4.1.2018
Augusto Cavadi
ANDARSENE
Brevi riflessioni sulla morte propria e altrui
Diogene Multimedia, Bologna 2016
«Le lanterne di Diogene»
Pagine 96
€ 5,00
Il morire va inteso prima di tutto non sotto
il segno della ψυχή
ma sotto quello dell’ἀνάγκη,
non come elemento, pensiero, dramma della vita umana ma come legge che involve,
penetra e pervade ogni ente. Tutte le cose che sono ci sono perché altri enti
ci sono stati e non sono più, come Cavadi riconosce quando scrive che «già la
nostra nascita è stata un dono della morte. Altrui» (p. 10) e quando cita e
commenta il frammento di Anassimandro con il quale la filosofia nasce in
Europa: «L’ingiustizia consistente proprio nel fatto di ex-sistere, di nascere, di staccarsi dal grande e
indefinito Tutto. La propria individuale sussistenza sarebbe il peccato
originale che scontiamo morendo» (36).
Nascere e morire sono eventi oggettivi,
entrambi del tutto naturali se natura significa esistenza e potenza della
materia, delle sue leggi, del costituire ogni ente un attraversamento del tempo
come tempo in atto, come grumo di un impasto, come onda di un flusso. Anche per
questo è opportuno che «recuperiamo il nesso etimologico fra mater (madre) e materia» (38), perché siamo fatti
della stessa carne di nostra madre e questa carne, questa madre è il divenire.
Ciò significa la bella e vera frase di Iona
Heath citata dall’autore: «La profondità del tempo è più importante della durata»
(83). Bella per la sintesi, vera perché descrittiva di uno dei significati più
fecondi che si possano dare all’Inevitabile, al morire: farne un’occasione di
totalità, sia nel senso di vivere pienamente il tempo che siamo sia di
comprendere che lo siamo noi come lo è ogni altro ente.
Cavadi offre un’ampia, se pur sintetica, panoramica delle possibili
letture della morte passando dal platonismo al panteismo romantico, dal
nichilismo all’originaria lettura ebraico-cristiana. Ogni lettore si riconoscerà,
prevalentemente, nell’una o nell’altra. Personalmente ritengo che una delle
pagine più dense di questo libro così saggio vada intesa nel senso che la parte
che ogni ente -umani compresi- costituisce non è una parte ‘in vista di’
qualcosa ma una parte che ‘è’ qualcosa: «La piccola, minuscola, quasi
insignificante vicenda di ciascuno di noi è inscritta all’interno di una
dinamica complessiva d’immani proporzioni: moriamo perché nasciamo. Ogni
frammento sperduto, ogni scintilla vagante, ogni lapillo incandescente non può
non ricadere là dove ha avuto origine per ricostituire l’unità, l’ordine,
l’equilibrio» (37). L’autore non esclude che in questa dinamica si possa
rintracciare una qualche teleologia, la volontà di un qualche essere supremo o una
legge naturale ; a mio avviso, però, nessun inspiegabile enigma quanto la presa
d’atto che di tempo siamo fatti. E il tempo è l’altro nome della morte.
Alberto
Giovanni Biuso
1 commento:
Cari amici Augusto e Alberto, vi leggo e dico: parliamone!
In tanto riporto quanto ho scribacchiato in una delle scorribande del pensiero mio:
'Qualcuno dice che l’onda non è onda perché è mare. Ma il mare non è mai lo stesso, sin dall’inizio il mare non è mai stato uguale e mai lo sarà. E’ l’onda che lo fa diverso, l’onda inonda e si ritrae, leviga il sasso, modella lo scoglio l’onda. L’onda quando sembra che non ci sia ed è bonaccia è perché diventa nuvola che, tornando al mare, diventa tempesta ma è pure nutrimento. La musica del mare viaggia sull’onda e quando fa silenzio è il silenzio del mare. Il mare non è mare senza l’onda; l’onda è il compito del mare, è l’alternativa al Nulla e al Tutto.'
Armando
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