“Adista-Notizie”,
27.1.2018
27.1.2018
FUORITEMPIO
- Commento al vangelo di domenica 24 febbraio 2018
Dal
Vangelo secondo Marco (9, 2- 10)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
La scena biblica della trasfigurazione di Gesù è così
ben costruita da attrarre irresistibilmente i pittori di ogni generazione. Che
sia il resoconto di un evento storico è ormai opinione scartata da quasi tutti
gli esegeti, ma – in ogni caso – è evidente che ad avere rilevanza sia il suo
significato simbolico. Gesù riprende, porta a compimento e trascende la Legge
(Mosé) e i Profeti (Elia): i redattori del testo di Marco fissano, in un clima
di polemica con gli altri Ebrei, ciò che li lega alla Tradizione ma anche ciò che
irreversibilmente li separa da essa. Come mai il Predicatore ambulante di
Galilea giocherebbe un ruolo tanto rilevante nella storia dell’ebraismo? Perché
Dio stesso, l’Eterno, lo avrebbe riconosciuto come “Figlio”.
Questo titolo
– “Figlio di Dio” – ha acquistato nei secoli successivi un peso così decisivo
da meritare qualche momento di approfondimento. Innanzitutto va notato che non
è Gesù stesso ad auto-presentarsi con questa denominazione: è piuttosto la
comunità dei discepoli - “Pietro, Giacomo e Giovanni” - a considerarlo tale su suggerimento della
Voce. E, comunque, nel I secolo la denominazione “Figlio di Dio” (usata in vari
contesti) non significava un Essere di consistenza ontologica pari al Creatore,
bensì una creatura umana da Lui prescelta per svolgere una particolare missione
in terra. Dimenticare questo dato filologicamente assodato comporta il rischio
di espellere il Maestro dal genere umano, considerarlo un Essere celeste da
adorare più che da imitare, esonerandosi dalla fatica di proseguire l’opera da
Lui avviata.
Di
che opera si tratta? Non è un riformatore religioso: “Più che alla ‘casa di
Dio’, che non mancava di tutori, per lui c’era da badare a quella degli uomini,
attraversata da squilibri, soprusi, violenza, ingiustizie, che sentiva
necessario provare a scoraggiare, fino a farli scomparire” (Ortensio da
Spinetoli). Non è neppure una vittima sacrificale che offre il proprio sangue a
Dio per lavare i peccati degli uomini: ciò contrasta con “l’insistente
predicazione innovativa di Gesù sul Padre”, ben diverso dal “terribile Jahwé,
fotocopia del Giove olimpico o capitolino, per non parlare degli altri loro
omonimi d’Egitto o del Vicino Oriente” (Ortensio da Spinetoli). E’ piuttosto un
profeta che propone, in nome di un unico Padre, di assumere con serietà la
dimensione della fraternità e della sororità: in un mondo dilaniato
dall’invidia, dalla gelosia e dal risentimento fra fratello e sorella, fra
famiglia e famiglia, fra popolo e popolo, egli ricorda che così si va dritto
verso il baratro dell’auto-distruzione collettiva. Verso la morte. L’inversione di marcia – la “conversione” –
consisterebbe in un processo di cambiamento, personale e collettivo, in
direzione della sobrietà, della condivisione solidale, del soccorso reciproco,
dello scambio gratuito. In direzione della vita.
La pericope odierna si chiude con un dubbio:
cosa intendere per “resurrezione dei morti” ? E’ un dubbio che, a venti secoli
di distanza, ci attanaglia come allora. Volumi e volumi di teologi – oscillanti
fra interpretazioni letterali, quasi materialistiche, e interpretazioni
simboliche, quasi irrealistiche – non hanno chiarito le nostre perplessità e,
in più di un caso, le hanno attorcigliate e aggravate. Una cosa soltanto è
certa: che siamo immersi in una storia contraddittoria, intessuta di luci e di
ombre, di amori e di odi. Riconoscersi discepoli di questo “figlio di Dio”
significa rintracciare, ovunque si trovino, i germogli di vita e lasciar
imputridire i semi di morte. Non so se, e come, ciò ci consentirà di sperimentare una
“resurrezione” oltre-mondana, ma so che ci consentirà di sperimentare, in
questa terra, la “risurrezione” dallo stadio di mortali capaci solo di
contagiare morte.
Augusto
Cavadi
* Ha insegnato per molti anni filosofia, storia e
educazione civica nei licei. Attualmente si dedica alla scrittura e dirige a
Palermo la “Casa dell’equità e della bellezza” da lui fondata.
1 commento:
GRAZIE, AUGUSTO!
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