“Repubblica – Palermo”
6.2. 2018-02-06
Nelle
rievocazioni del Sessantotto , a Palermo come nel resto del Paese, si tende a
dare una rappresentazione involontariamente sbilanciata sull’ispirazione
marxista dei protagonisti. E’ vero che, tra pochi ragazzi della Federazione
giovanile del Partito comunista e molti aderenti all’arcipelago dei gruppi della Sinistra extra-parlamentare, si aveva l’impressione
che il movimento complessivo fosse un modo di attuarsi della lezione di Marx (e
di Lenin). Ma era – e resta – un’impressione due volte esagerata.
Innanzitutto
perché, al di là delle sigle e degli slogan, la maggioranza dei contestatori era
in realtà più impregnata di anarchismo che di comunismo. Oggi lo sostengono
studi sociologici di livello scientifico (cito per tutti il politologo
palermitano Salvo Vaccaro) , ma già nel vivo degli avvenimenti una docente
liceale e scrittrice di intuito, Vittoria Ronkey, l’aveva saputo dire con il titolo di un libro
fortunato: “Figliuoli miei, marxisti immaginari”. Alcune delle caratteristiche
peculiari delle rivendicazioni sessantottine
- la subordinazione generazionale all’interno della famiglia borghese,
la condizione femminile, la repressione sessuofobica, la distruzione dell’ambiente
naturale – erano del tutto estranee all’orizzonte culturale marxista ed erano,
più o meno pionieristicamente, tematizzate da pensatori della tradizione
anarchica come Foucault. Significativi i nomi di pensatori che vengono in mente
a Piero Violante (edizione del 2
febbraio) a proposito dei seminari autogestiti: Freud, Reich, Barthes e Lukacs
(l’unico marxista, ma ereticissimo).
Ma, al di là
della preponderanza dell’ispirazione anarchica rispetto alla marxista, per
capire il Sessantotto bisogna tener presente che esso è stato egemonizzato, ma
non totalmente monopolizzato, dalla
Sinistra. C’è stato un Sessantotto della Destra e nella Destra (sia pur di tipo
reattivo e in alcuni casi reazionario) e, soprattutto, c’è stato un Sessantotto
in vaste aree sociali: cattoliche,
protestanti, liberal-radicali, nonviolente, pacifiste, terzomondiste, artistiche
(soprattutto nel mondo del teatro, come ha ricordato Mario Pintagro nella
stessa edizione di “Repubblica”…) che non si riconoscevano né nella Sinistra
militante né ancor meno nella Destra. E’ un’area da cui provengono esperienze
di un certo rilievo mediatico, come Danilo Dolci e le sue battaglie a fianco
dei contadini della Valle dello Jato, e
in cui si strutturano le biografie di personaggi destinati ad avere un’incidenza nel panorama
regionale (e non solo): si pensi, per fare un solo esempio, al circolo di
giovani intorno a Piersanti Mattarella di cui facevano parte Leoluca Orlando e
lo stesso fratello Sergio.
Sappiamo come
è andata a finire. Contestatori di Sinistra, di Destra e – per così dire – del
Centro extraparlamentare hanno resistito più o meno sino al 1977; poi hanno appeso
ai chiodi striscioni ed eskimi (qualcuno, per fortuna, anche spranghe e
rivoltelle) e si sono lasciati risucchiare nel riflusso degli anni Ottanta e
Novanta. O per far carriera nelle stesse istituzioni che avevano aspramente
criticato (vedi, ad esempio, studenti esagitati convertiti in baroni universitari
molto più spregiudicati dei predecessori) o per adagiarsi nel grigiore di una
banalissima esistenza borghese. Ma – la storia non può dimenticarsene
totalmente – altri contestatori di Sinistra, di Destra e di Centro (“estremisti
di Centro” come qualche volta ci si definiva ironicamente) hanno saputo trasformare la protesta in scelte
di vita meno chiassose e non per questo meno radicali. Si sono dissociati quasi
subito dall’illusione che bastasse occupare una scuola o pretendere un “30
politico” all’università, per fare la rivoluzione. Hanno preso sul serio il monito gandhiano a diventare essi stessi
per primi il cambiamento che volevano nel mondo. Molti di quella generazione
hanno optato, consapevolmente e intenzionalmente, per professioni e mestieri poco remunerativi o
poco prestigiosi o pericolosi. Hanno subito il tiro incrociato dei conservatori
e degli innovatori parolai, pronti a cambiare fronte non appena hanno visto la
possibilità di accomodarsi nel “sistema”
e, nonostante tutto, lontano dai riflettori, hanno lavorato nella quotidianità
per un mondo meno invivibile. Di questi medici che hanno lavorato in zone di
frontiera, di questi parroci che operato in quartieri difficili, di questi
magistrati che hanno sfidato il fuoco
mafioso (e talora ne sono stati abbattuti), di questi insegnanti che hanno
cercato di preservare dal qualunquismo, di questi poliziotti che si sono spinti
nelle indagini dove sarebbe stato più conveniente fermarsi, di questi
giornalisti che non hanno fatto finta di non vedere certi grovigli…non si
ricorderanno, man mano che invecchiano e scompaiono, che le persone più vicine.
Eppure è proprio nelle storie di vita di questi uomini e di queste donne,
“militi ignoti” senza i quali la Sicilia sarebbe peggiore, che il Sessantotto ha prodotto i suoi effetti
più duraturi e salutari. I suoi frutti migliori.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
3 commenti:
un "corsivo" esemplare! E' vero, l'anti-sistema che ha dato più frutti è quello dei comportamenti individuali, della quotidianità delle scelte, della coerenza dei ruoli di ciascuno: genitoriali, affettivi, professionali, sociali, politici, religiosi; in sintesi: nella armonia della propria etica personale. Grazie Augusto.
Però vorrei sottolineare che la nostra etica personale la possiamo mettere in pratica se non ci isoliamo dal contesto sociale in cui viviamo e ci lasciamo sfiorare da mondi etici che non ci appartengono, solo così possiamo prendere le misure comportamentali adeguate. Le scelte della famiglia contadina del "Candido" volteriano non è una soluzione.
Sono completamente d'accordo sia con l'analisi da te fatta sul '68 e i suoi esiti sia sui bellissimi e sintetici commenti di Caccamo - che mi dispiace di non conoscere - quando parla di richiamo all'etica personale, che fu una costante in coloro che alla carriera preferirono il servizio nei confronti degli ultimi, richiamandosi anche a un grande educatore, sotto certi aspetti precursore del '68, don Lorenzo Milani. Perciò credo che non ci sia niente da rinnegare di quegli anni, che ci portarono a scoprire che c'era un modo diverso di rapportarsi alla società, a liberare il meglio di ciascuno, rifiutando l'omologazione, cui, anche chi proveniva dalle classi subalterne, era destinato.
Mauro
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