25.5.2018
RUBRICA "Uomini e dei", numero 9.
VESCOVI E MAFIA: QUALCHE CONSIDERAZIONE CRITICA
La Lettera dei vescovi di Sicilia a venticinque anni dall’appello di Giovanni Paolo II alla conversione dei mafiosi, nella Valle dei Templi di Agrigento (9 maggio 1993), di cui la nostra testata ha dato una sintesi tempestivamente, merita qualche considerazioni più ponderata.
La prima riguarda la qualità, decisamente migliorata, della preparazione culturale e della sensibilità sociale degli attuali presuli rispetto ai predecessori di quaranta o cinquanta anni fa. Nel loro messaggio si riconosce l'impronta di un episcopato relativamente giovane che ha avuto modo di analizzare, negli anni della formazione al ministero, il fenomeno mafioso anche con la guida di docenti come don Francesco Michele Stabile, don Pino Ruggeri e monsignor Cataldo Naro: per intenderci un episcopato rappresentato da presuli come l’attuale arcivescovo di Palermo don Corrado Lorefice che, nel discorso di insediamento a piazza Pretoria, citò Peppino Impastato accanto a don Pino Puglisi, la Costituzione italiana accanto ai Vangeli.
Una seconda considerazione: nel messaggio di questi giorni i vescovi cercano di rimediare a un grosso limite della lettura della mafia da parte di Giovanni Paolo II che vi vedeva esclusivamente l'aspetto criminoso-militare e non anche la valenza corruttivo-politica. Per il papa di allora (come, per la verità, per molti politici e osservatori) la mafia c’è quando spara e uccide – d’estate, d’inverno e nelle mezze stagioni -, ma non c’è , o per lo meno non suscita allarmi e indignazione, quando trucca appalti, corrompe funzionari statali, compra voti, costringe i giovani a emigrare in Paesi dove i concorsi pubblici (anche all’università !) sono davvero concorsi e davvero pubblici. I vescovi siciliani, invece, si mostrano attenti anche a questa dimensione quotidiana, sotterranea, della mentalità mafiosa: una dimensione che coinvolge, ben al di fuori della cerchia dei cinquemila “uomini d’onore” in servizio permanente ed effettivo in Cosa nostra, centinaia di migliaia – diciamo pure alcuni milioni – di cittadini e cittadine ormai persino incapaci di scandalizzarsi delle pratiche clientelari e delle raccomandazioni in ogni angolo della vita sociale.
Ciò che né papa allora né vescovi oggi, però, sembrano percepire – e siamo a una terza, ultima, considerazione – è la portata "mafiogena" della dottrina teologica cattolica. La questione è delicata e non per nulla ho dovuto dedicarle, riprendendo alcuni intuizioni di don Cosimo Scordato, un intero volume (Il Dio dei mafiosi) già alcuni anni fa. Provo a sintetizzare brutalmente. Nella Lettera, come in altre occasioni, i vescovi invocano un recupero della religiosità come antidoto alla mafia senza sospettare che il cattolicesimo meridionale, per certi versi antidoto alla mentalità mafiosa, per altri versi ne è una riserva di idee, pregiudizi, simboli...Basti pensare soltanto alla concezione di un Padre-padrino che si placa solo al cospetto del sangue del Figlio o alla convinzione che Egli conceda grazia e favori terreni solo per la raccomandazione di mediatori celesti come la Madonna e i Santi del calendario. Dunque: che le chiese facciano autocritica per i difetti pratici del passato e del presente è un bene, ma non basta. Sarebbe necessario anche una revisione teologica di tanti dogmi e di tante dottrine che non sono in linea con l’annunzio originario di Gesù di Nazareth e che, invece, si prestano troppo agevolmente a essere adottati come patrimonio ideologico delle associazioni mafiose. Non è impresa da poco, ma – anche grazie a un nuovo clima consentito da papa Francesco – la revisione della teologia cattolica è in pieno processo: studiosi e pensatori come Carlo Molari, Ortensio da Spinetoli, Alberto Maggi, Vito Mancuso, Ferdinando Sudati, Sergio Tanzarella, Franco Barbero (per limitarmi a qualche nome italiano fra tanti attivi nel mondo) sono impegnati in prima linea. Qualche volta pagano con provvedimenti disciplinari ecclesiastici l’autenticità nella ricerca e la franchezza nell’esprimersi (che rende i loro scritti accessibili anche a un pubblico di non-specialisti), ma intanto aprono strade che portano verso un futuro migliore.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Certo, sarebbe auspicabile, dopo le due importanti mosse della Chiesa contro la mafia, anche questa revisione dogmatica, alla luce di una visione della Chiesa del tutto diversa, più aperta e spirituale, secondo la lezione di Niccolò Cusano, Reginald Pole e tanti altri che nei secoli hanno cercato di immaginare una relazione con lo Spirito meno contaminata da bisogni e desideri "umani troppo umani". Come sai, è, in parte, la prospettiva che, con i suoi limiti, ho tentato di delineare in "Che significa essere cattolici?" (http://www.platon.it/2018/05/29/che-significa-essere-cattolici/).
Tuttavia, proprio alla luce di tale riflessione, credo che il ragionamento andrebbe rovesciato (rispetto a come appare da una superficiale lettura di quanto scrivi): la lotta contro la mafia non dovrebbe essere causa, ma effetto di una revisione dogmatica da perseguire in nome non dell'interesse, fosse pure il nobile interesse a difendere gli onesti dai mafiosi, ma della verità.
Altrimenti gli amici "tradizionalisti" potrebbero accusare la Chiesa (come di fatto l'accusano) del solito "modernismo", di scendere a patti con lo Stato, la Costituzione, la laicità, il progresso sociale e via discorrendo, tutte cose che vengono giudicate (non sempre a torto, a mio giudizio, se pensiamo a certi eccessi dell'illuminismo e del marxismo in termini di "immanentizzazione" dell'essere e di rottura di ogni salvifica relazione con il trascendente) come una secolarizzazione della religione che ne tradirebbe l'essenza.
Viceversa è in nome della Verità e della Giustizia con G maiuscola che si tratterebbe di combattere la logica dell'interesse privato in atto pubblico. I custodi dello Stato platonico sottoscriverebbero tale impegno per la "virtù" prima ancora di Robespierre e di Mazzini e come, tra le due epoche, farebbero benedettini, cistercensi e francescani.
Nessun modernismo, dunque, in questa ricerca, a partire da una rinuncia a soddisfare i propri interessi particolari, del bene comune e dell'equa ripartizione delle risorse, secondo il triplice principio giustinianeo "neminem laedere, honeste vivere, unicuique suum tribuere".
Un caro saluto.
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