità previste dalla Costituzione stessa) e un’altra cosa è condannarlo a prioricome cittadino inaffidabile in base al colore della pelle o alla lingua materna o alla religione dei suoi padri. Con questi criteri selettivi gli Stati Uniti d’America non avrebbero potuto avere come presidente Obama né la città di Londra potrebbe avere, tuttora, come sindaco Sadiq Aman Khan.
c) Pur diffidando (non senza ragioni) dell’ideologia del marxismo-leninismo tradotto operativamente dai governi sovietici e filo-sovietici, alti esponenti della gerarchia cattolica (quasi due decenni prima della celebre distinzione di papa Giovanni XXIII fra dottrina e perone concrete che vi aderiscono) mettevano in guardia dal non identificare sic et simpliciterogni elettore del PCI con un convinto aderente all’ideologia comunista. Ad esempio, già nel 1948, l’arcivescovo di Firenze, il cardinal Elia Dalla Costa, raccomandava ai suoi parroci di non dimentica che “parte di coloro che hanno dato o danno il voto al comunismo l’hanno fatto o lo fanno per ottenere vantaggi economici” (p. 51); infatti “non è da dimenticare che i lavoratori, i poveri di ieri, riconoscono nel comunismo quasi una specie di redenzione e giudicano che senza di esso certe loro elevazioni non sarebbero state raggiunte. E’ vero? Io non lo so; ma so che essi operano dietro questa convinzione” (p. 12).
Qualcosa di molto simile potrebbe riscriversi oggi a proposito di immigrati di altre confessioni religiose (islamici e induisti soprattutto). Essi non affrontano certo i rischi di traversate terribili per fare da missionari in Occidente delle loro convinzioni religiose. Quando non sono già del tutto secolarizzati, agnostici o atei – esattamente come molti intracomunitari - mantengono un’appartenenza confessionale soprattutto perché in essa trovano ragioni di conforto e di speranza, per questa vita e per un’altra successiva. Invece di perseguitarli o respingerli come fossero agenti segreti di ideologie che (a ragione, qualche volta, o a torto, più spesso) non condividiamo, dovremmo vederli, prima di tutto ed essenzialmente, come esseri umani. E, chi di noi è credente, anche come figli di Dio. Già nel 1963, l’arcivescovo di Bologna, il cardinal Giacomo Lercaro, ricordava in un messaggio ai cattolici il dovere di “promuovere il bene religioso e morale della Nazione” non combattendo comunismo e comunisti, ma “contribuendo ad assicurare la libera e fraterna convivenza di tutti gli uomini, delle classi e dei popoli” (p. 39).
d) L’apertura dialogica e accogliente verso i comunisti (italiani o stranieri: l’accoglienza in Vaticano del genero di Krusciov da parte di papa Angelo Roncalli gli meritò, da parte dei cattolici tradizionalisti, il soprannome – con intenti offensivi – di “Nikita Roncalli”, p. 34) è stata possibile solo in quelle personalità che hanno maturato una transizione, all’interno della loro visione-del-mondo, dalla centralità della chiesa istituzionale alla centralità del “regno di Dio”. Il libro di Nesti abbonda di esempi istruttivi sia di cattolici disposti a sacrificare la dignità e la vita stessa degli esseri umani per difendere la compattezza dell’istituzione ecclesiale sia di cattolici che, con grande travaglio, hanno infranto la corazza ideologico-istituzionale per vivere con libertà gli orizzonti del messaggio originario di Cristo.
Un esempio drammatico della prima posizione è riportato, autobiograficamente, dal vescovo Bettazzi: “In Italia si pensava a una diversa attenzione al Partito comunista italiano: l’on. Moro stava preparando, nel 1978, un iniziale appoggio esterno del Partito comunista e, per questo, fu sequestrato e assassinato, con una singolare connivenza delle Brigate rosse, che per rapirlo uccisero cinque poliziotti: un’alta personalità ecclesiastica, cui ero ricorso per vedere se si poteva trattare, concluse lapidariamente con la frase di Caifa: <<Meglio che muoia un uomo solo piuttosto che tutta la Nazione perisca>> (cf. Gv 18,14)” (pp. 6 – 7).
Un esempio di segno opposto è costituito dalla vicenda del gesuita Riccardo Lombardi. Per il primo mezzo secolo di vita acquistò fama nazionale come “microfono di Dio” per la sua instancabile opera di predicazione in tutto il Paese, anche via radio, contro il comunismo e a difesa del sistema – culturale e morale – incentrato sulla chiesa cattolica romana. Ma, negli ultimi anni, questa postura da crociata si incrina ed egli attraversa una crisi spirituale, e persino psichica, angosciante. Durante un viaggio a Manila del 1976 annota: “La Chiesa dovrebbe essere come Cristo. Ridursi in pane, farsi mangiare dal popolo per comunicarlo all’umanità. Ma come, con queste cattedrali di stile occidentale, questi conventi confortevoli, queste scuole cattoliche per i ricchi, questi pranzi diplomatici? Come con questa mentalità clericale, secondo cui il privilegio ci compete? Sono sconvolto, mi vergogno nel profondo del cuore” (p. 33). Queste impressioni di viaggio lo inducono a una vera e propria conversione teologica: “Se il piano di Dio è il Regno universale, la Chiesa è solo mezzo privilegiato per servirlo. E certe conseguenze si devono trarre. Una Chiesa che si dà fino all’estremo, che quasi si dimentica di sé stessa, perché tutti e ciascuno possano essere aiutati a crescere nel bene che già possiedono in sé stessi, è la condizione perché il cristianesimo possa inculturarsi in questi paesi” (p. 33). Infatti “lo Spirito agisce ovunque un uomo lotta sinceramente per ottenere ai fratelli giustizia, ovunque c’è un pacifico e un pacificatore e dovunque c’è qualcosa di vero e di buono”; “il piano di divino di salvare il genere umano è offerto a tutti”; “non la Chiesa ma il Regno di Dio è annunziato in molte parabole del Vangelo. Non la Chiesa ma il Regno di Dio è il fine della creazione. Nel servire la diffusione del regno di Dio, inteso nei cuori degli uomini, di ogni uomo, sinceramente in buona fede, anche senza il credo cristiano, sta la funzione universale della Chiesa” (p. 34).
Così, in Riccardo Lombardi, si sono fronteggiate due prospettive opposte: da una parte la “religione” di papa Pio XII, dei cardinali Ruffini e Siri, di monsignor Roberto Ronca, di Luigi Gedda…(personaggi per i quali, pur di salvare le istituzioni ‘cattoliche’, sarebbe stata accettabile l’alleanza con i fascisti vecchi e nuovi); dall’altra la “fede” di un Giovanni XXIII, del cardinal Lercaro, del vescovo Helder Camara, di don Milani, di don Balducci..(per i quali, gli interessi terreni e mondani del mondo cattolico vanno subordinati del tutto alla radicalità dell’agape evangelica). Il gesuita, convertitosi in extremis, lasciatasi alle spalle la lunga “Crociata della Bontà” per assicurare ai cattolici “la leadership politica e morale” (p. 30) della nascente Repubblica italiana, perverrà infine alla convinzione liberante che “nel regno di Dio è compresa anche la Chiesa come nucleo voluto da Dio, ma esso si estende misteriosamente al di là di essa, nel santuario delle coscienze” (p. 33).
Come ho cercato di evidenziare anni fa nel mio Il Dio dei leghisti(San Paolo, Cinisello Balsamo 2012) l’alternativa, dai tempi della difesa dal pericolo “rosso”, non è mutata nella sostanza: o lasciamo che uno, cento, migliaia di esseri umani muoiano perché le nostre nazioni, le nostre credenze religiose, i nostri sistemi sociali, non vengano messi in discussione dal confronto con l’alterità (anche a costo di ridurre la nostra fedeltà evangelica ai minimi termini e di stringere patti politici con “atei devoti” di ogni colore) oppure, al contrario, ci convinciamo che il nucleo del messaggio evangelico è dedicarsi alla vittoria del “regno” della giustizia, della libertà, della fratellanza, della nonviolenza sull’attuale dominio dell’iniquità, dell’oppressione, della prepotenza e della conflittualità violenta.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com