(CONTROINDICATO PER CHI IN INTERNET VA DI FRETTA...)
“Viottoli”, 2018/ 1
Intervento di Augusto Cavadi
al Convegno nazionale delle comunità di base
(Rimini 8 – 10 dicembre 2017)
Il deserto della transizione
Il titolo del nostro Convegno (“Beati gli atei perché vedranno Dio”), tratto da uno scritto di Maria Lopez Vigil incluso nel volume a più voci Oltre le religioni(Gabrielli, 2017) ha suscitato reazioni opposte. Qualcuno l’ha trovato genialmente paradossale, qualche altro è rimasto un po’ perplesso: “Ma insomma, dopo una vita in cui noi atei evitiamo di perdere tempo con le questioni teologiche, ci condannate a sbattere il muso contro Dio nell’altra vita?”. Comunque ho rassicurato congiunti e amici perplessi ripescando la storiella che girava alla morte di Margherita Hack: il buon Dio, avendo apprezzato le virtù intellettuali e morali della scienziata atea, per non darle una smentita che le avrebbe procurato un forte dispiacere, nell’altro mondo si sarebbe nascosto e avrebbe fatto finta di non esistere…
Ma vengo subito al tema che mi è stato affidato questa mattina: “Dalle religioni alla spiritualità, per incontrare l’altro, l’altra, al di là di dogmi e precetti”.
Molti di noi, per ragioni biografiche ma anche storico-culturali, hanno compiuto l’esodo dalla religione verso la spiritualità. Per qualcuno la transizione è durata quarant’anni, per altri molto meno: ma tutti abbiamo attraversato un deserto. Questo è un primo aspetto della questione che mi preme sottoporre alla riflessione comune. In numerosi compagni di viaggio registro un trionfalismo, quasi un senso di euforia, che sinceramente mi viene difficile comprendere e, ancor più, sperimentare.
Certo le etichette “religione” e “spiritualità” rimandano, per ciascuno di noi, a concetti – e ancor più a esperienze di vita – ben diverse. Chi ha vissuto la religione come costrizione, almeno psicologica, a stare in una gabbia di dogmi incomprensibili e soprattutto di divieti morali repressivi, se ne è liberato – è facile intuirlo – con sollievo o addirittura con entusiasmo (offuscato solo da qualche vena di risentimento verso le persone e le organizzazioni che gli, o le, avrebbro rovinato gli anni della giovinezza. Un amico che stimo molto, il filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri, mi pare ad esempio uno di questi ex-cattolici dal dente avvelenato dalle ingiustizie clericali subite). Più di un film, negli ultimi decenni, ha raccontato in maniera esteticamente efficace l’atmosfera di seminari maschili e soprattutto di collegi femminili in cui la religione (quasi sempre cattolica) ha mostrato il suo volto disumanizzante. Ma è stato sempre così? E’ stato per tutti così?
Per ragioni professionali ho ripreso in mano, in questi mesi, alcune opere di Thomas Merton, brillante intellettuale del XX secolo che si fa trappista e racconta in più pagine – a partire da La montagna delle sette balze- la storia della sua conversione al cattolicesimo e la sua vita di monaco. Ebbene, a essere sincero, devo confessare che ho riconosciuto nella sua vicenda e nei suoi stati d’animo un segmento importante della mia esistenza, diciamo dai quindici ai trentacinque anni. Una sensazione simile l’ho avvertita leggendo la bella biografia di Giuseppe Dossetti regalataci da don Fabrizio Mandreoli. Per sintetizzare brutalmente: la scelta religiosa di questi personaggi non ha nulla di irrazionale né tanto meno di imposto estrinsecamente; è piuttosto l’approdo, consapevole e libero, di una travagliata ricerca esistenziale. Il mondo della religione non è stato vissuto come una prigione, ma come un rifugio alpino. La religione come alveo rassicurante in cui scorre una tradizione millenaria; una visione del mondo coerente e convincente; un insieme di usi liturgici a cui affidarsi e da cui lasciarsi cullare; la presenza di maestri più anziani cui rivolgersi per esprimere dubbi e per raccogliere consigli…Il protagonista del romanzo Treno di notte per Lisbona, di Pascal Mercier , da cui è stato anche tratto un film, l’ha saputo dire benissimo: “E tuttavia sono di una bellezza sconvolgente le parole che vengono da Lui e vanno a Lui. Come le ho amate da chierichetto! Come mi hanno inebriato nello sfavillio delle candele sull’altare! Come sembrava chiaro – chiaro come la luce del sole – che quelle parole erano la misura di tutte le cose! Come mi sembrava incomprensibile che alla gente importassero anche altre parole, ciascuna delle quali poteva significare solo riprovevole distrazione e perdita dell’essenziale! Ancora oggi mi fermo quando ascolto un canto gregoriano, e per un istante – l’istante in cui la vigilanza viene meno – mi rattristo che l’inebriamento di un tempo abbia irrevocabilmente lasciato il posto alla ribellione”. E se qualcuno non ha mai conosciuto il fascino della religione-santuario può farsene un’idea leggendo il capolavoro di Hermann HesseIl gioco delle perle di vetro, romanzo in cui si descrive mirabilmente un mondo a-confessionale, forse a-religioso, in cui però le coordinate organizzative e sentimentali sono esattamente le medesime di un monastero.
Ma allora: perché abbiamo tagliato il cordone ombelicale con le chiese-utero, perché abbiamo abbandonato la culla della religione, perché abbiamo rinunziato alle cipolle d’Egitto? (Uso il plurale, ma non estendiamolo troppo: sociologicamente registriamo segnali contraddittori. Da una parte le fasce medio-alte della popolazione abbandonano di anno in anno la frequenza ai riti domenicali; ma, dall’altra parte, Habermas ci parla di post-secolarismoe addirittura Berger, teorico della secolarizzazione, ci parla adesso di de-secolarizzazione).
Ognuno di noi ha la sua risposta. Per quanto mi riguarda: per amore della verità. C’è una frase di Nietzsche che mi sembra, come tante altre sue (non tutte!), fulminante. Non la ricordo a memoria, ma ne ho ben presente il succo: “Gesù ha acceso nella storia il fuoco dell’amore per la verità. Ed è proprio attingendo a quel fuoco che noi abbiamo superato e abbandonato il cristianesimo”.
Alcuni di noi siamo diventati cristiani, e cattolici, perché ci è stato presentato un itinerario logico che, partendo dalla “dimostrabilità” di Dio, passava per i segni dell’incarnazione di questo Dio in Gesù Cristo, sino ad arrivare alla sua Chiesa, “infallibile” Mater et Magistra. Era un sistema intellettuale coerente e, apparentemente, inconfutabile: come insegnava il cardinale Charles Journet, il singolo teologo può non avere la risposta a ogni domanda, ma la Chiesa cattolica nel suo insieme ce l’ha senz’altro. Non solo: era anche un apparato gerarchico che esonerava da dubbi e angosce. Infatti ci si insegnava che il padre abate per i monaci, e il direttore spirituale per i laici, costituivano il terminale di questo mirabile apparato: bastava ubbidire, sia pur con sofferenza, e si fruiva con certezza assoluta della pace in terra e del paradiso dopo (“Il superiore può sbagliare nell’interpretare la volontà di Dio, ma tu non sbagli certamente agli occhi di Dio se segui la volontà del superiore”).
Proprio lo studio della filosofia (a Palermo), delle scienze morali (alla statale di Roma) e della teologia (al Laterano), nei pochi anni di libertà fra Pio XII e Giovanni Paolo II, mi ha però rivelato l’infondatezza, o per lo meno la problematicità, del plesso Dio-Cristo-Chiesa: prima a entrare in crisi è stata la concezione della Chiesa come societas perfecta; poi la cristologia “dall’alto” (della cui arbitrarietà si sono accorti tutti, tranne Benedetto XVI); infine, persino, il modello teistico (delle cui contraddizioni ci hanno recentemente parlato nei loro libri Vito Mancuso, il vescovo episcopaliano Spong e il padre gesuita Lenaers). A questo punto il bivio: o restavo cattolico nonostantela ragionevolezza che mi sforzavo di adottare in tutti i campi della vita o accettavo che un paradigma religioso millenario fosse giunto al tramonto e che dovessi anch’io entrare nella fase della ricerca spregiudicata, del dialogo a trecentosessanta gradi, della sobrietà nei pensieri prima ancora che nelle abitudini quotidiane. In una formula, quasi sloganistica e perciò utile e rischiosa come tutti gli slogan, accettare il passaggio dalla (fedeltà a una) “religione” alla (ricerca di una nuova) “spiritualità”.
La dimensione spirituale della vita ha le sue tentazioni
Raccontata così può sembrare che, una volta lasciatosi alle spalle (sia pur non senza nostalgia) l’Egitto, la prigione dorata della “religione” (nel mio caso cattolica), la terra promessa della “spiritualità” (post-moderna o iper-moderna) sia tutta latte e miele. Ovviamente non è così. Anche la dimensione spirituale ha le sue tentazioni e le sue degenerazioni, spesso uguali e contrarie alle tentazioni e alle degenerazioni della vita “religiosa”. E molte persone che hanno abbandonato per senso critico i vecchi assetti ecclesiali sembrano abbandonare, a propria volta, il senso critico quando entrano in movimenti “spirituali” di matrice orientale o psico-analitica o new age. Rischiano, insomma, di cadere dalla padella alla brace o, per lo meno, di saltare da una padella all’altra.
a) La tentazione dell’autismo
Innanzitutto: se nella religione l’ioviene assorbito, e quasi annullato, nel noi, chi vive la scelta spirituale spesso si concentra tanto sull’io, sulla sua singolarità, sulla sua autonomia, sulla sua responsabilità (tutte valenze sacrosante!) da rischiare di dimenticare il noi, la comunità, la socialità. Ecco una prima tentazione della spiritualità extra-religiosa (extra-religionale) o post-religiosa (post-religionale): l’individualismocosì ben sintonizzabile con l’ideologia liberale e con il capitalismo d’impronta liberista. Permettetemi un riferimento autobiografico. Da quindici anni organizzo con alcuni amici le “Domeniche di chi non ha chiesa”: una domenica al mese , solitamente la prima, la trascorriamo insieme sia per meditare e scambiarci le riflessioni su temi di spiritualità laica, a-confessionale, sia per condividere in allegria la mensa. Ebbene: numerose persone a me care, sin dall’inizio, hanno rifiutato l’invito alle nostre giornate mensili affermando che la loro dimensione spirituale non ha bisogno di appuntamenti prestabiliti, di regole sia pur minimali, di riti sia pur laicamente elastici. La sociologia religiosa mi pare abbastanza concorde su questo punto: “In estrema sintesi possiamo affermare che nell’epoca moderna il ‘sacro sé’ diventa la fonte di significato e l’unica autorità a cui obbedire“ ( Giuseppe Giordan, “La spiritualità come nuova legittimazione del sacro” in Teologia, 35 (2010), p. 24 cit. in Rossano Zas Friz De Col, Iniziazione alla vita eterna. Respirare, trascendere, vivere, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2012, p. 43). Ma una spiritualità così allergica alle norme, così solipsistica da rischiare l’autismo, ha una sua identità riconoscibile nel tempo? Ha una sua fisionomia, una sua consistenza, una sua durata? O non è piuttosto l’accavallarsi, onda dopo onda, di emozioni passeggere e di velleità irrealizzabili?
b) La tentazione dell’ombelico-centrismo
Una seconda tentazione, abbastanza legata all’individualismo, mi pare possa essere un certointimismo: nella sfera religiosa i gesti, i comportamenti esteriori, le cerimonie, gli atti di devozione, le opere di misericordia corporale hanno un peso notevole che può risultare eccessivo quando prevale sulla purezza d’intenzione, sulla consapevolezza critica. E’ vero: senza una solida radice nell’interiorità, si rischia il formalismo se non addirittura l’ipocrisia (e la Riforma luterano-calvinista lo ha sottolineato energicamente). Tuttavia recuperare il “cuore”, l’autenticità, talora ci induce - per reazione più comprensibile che giustificabile – ad accontentarci di ciò che pensiamo e sentiamo senza preoccuparci di manifestarlo in parole e soprattutto in opere. Ma una vita spirituale silente e paralitica, in-espressiva, è davvero una “vita”?
c) La tentazione della grotta
Individualismo e intimismo convergono nel rendere socialmente e politicamente irrilevante l’esperienza spirituale: ma una vita spirituale che non s’irradi nella polis, e non vi lasci tracce in qualche modo rilevabili, è abbastanza ‘spirituale’? Lo sappiamo: se non in teoria, almeno in pratica le chiese si sono spesso ridotte a lobby che governano direttamente, o condizionano indirettamente, i partiti politici, i sindacati, le istituzioni statali, le banche… E’ il vizio capitale, secondo gli storici più avvertiti come Sergio Tanzarella, dell’era costantiniana che non è per nulla conclusa. Ma questa patologia del potere si cura davvero rifugiandosi nelle proprie grotte o nei propri villaggi auto-sufficienti, fragili riserve indiane per figli (e nipoti) dei fiori? Il “regno di Dio” non è certo l’egemonia politico-finanziaria dei credenti (e, se ormai la parola stessa “regno” suona troppo equivoca, sostituiamola pure in modo da rendere evidente il suo significato originario): ma da qualche parte, e in qualche misura, la “città di Dio” (che non è la chiesa in senso istituzionale) non deve plasmare, riformare, lievitare la “città degli uomini” (che non è il bordello dove le perversioni più insane s’intrecciano e si rafforzano a vicenda)? Eventuali scelte eremitiche e ascetiche hanno senso, se ne hanno, solo in quanto realizzano cata-cronisticamente modalità originali, e profetiche, di vivere la socialità e l’incidenza politica. In quanto – intendo - testimoniano che gli attuali rapporti economici, sociali e politici non sono gli unici possibili; e, più in generale e più radicalmente, che “tutto è politica, ma la politica non è tutto” (così H. Kuitert citato da Edward Schillebeeckx nel suo sempre attuale Perché la politica non è tutto. Parlare di Dio in un mondo minacciato; ma qualcuno sostiene che la fonte originaria sia Emmanuel Mounier).
d) La tentazione dell’angelismo
Individualismo, intimismo e a-politicità lasciano intravedere il vizio capitale di ogni spiritualismo: l’angelismoo comunque vogliamo chiamare la concezione dello spirito come l’altro del corpo e non come il compimento di quel tutto psicosomatico, sessualmente connotato, che è la persona umana. Dimenticare che un corpo diventa più “spirituale” man mano che entra in relazione con gli altri corpi (e non che si isola) e man mano che opera nel tessuto storico (e non che si astiene dall’azione sino a volatizzarsi). Può esistere uno spirito che non vivifichi, energizzi, un corpo? Forse. Ma, ammesso che esista, non può essere principio di vita spirituale umana, carnale.
e) La tentazione della a-storicità
L’elenco delle tentazioni cui si espongono molte spiritualità post-religionali sarebbe lungo, ma non possiamo trascurarne almeno un’ultima: l’astrazione dalla corrente della storia. Conosciamo bene il tradizionalismo che marchia quasi tutte le comunità religiose, ma è ragionevole vivere come se non avessimo padri né (ancor meno) figli? Le chiese sono esperte nel tradere, nel trasmettere la fiaccola accesa da una generazione all’altra; e chi di noi sperimenta nuove forme di spiritualità si preoccupa di collegare i propri esperimenti con la memoria del passato e, soprattutto, di proporre (senza imposizioni) le proprie mappe orientative alle generazioni successive? Dove finisce il doveroso rispetto per la libertà di coscienza dei giovani e inizia una sorta di comodo auto-esonero dalla fatica dell’annunzio e della testimonianza (e dunque dal dispiacere di essere criticati, rifiutati, rinnegati)? Sono domande frequenti che non consentono risposte facili. Ma non per questo si tratta di domande eludibili.
e) La “fioritura della persona” in laicità e prospettiva mosaicale
Ho esposto con la maggiore onestà intellettuale di cui sono capace i rischi della “spiritualità” come alternativa alla “religione”, ma non certo per propugnare l’immobilismo all’interno del paradigma religioso e rifiutare il passaggio (per quanto doloroso) verso il paradigma “spirituale”. Desideravo solo segnalare alcuni rischi della transizione. I nodi da sciogliere sono, comunque, molti di più e qui si possono solo accennare a futura memoria: ad esempio, la crisi del teismo deve comportare anche la negazione di qualsivoglia personalità divina, rischiando di fatto l’immanentismo ateo, o si può ipotizzare, con Hans Küng, la “trans-personalità” del Vivente assoluto? Per fare solo un secondo esempio: si può e si deve abbandonare del tutto ogni “religione” o, essendo sconsigliabile se non addirittura impossibile tale abbandono, ci si deve concentrare nell’iniettare nuova linfa spirituale negli otri invecchiati delle strutture ecclesiali?
A queste e simili questioni si potrà rispondere solo quando avremo raggiunto un’idea abbastanza adeguata, e abbastanza condivisa, di “spiritualità”. Personalmente ci lavoro da parecchi anni e nel 2015 ho provato a dare un quadro organico delle acquisizioni raggiunte sino a quel momento nel volume Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova, antichissima spiritualità(Diogene Multimedia, Bologna).
A (provvisoria) chiusura di questo intervento posso limitarmi a poche pennellate. Per designare ciò che intendo per “spiritualità” adotterei in prestito una formula che la pensatrice contemporanea Martha Nussbaum usa in altro contesto: “la fioritura della persona umana”. Tale spiritualità la concepisco come laica: non nell’accezione comune sottrattiva (“laico” sarebbe qualcuno che non : che non è credente o non è prete o nonè magistrato di carriera…), ma nell’accezione positiva (“laico” come qualcuno che tiene dritto il timone della critica, del dubbio, del dialogo, dell’ascolto, della curiosità intellettuale, del rispetto delle coscienze…). Una spiritualità laica è, nella mia concezione attuale, una sorta di grammatica basilare dell’umanità in quanto tale: una sorta di galateo universale che prescrive attitudine al silenzio, alla riflessione, alla contemplazione del bello naturale e artistico, alla solidarietà con i viventi di ogni specie, alla convivialità con il diverso proprio perché diverso… e così via. da questa angolazione non possono stupire dichiarazioni come quella di Comte-Sponville nel suo Lo spirito dell’ateismo.Introduzione a una spiritualità senza Dio:
“Il fatto di non credere in Dio non mi impedisce di avere uno spirito né mi dispensa dall’usarlo. Possiamo fare a meno della religione (…) ma non della comunione né della fedeltà né dell’amore. Non possiamo neppure fare a meno della spiritualità. Perché dovremmo? Non è perché sono ateo che mi castrerò l’anima! Lo spirito è una cosa troppo importante perché lo si lasci in esclusiva ai preti, ai mullah o agli spiritualisti”.
La laicità della dimensione spirituale implica, fra molte altre qualità, la consapevolezza della propria finitezza. Ma se so che la mia prospettiva spirituale non è perfetta, completa, onnicomprensiva avrò il desiderio di conoscere altre prospettive spirituali che correggano, e integrino, la mia. Il futuro di una spiritualità planetaria lo rappresento spontaneamente con la metafora dei mosaici della mia terra: nei mosaici della Cappella Palatina di Palermo, del Duomo di Monreale o di Cefalù, il disegno d’insieme è dato dall’incastro dei singoli tasselli. Ogni tessera dev’essere quanto più splendente nella sua originalità, direi nella sua unicità: senza facili sincretismi, senza annacquamenti in blob amorfi. E allora induisti e buddhisti, ebrei e filosofi di matrice greca, cristiani e islamici, liberali e socialisti, illuministi e romantici…dobbiamo fare pulizia all’interno delle nostre tradizioni sapienziali, scartare i detriti e salvare la pietra preziosa che si nasconde in ciascuna di queste correnti. Sarà collegando perla con perla che si andrà configurando la mappa (sempre provvisoria, sempre rivedibile, sempre integrabile) di una spiritualità interculturale e transculturale.
Augusto Cavadi
RISPOSTA AGLI INTERVENTI
NELL’ASSEMBLEA PLENARIA
DI DOMENICA 10 DICEMBRE 2017
Vorrei confessare la commozione per le persone che, tra ieri e oggi, mi hanno dichiarato di aver riconosciuto nella mia relazione di ieri delle idee che frullavano nelle loro menti, ma in maniera implicita e un po’ confusa. Ho cercato di prestare un servizio che ritengo tipico del filosofo: chiarire il significato delle parole per consentire che accordi o disaccordi si basino sulla comprensione effettiva delle convinzioni altrui, non su equivoci.
Vorrei però rimediare a qualche lacuna della mia esposizione: infatti, se mi è capitato di agevolare il pensiero di alcuni, ho anche dato luogo a fraintendimenti.
Soprattutto a proposito della “laicità” che, a mio avviso, dovrebbe caratterizzare ogni spiritualità post-religiosa o post-religionaria. Già il “post” è prefisso che non mi entusiasma: suggerisce che uno si lascia indietro un’esperienza, un’appartenenza, una fase dell’esistenza senza portare con sé, anzi in sé, nessuna traccia. Quando nel 2008 ho avvertito l’esigenza di esporre in maniera organica le mie idee sul cristianesimo, nel volume In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani, ho precisato di non considerarmi né anti-cristiano né a-cristiano né post-cristiano, bensì in cammino nell’orizzonte dell’oltre-cristianesimo: nella prospettiva di chi cerca di recepire i contenuti veri e validi del cristianesimo, di sconfessarne i contenuti falsi e dannosi, di superarlo verso sintesi sempre nuove e imprevedibili. Oggi, quasi dieci anni dopo, anche alla luce delle tesi di un Ortensio da Spinetoli sul cristianesimo come prima e radicale eresia rispetto all’annunzio originario di Gesù, forse parlerei di oltre-gesuanesimo più che di oltre-cristianesimo: ma, in sostanza, mi ritrovo nell’atteggiamento di allora, non dissimile dall’aufhebunghegeliano (togliere-conservare- inserire in una nuova sintesi).
Ma cosa intendiamo, meno genericamente, con “spiritualità” post-religionale (o, anche qui, “oltre-religionale”)? Ho constatato che in ogni intervento la stessa parola (“spiritualità”) è stata adoperata in accezioni semantiche differenti, talora molto differenti. Per carità, la lingua è anche convenzione e arbitrio: ma perché esagerare? Il vocabolario italiano è abbastanza nutrito da consentirci di denominare con parole differenti delle sfumature di significato altrettanto differenti. Riducendo all’osso, si potrebbero individuare tre valenze principali che ricorrono sulle nostre labbra: la spiritualità come adesione sincera al vangelo di Cristo(e qui proporrei di usare il termine “fede”, di andare con la mente agli scritti di un Manzoni o alla musica di un Bach); la spiritualità come sentimento di appartenenza al Tutto cosmico (e qui proporrei di usare il termine “religiosità”, di andare con la mente agli scritti di un Foscolo o alla musica di un Beethoveen); la spiritualità come vita pensante e appassionata(e qui proporrei di usare, in esclusiva, il vocabolo “spiritualità” o, se mai, di accompagnarlo all’attributo “laica”, di andare con la mente agli scritti di un Leopardi o alla musica di un Mozart).
In che rapporto (logico) starebbero queste tre accezioni del termine “spiritualità” (o, come preferirei per chiarezza di comunicazione, queste tre dimensioni antropologiche: la fede, la religiositàe la spiritualità)? Se non sbaglio clamorosamente, la risposta cristiana ha oscillato in questi venti secoli fra due sponde. In un primo versante – chiamiamolo agostiniano/protestante – solo la “fede” (ricevuta per grazia divina) può fondare una retta “religiosità” e legittimare una “spiritualità” umanistica. Dopo Adamo, l’essere umano è irrimediabilmente corrotto: “le virtù dei pagani non sono che splendidi vizi”. Del tutto capovolta l’ottica che potremmo chiamare, sempre approssimativamente, tomistica/cattolica: la grazia divina sana e perfeziona la natura ferita, ma la presuppone.
Consentitemi una breve parentesi: qui non siamo davanti a contrapposizioni astratte. O, meglio, siamo davanti a teorie teologiche astratte che, come spesso le teorie, hanno ricadute concrete molto tangibili (e talora dolorosamente divisive). In una comunità alcuni, dalla prima prospettiva, riterranno fondante e imprescindibile l’adesione di fede al vangelo di Cristo e solo su questa base riterranno possibile occuparsi di solidarietà sociale, condizione femminile, omofobia, immigrazioni, guerre…Per costoro una comunità di base non può rinunziare all’aggettivo “cristiano” se non vuole tradire il proprio DNA. In altre comunità, o nella stessa comunità, altri riterranno che si possa vivere una vita pienamente sensata già a livello antropologico o umanistico: le virtù “cardinali” sono la base su cui, eventualmente, potranno radicarsi le virtù “teologali”. Per costoro una comunità di base può essere tale –occupandosi di solidarietà sociale, condizione femminile, omofobia, immigrazioni, guerre… - senza necessariamente qualificarsi come “cristiana”. Anzi, evitando la qualifica confessionale nella denominazione, faciliterebbe l’inserimento di uomini e donne in ricerca della verità, della libertà, della giustizia e della pace.
Torniamo alla domanda centrale: in che rapporto stanno fede, religiosità (tendenzialmente panteistica) e spiritualità (laica) ? Personalmente non ho dubbi: nessuna fede in senso confessionale (neppure la fede cristiana) è attendibile se non sboccia in un terreno di sincera religiosità cosmica; ma la stessa religiosità è credibile solo se, a sua volta, si radica nell’humus di una spiritualitàumanamente dignitosa. Ordini religiosi perfettamente inseriti nel classico paradigma “religionale”, o modernissime organizzazioni che propugnano inedite forme di religiosità post-moderna (e post-ecclesiastiche), meritano un futuro solo nella misura in cui mostrano di conoscere e rispettare la sintassi elementare della vita: che comporta senso critico, apertura a ogni genere di stimolo, pazienza per i limiti propri e altrui, empatia verso gli altri (soprattutto se sofferenti), cura per l’ambiente, impegno contro le sperequazioni sistemiche negli assetti sociali e molto, molto altro ancora. Sarà capitato anche a voi, come a me, di incontrare nella vita personalità dotate di intuito mistico in senso lato e in senso proprio, con una forte tempra di profeti, ma incapaci di auto-critica, di attenzione alle pieghe dell’animo altrui, di tenere in debito conto i dettagli eloquenti delle situazioni concrete: giganti dai piedi d’argilla, dunque; grattacieli che svettavano in alto, ma che sono miseramente implosi per difetto di fondazione antropologica. Parafrasando il cardinal Martini, direi che la differenza fra credenti e non credenti in senso religioso è del tutto secondaria rispetto alla differenza fra saggi e non saggi, fra chi coltiva la spiritualità quotidiana e chi la bypassain nome di improbabili voli religiosi o teologali. Prima di superare il livello del “semplicemente” umano, bisognerebbe assicurarsi di averlo almeno raggiunto.
Due piccole precisazioni a margine (suggeritemi non in sessione plenaria, ma in colloqui individuali nei corridoi).
La prima: la sequenza spiritualità-religiosità-fede non va intesa in senso cronologico. Può darsi benissimo che, nella biografia di qualcuno o di molti, sia un’esperienza di fede ecclesiale a risvegliare il senso religioso sopito o ad attivare un cammino di ricerca spirituale laica. Ciò non toglie, a mio parere, che - dal punto di vista logico – le opzioni di fede presuppongano una sensibilità religiosa davanti al mondo così come tale sensibilità religiosa presupponga un’attitudine riflessiva ed etica di base.
Una seconda, più delicata, precisazione riguarda i credenti nel vangelo di Gesù. Sembrerebbe che, nella sua esperienza personale, ilfocussia consistito nella confidenza con Dio (qualsiasi ‘cosa’ egli abbia inteso, o sperimentato, con l’innominabile Eterno): ma questo significa che egli sia partito dalla “fede” in senso biblico per approdare a quell’ampio orizzonte di “religiosità” cosmica e di “saggezza” umanistica che traspaiono da ogni pagina dei vangeli? O non ha compiuto un percorso inverso, interrogandosi sin da ragazzo sulle sapienze “mondane” che si incrociavano nel Mediterraneo (Egitto, Grecia, Persia) per poi acquisire, gradualmente, un senso di “religiosità” e, infine, maturare una intensa intimità mistica? Non sappiamo, non sapremo mai, quale sia stata la sua biografia interiore. Ma, dal punto di vista di noi che non siamo Lui, il dilemma non ha rilevanza. Quale che sia stato il suo itinerario, egli ha comunque vissuto e testimoniato una sorta di “teocentrismo” che dovrebbe liberare le generazioni successive di discepoli da ogni tentazione “cristocentrica”. Ciò stabilito, sorge una questione più cruciale: Gesù ha fatto del suo proprio, personale teocentrismo il “cuore” della sua proposta evangelica? Insomma: possiamo essere cristiani, nel senso di gesuani, se non diventiamo anche noi “teocentrici”? La risposta, ridotta in termini essenziali, è negativa. Secondo Ortensio da Spinetoli (e la quasi totalità dei biblisti) il “cuore” del messaggio evangelico non è il Padre, ma il “regno di Dio”. Essere cristiani significa mettere alla base, al centro e al culmine della propria vita la regalità di Dio nella storia: dunque, in ultima analisi, per dirla con Paolo VI, la promozione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. O, per riprendere Martha Nussbaum, “la fioritura della persona umana”.
Leggiamo infatti ne L’inutile fardello: “Certo, anche Gesù come i suoi connazionali mette Dio al primo posto, ma cerca di correggerne l’immagine corrente. Sostituisce infatti quella del <<Signore Onnipotente>> (…) con quella del padre senza uguali, oltremodo benevolo con tutti i suoi figli, anche se scapestrati (Luca 15,11-24) (…). Si potrebbe alla fine asserire che, secondo Gesù, Iddio sembra preoccupato, più e prima che del suo onore, del bene e della felicità delle sue creature, soprattutto delle più deboli e quindi delle più bisognose” (p. 16). E ancora: Il Dio di Gesù “non ha bisogno e non ha mai chiesto nulla per la sua gloria ma aspetta solo, quasi con ansia, che si aiutino le sue piccole e povere creature a crescere, a essere felici e in pace. Il cristianesimo è unico proprio per queste sue dimensioni non religiose ma umanitarie” (p. 40). Se è davvero così, non ci resta che inchinarci di fronte al paradosso di un Cristo che, in forza della propria fede teocentrica, propone una sequela di diaconia antropocentrica. Un Cristo che indica come salvezza non una nuova fede teologale né una nuova religiosità cosmica (che, se mai, possono svolgere un ruolo di vie, di mezzi, di metodi) bensì una antica e universale spiritualità laica.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com