Enzo Sanfilippo
“Nonviolenza e mafia”
Relazione del 12 aprile 2018
presso la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo
all’incontro organizzato
dalla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”,
nell’ambito della Settimana della nonviolenza promossa
dalla Consulta per la Pace del Comune di Palermo.
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Innanzi tutto consentitemi di ringraziare gli organizzatori di quest’incontro, la Consulta per la pace e la Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, poiché quest’invito ha coinciso con un mio desiderio di riattivare proprio in questo anno 2018 un gruppo di riflessione... Pensavo qualche tempo fa a quanti anni erano passati … il saggio sulla rivista “Quaderni Satyagraha” è del 2003 e 15 anni mi erano sembrati un tempo buono. Francesco Lo Cascio mi ha chiesto poi di inserire il logo della Comunità dell’Arca tra i promotori della settimana, cosa che ho fatto molto volentieri e che mi dà l’occasione per un ultimo ringraziamento poiché la Comunità dell’Arca è la Casa direi spirituale e fraterna da cui ricevo insegnamento e sostegno per questo sforzo di comprensione e di impegno.
Ci sono dei tempi a volte molto lunghi durante i quali le idee acquisiscono una certa “maturità” e quindi la possibilità di essere accolte. Accolte ovviamente come tappa di un percorso che ci deve portare ad una evoluzione ulteriore. La nonviolenza non l’abbiamo inventata certamente io e mio figlio Manfredi: essa - diceva Gandhi - è antica come le colline. Ma la nonviolenza non può neanche porsi come un assoluto immodificabile (raccogliamo immediatamente la provocazione di Ines Testoni e di Emanuele Severino che, in un libro che citerò tra poco, invitano ad aver consapevolezza della inevitabile violenza della nonviolenza. Una nonviolenza che ha questa consapevolezza è diversa, ci dicono, da una che non ne ha…).
Certamente oggi non abbiamo molto tempo a disposizione, mi limiterò quindi ad aggiungere un paio di input di cornice generale a quanto detto da Manfredi Sanfilippo che ha giustamente inscritto il tema del conflitto mafioso nel modello di Johan Galtung, che possiamo ritenere il massimo teorico vivente degli studi sul conflitto. La riflessione di Manfredi ci ha fatto andare avanti su questo sentiero ma anche su un altro: sul tema della comunità come modello sociale evolutivo e forma nonviolenta di contrasto alla mafia che è stato il titolo della sua tesi magistrale in Cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti all’Università di Pisa, tema che non avremo il tempo di affrontare questa sera, ma che sarà interessante affrontare in un'altra occasione.
Quello che vorrei fare nella prima parte del mio intervento è ripartire dai concetti chiave che guidarono la nostra riflessione 15 anni fa. Nella seconda parte vorrei riferirvi di alcuni studi accademici di cui abbiamo avuto notizia che hanno fatto esplicito riferimento al nostro paradigma, citando il saggio e il libro del 2005… Ma anche di esperienze, o dichiarazioni pubbliche, di persone impegnate sul fronte del superamento al sistema mafioso che, anche senza un rapporto diretto con noi, si muovono lungo coordinate simili. Sono queste notizie molto incoraggianti che possono farci allargare il cerchio e programmare nuovi momenti di riflessione e di incontro.
L’intento generale che mi ero proposto nel 2003 e su cui lavorò nei due anni seguenti un gruppo di amici palermitani (tra cui A. Cozzo, E. Villa, U. Santino, A. Puglisi, S. Di Vita, G. Abbagnato. A. Cavadi e altri) fino all’organizzazione del convegno Superare il sistema mafioso - Il contributo della nonviolenza che si tenne a Baida nel maggio del 2005, può essere sintetizzato nei seguenti punti:F
· Stimolare la ricerca delle scienze umane (sociologia, antropologia, psicologia, economia, ecc.) sul fenomeno mafioso collocandosi in una postazione più interna in quanto, si diceva, non si tratta solo di conoscere una realtà criminale, ma di far evolvere un sistema di cui anche noi ricercatori studiosi, cittadini, facciamo parte;
· far emergere la valenza scientifica - oltre che sociale - del lavoro delle associazioni, dei movimenti, delle comunità, dei singoli cittadini, per abituarci a considerare le singole azioni organizzate in una prospettiva di comprensione nel senso weberiano del termine del fenomeno mafioso;
· uscire da un paradigma esclusivamente giudiziario e repressivodelle azioni sociali e politiche di contrasto alla mafia [erano anni, quelli in cui ci trovavamo a riflettere, in cui tutto era incentrato sull’arresto realizzatosi del capo-dei-capi… addirittura “Repubblica” ospitò un dibattito con diversi interventi in cui ci si poneva la domanda se COSA NOSTRA stesse per scomparire…];
· favorire anche una evoluzione del paradigma della legalitàdentro cui si muoveva il cosiddetto fronte “anti-mafia”, compresa “Libera”, nella sua prima stagione;
· creare un ponte tra la dimensione, la spinta spirituale che esige da noi un cambiamento interiore di evoluzione e di non complicità con la mafia, la dimensione scientifica che ci fa conoscere la realtà e le azioni collettive/comunitarie per il cambiamento.
Abbiamo segnato una prima tappa con la pubblicazione di un libro a più voci in cui sono raccolte le riflessioni iniziali (Mafia e nonviolenza, Di Girolamo, Trapani 2005) cui ha fatto seguito l’organizzazione di un convegno nazionale sugli stessi temi. Quest’appuntamento ci ha consentito di incontrare varie persone e di conoscere direttamente realtà e gruppi, anche fuori dalla Sicilia.
La nonviolenza infatti non è soltanto un metodo di azione ma è contemporaneamente un modo di concepire la realtà sociale che è vista come un organismo in cui le parti cosiddette “cattive” sono intrecciate profondamente con quelle “sane”.
Questa visione rimanda alla impossibilità di estirpare, di annientare violentemente, una parte della società umana per quanto essa possa essere a ragione giudicata “malata” poiché ogni malattia lascia tracce in tutto l’organismo, pronte a ricostituirsi velocemente.
Sembrerà strano ma la persona che ci ispirava maggiormente per queste posizioni - diciamolo - un po’ eretiche, era Giovanni Falcone, il nostro concittadino giudice che ci aveva lasciato come eredità, tra le altre cose, quel bellissimo libro-intervista scritto con Michele Padovani in cui egli fa una sintesi straordinaria dell’idea di mafia che si era fatta durante il suo lavoro investigativo. Cito:
“La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia” [1].
E ancora:
“ La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione” [2].
Giovanni Falcone aveva saputo coniugare la sua competenza investigativa con un intuito antropologico che certamente gli ha consentito una conoscenza profonda e non solamente giudiziaria dell’universo mafioso. Egli inoltre, nello stesso libro, fa trasparire una sensibilità e uno stile di comprensione che lo avvicinano non poco al pensiero nonviolento.
Ma, se la mafia è sistema, chi cerca di comprenderla non può adottare uno schema dualista (mafia-antimafia). È proprio a partire da queste intuizioni che, dopo lo studio di Fabio Armao (Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, 2000), parlai, forse per primo, di “sistema sociale mafioso”, abbozzandone un modello con un centro e quattro sotto-sistemi:
· Area politico-amministrativa
· Area delle attività economiche e produttive
· Area della cultura e della socializzazione
· Area della contiguità affettiva e familiare.
Infatti solo inscrivendo esplicitamente la mafia dentro la lettura sociologica del sistema sociale appare evidente la sua natura “non residuale”. [Autocitazione: “Il successo della mafia non nasce da un’evoluzione tutta interna alla storia delle organizzazioni mafiose. Essa si inserisce nella differenziazione sistemica collaudata dal sistema stato-mondo che a sua volta deve fronteggiare varie tendenze di crisi che ne minano la stessa fondazione”].
Quale sia la crisi del mondo globalizzato è noto a tutti. Il pensiero economico-consumista dominante è in difficoltà poiché il suo stato di perfetto funzionamento si ha nella misura in cui l’uomo è ridotto acosa e tale riduzione deve avvenire in tutti i suoi sottosistemi. La mafia, come la conosciamo, può costituire la soluzione del problema poiché ha costruito una sua cultura (che la Testoni chiama anti-cultura) e sottili meccanismi di introiezione psicologica che fanno leva sulle aree di contiguità affettive e familiari.
Da qui il nostro interesse per gli studi sullo psichismo mafioso di I. Fiore e del gruppo degli psicologi dell’Università di Palermo (Lo Verso, Lo Coco e altri).
Ma mi sembra importante sottolineare che la visione sistemica del mondo è comunque appunto una visione, non è la realtà. Essa ha un valore semplificante ed euristico. Ci serve cioè a risolvere un problema.
Le costruzioni sociologiche (mi azzarderei a dire anche quelle filosofiche, ma non ho gli strumenti per sostenerlo) sono sempre relative ai processi di trasformazione che vogliamo contrastare, attivare, assecondare, rallentare o accelerare.
Ultimamente questo mi ha portato ad interrogarmi sull’uso che abbiamo fatto e facciamo (figli forse di un visione marxista del mondo) del concetto di “struttura” che pone l’attenzione su un meccanismo centrale di funzionamento.Negli studi sulla mafia dicevamo che il sistema politico-amministrativo e in particolare il sistema giudiziario permangono in una posizione centrale mentre invece andrebbe messo più a fuoco il sistema culturale. Ora sono gli stessi magistrati, forse i più illuminati e intelligenti, a porre in guardia dai limiti del paradigma giudiziario.
Ma, sempre citando Falcone, se la mafia ci rassomiglia dobbiamo capire “quanto”: dobbiamo capire la nostra posizione in una scala di distanziamento. Bene ha fatto Manfredi Sanfilippo a completare il modello sistemico individuando in ciascun sottosistema tante possibili posizioni.
Questo schema è molto utile perché facilita il processo di consapevolezza del nostro essere parte del sistema e può darci indicazioni per le azioni di trasformazione.
È il punto di sutura tra una teoria del sistema e una teoria dell’azione introducendoci finalmente alla nonviolenza…
Chi è stato alla recente presentazione del libro di Marinetta Cannito (La trasformazione dei conflitti) ricorderà come questa autrice, nostra amica di fede battista, sottolinea fortemente l’importanza di questo passaggio teorico proposto da uno studioso americano, Lederach, che invita anche il mondo nonviolento al passaggio dal concetto di “soluzione” (soluzione dei conflitti) al concetto di “trasformazione” che ci porta a quella visione, di un corpo, di un sistema che deve trovare al suo interno le modalità evolutive di trasformazione, di guarigione. Un corpo guarisce realmente quando non si va mutilando di ogni parte che non funziona, ma utilizza le parti sane per compensare o modificare altri organi riportandoli al funzionamento originario o il più delle volte a un nuovo funzionamento che fa evolvere l’organismo nel suo insieme. E chi ha attraversato la malattia uscendone ne riconosce spesso il senso nella storia della propria esistenza.
Tanti altri punti andrebbero ripresi e spero che ne avremo occasione.
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Come vi avevo preannunciato volevo rendervi partecipi di alcuni studi di cui sono venuto a conoscenza (alcuni dei quali scoperti da poco tempo ) che hanno cercato di accostare metodo nonviolento e superamento del sistema mafioso.
La ricerca testuale è sempre più agevolata da internet… Così ho scoperto , per esempio che il testo Nonviolenza e mafia (Di Girolamo, Trapani 2004) , da me curato in prossimità dell’omonimo convegno organizzato dal gruppo di studio di cui vi ho parlato, nel 2005, è tra i testi suggeriti per l’esame di sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria. Inoltre il percorso di ricerca di cui abbiamo parlato è stato citato in altri testi e ricerche sul tema della mafia.
Il più corposo per mole e qualità è certamente il volume di Ines Testoni, La frattura originaria. I. Testoni è docente di Psicologia Sociale all’Università di Padova ed è discepola di Emanuele Severino che molti considerano un gigante della filosofia (Massimo Cacciari ritiene che sia l’unico filosofo che nel Novecento si possa contrapporre a Heidegger). In questo libro (che peraltro ha la prefazione del maestro) la Testoni inscrive in maniera sistematica la questione della nonviolenza e della mafia, del femminile, della risoluzione dei conflitti, all’interno del discorso filosofico accogliendo pertanto quella doppia definizione di nonviolenza (risoluzione dei conflitti e insieme cammino verso la Verità) che si trova all’inizio del mio saggio, condividendo il limite di una violenza legittima dello Stato che, se non letta all’interno di una evoluzione storica delle stesse forme dello Stato, rischia di duplicare i livelli di violenza del sistema fino al rischio di una sua de-umanizzazione e mafiosizzazione. Ma in fondo penso appaia a tutti evidente, come diceva spesso Lanza del Vasto, che una risposta violenta alla violenza non fa che raddoppiarla. L’applicazione della nonviolenza alla mafia, letta come una pericolosissima deriva dell’Occidente, per nulla superata anche a fronte di misure straordinarie che non hanno impedito alle mafie di diffondersi oltre le tradizionali regioni del Sud, diventa allora un’occasione per mettere a nudo, con uno sguardo che valorizza il femminile, la crisi dell’Occidente senza trascurare e mettere a prova rigorosa le aporie e i dilemmi etici della stessa nonviolenza e del pacifismo affrontandoli con grande competenza da Gandhi ad Aldo Capitini, da Danilo Dolci a Ernesto Balducci, con un quadro teorico di riferimento che coinvolge tutte le scienze umane dalla filosofia alla psicologia, dalla sociologia alle scienze politiche.
Riguardo alla magistratura, mi vengono in mente due esempi. Uno è quello del magistrato minorile Roberto Di Bella, in magistratura dal 1993, oggi presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria che parte dalla constatazione amara della continuità generazionale. Cito da un’intervista:
“Avendo un lungo periodo di esperienza professionale sempre nello stesso posto, ho avuto la possibilità di avere uno sguardo privilegiato sul mondo minorile della provincia di Reggio Calabria e ho notato che adesso mi trovo a giudicare i figli di coloro che giudicavo negli anni ‘90. Tutti con lo stesso cognome, tutti appartenenti alle famiglie storiche del territorio, più o meno con gli stessi reati…”.
Questo rappresenta un significativo fallimento delle politiche repressive e dell’assenza di un investimento culturale e formativo nel mondo della scuola, che ha portato questo magistrato a impostare azioni comuni con il mondo della scuola.
Cito ancora: “E’ un problema soprattutto culturale oltre che criminale, di cui noi giudici minorili ci rendiamo conto da anni. E’ un problema culturale perché questi ragazzi non conoscono altri tipi di orizzonti; credono che la strada della ‘ndrangheta sia l’unica possibile. Non sanno che esiste un’alternativa perché loro, al di là del loro paese e della famiglia, non riescono a vedere. Quindi serve un’infiltrazione di cultura ed è quello che sta alla base del nostro orientamento giurisprudenziale, che nei casi estremi comporta provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale...Occorre poi fare cultura. Servono centri di aggregazione sociale come i “ punti luce” creati da “Save the Children”, che organizza attività culturali, di sostegno allo studio e ricreative nei contesti più a rischio. Esistono realtà– come quella di S. Luca – tristemente famose in Europa in cui solo adesso si sta cominciando a focalizzare l’attenzione e considerare il grave problema culturale. Che deve essere risolto con la predisposizione di servizi socio-sanitari adeguati al territorio, con la creazione di centri di aggregazione culturale e sportiva. Con insegnanti e dirigenti scolastici capaci di ampliare gli orizzonti culturali dei ragazzi”.
Ecco, dovremmo approfondire queste pratiche, chiedere ai governi di impostare politiche competenti sul piano pedagogico che non si esauriscano nelle “giornate della memoria” o con questi incontri di una mattinata all’anno con il magistrato, il giornalista, il testimone o il parente di vittima. Dei limiti di questa “retorica dell’anti-mafia” ci ha parlato, in questa sede, il giornalista Giacomo Di Girolamo autore di un libro dal titolo provocatorio: Contro l’antimafia.
Penso possano essere lette come segno di un limite del paradigma repressivo le recenti dichiarazioni del magistrato Nicola Gratteri che (con un linguaggio ancora tutto interno, a mio avviso, a un paradigma punitivo) ha tuttavia aperto ad alcuni temi interessanti durante un ‘audizione in Commissione Diritti umani in Senato. “Il tossicodipendente [nelle comunità terapeutiche] deve lavorare otto ore al giorno, perché un altro [il mafioso in carcere] può stare 10 ore davanti la tv? Occorre farli lavorare come rieducazione, non a pagamento. Se abbiamo il coraggio di fare questa modifica, allora ha senso la rieducazione. Ci sono capi mafia di 60 anni che non hanno mai lavorato in vita loro. Farli lavorare sarebbe terapeutico e ci sarebbe anche un recupero di immagine per il sistema”.
C’è un’altra ricercatrice interessata all’approccio nonviolento: è Sandra Sicurella, ricercatrice presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna. È titolare dell’insegnamento “Mafie e processi di vittimizzazione”. Questa ricercatrice ha pubblicato lo scorso anno un libro dal titolo Da quel giorno mia madre ha smesso di cantare. Storie di mafia. E’ un lavoro di ricerca che nasce dall'idea di dare voce ai familiari delle vittime di mafia meno conosciute. La narrazione delle loro storie consente di farle uscire dall'oblio cui spesso sono destinate. Un concetto cardine è che la memoria serve non solo per perpetuare il ricordo delle vittime, ma per trasmettere degli esempi in grado di diffondere una cultura di superamento del sistema mafioso.
Siamo già in contatto per una collaborazione…
Che senso ha infatti il ricordo? Vorrei chiedere, con tutto il rispetto che merita, a Don Ciotti, a “Libera”: ha ancora un senso leggere ogni 21 marzo questo elenco interminabile di vittime della mafia? O potrebbe aver senso valorizzare ogni anno una narrazione di superamento, di fuoriuscita, in cui anche la sofferenza può essere offerta come risorsa per la vita?
Il tema delle vittime ci riporta alla giustizia rigenerativa della quale ci parlò Marinetta Cannito già nel 2005 e su cui qui a Palermo c’è già un’esperienza significativa con l’Ufficio di Mediazione Penale minorile istituito dal comune di Palermo. E’ un tema molto collegato all’approccio nonviolento e che scopre un altro punto debole del paradigma giudiziario: l’ assoluta solitudine della vittima di ogni reato. Al di là dei possibili risarcimenti economici, del loro uso di testimoni al fine dell’accertamento fattuale dei reati, le vittime non hanno importanza. Ebbene ci sono esempi storici di grande portata (Sudafrica, ) ma anche esempi italiani molto significativi (incontro tra terroristi e parenti di vittime. Vedi Il libro dell’incontro. Vittime e responsabilidella lotta armata a confrontoa cura di Bertagna, Ceretti e Mazzuccato) che ci dicono dell’importanza sociale dell’incontro, ovviamente strutturato volontariamente, tra autori e vittime di reato.
Ma un’altra sorpresa è stata la citazione del nostro percorso in alcuni studi di pianificazione urbanistica, tra cui quello di Laura Saija, La ricerca-azione in pianificazione territoriale e urbanistica che riporta a sua volta il volume La Piazza è mia dell’architetta Agata Bazzi chiamata al ruolo di sovraordinato prefettizio nel Comune di Villabate , che narra la sua esperienza giocata tra le teorie di pianificazione e progettazione partecipata e l’esperienza vissuta di un humus culturale mafiogeno diffuso e di una mancanza di una condivisione dei valori della democrazia. Ancora una volta l’accento ritorna ad una esigenza educativa che possa riportarci verso contesti in cui la comunità (cum-munus) possa ricostituirsi.
Mi pare ci siano piste di riflessione molto interessanti e potenzialmente feconde.
Grazie.