30.6.2018
SULL’ARTE DI NON AVERE NIENTE
Un libro fitto di riferimenti – ad altri libri, a film, a canzoni – può dare fastidio. Ma se le citazioni sono infilzate come da un’unica freccia, che le attraversa per lanciarle in avanti verso un bersaglio preciso, perdono qualsiasi sapore di erudizione e risultano quasi inevitabili; in certo senso, è come se acquisissero una nuova anima.
E’ questo il caso del libro – bello-e-buono direbbero i Greci – Less is more. Sull’arte di non avere niente di Salvatore La Porta (Il Saggiatore, Milano 2018, pp. 176, euro 16,00). In esso infatti Buddha e Socrate, Platone e Dostoevskij, Gaugin e Proust, Mark Twain e Fabrizio De André (insieme a molti altri) vengono evocati – talora come autori, talaltra proprio come personaggi storici - per articolare la dimostrazione di una tesi centrale: vivere con meno è vivere più intensamente, “ il desiderio di possedere è naturale ma è anche una trappola” e “c’è un’alternativa altrettanto connaturata all’essere umano: la capacità di non avere niente, di decidere che è meglio avere di meno per conservare la propria libertà intellettuale, morale e fisica”. Quest’arte non ha nulla a che fare con l’ideologia della miseria, con il pauperismo, con il masochismo: “saper rinunciare al desiderio di possesso, o almeno lottare contro di esso, è anche e soprattutto un’arte della gioia, l’opportunità di riappropriarci dei nostri reali desideri e di lavorare per essi nel corso dell’esistenza, senza sensi di colpa, sfidando la possibilità di un fallimento senza il terrore di chi pensa che perdere quel che si ha è perdere se stessi”.
In ogni epoca – né la nostra sembra fare eccezione, anzi ! – il senso della proprietà come elemento irrinunciabile della propria identità viene instillato sin dai primi anni di vita. Il prezzo è alto: la progressiva riduzione, sino alla completa “eliminazione”, del “gioco” dalla vita. Copriamo di regali i bambini, privandoli dell’esperienza di “vivere senza avere niente almeno durante l’infanzia, in modo che possano comprendere da sé chi siano e chi vogliano diventare. Perché facciamo una cosa tanto orribile ai figli che amiamo? Per paura ovviamente. L’eterna antagonista dell’arte di non avere niente”.
“Se l’arte di non avere niente si esprime durante l’infanzia nel gioco, in seguito si realizza invece nel viaggio”: ma a patto che sia davvero un’avventura, un’apertura all’imprevisto, non l’ingreggiamento in una comitiva organizzata dall’inizio alla fine. Arthur Rimbaud – con il suo “andare avanti e indietro per la Francia, l’Inghilterra, l’Europa” senza avere “una rendita da spendere” – è un modello esemplare di questo genere di viaggio avente come méta la riscoperta della propria nudità esistenziale. Un altro modello è stato Jack London che, in una lettera all’amico Ronald Franz, scriveva: “C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo”. Chi evita il viaggio autentico si dedica a “sistemarsi”, ma “quando tutto è accumulato, completato, adulto, è altrettanto naturale un improvviso disagio.Una sorta di claustrofobia, nel fissare dal fondo di queste pareti ogni giorno più alte e ormai in penombra, quel cielo lontanissimo”. Insomma: “i beni che accumuliamo sono statici, e noi siamo una strana razza di crostacei, meno furbi di un paguro che, quando incontra una conchiglia più comoda, vi si trasferisce senza grossi traumi. Per noi, prima o poi arriva sempre quella notte di sogni inquieti, l’orrore per il nostro guscio”.
E questo non vale solo per i beni materiali, ma per gli onori e per le nostre stesse idee. Per gli onori: “ogni uomo è tormentato dall’ambizione ma incapace di dimenticare la bellezza che soltanto l’arte di non avere niente può farci vivere”. Le nostre idee: non è sorprendente che anche esse “siano proprietà che accumuliamo nel tempo e che finiscano, come tutti gli averi, per modificare i nostri comportamenti al di là dei nostri veri desideri. Fanno parte del guscio anche queste: a volte sono laparte più spessa”.
L’ultima occasione che ci offre la vita di sperimentare la saggezza della moderazione (in un mondo di sperequazioni incredibili fra chi ha troppo e chi ha quasi niente: “secondo il rapporto Oxfam del 2017, l’1 per cento della popolazione più benestante del pianeta possiede più ricchezza netta del resto dell’umanità. Il rimanente 99 per cento, appunto”) è l’invecchiamento e l’approssimarsi alla morte. Ma è appunto un’occasione: la si può valorizzare come anche sprecare nel rimpianto e nel rammarico.
Il libro così intenso perché così sincero di La Porta si chiude con l’allusione a quelle migliaia, a quei milioni, di esseri umani che praticano sul pianeta “l’arte di non avere niente” e proprio per questo non hanno neppure “visibilità”, riconoscimento sociale, gratitudine pubblica: sono persone coraggiose e generose che nell’impegno sociale, nel volontariato, nelle organizzazioni non governative…spendono quel poco che posseggono per “seguire le proprie idee”. Il lettore è dunque invitato a mettersi fuori, dall’uscio della propria casa, alla ricerca di queste persone che, avendo rinunciato “a una parte dei propri averi: al tempo, all’ozio, anche al denaro, magari”, riescono a “scoprire una soddisfazione più profonda dopo aver dato, dopo essersi stancato, per non aver guadagnato nulla di tangibile”. Secondo l’autore , per ogni sarebbe il modo migliore di completare il libro con la propria, inconfondibile, firma.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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