VIVERE IL NATALE NELL’EPOCA POST-SACRALE
Puntuale, come
il Natale, arriva – nei salotti e sui media
– la polemica contro il consumismo e,
più in generale, la banalizzazione della ricorrenza religiosa a mera occasione
di svago mondano (o, nei casi migliori, di ricongiungimento familiare). Ma
questa polemica presuppone la convinzione che, dopo duemila anni di
cristianesimo, si possa avvertire il
Natale come nel V, nel X nel XV secolo. Una convinzione illusoria per
un’infinità di ragioni.
La prima, di
carattere più generale, è che dalla fine dell’Ottocento a oggi la società si è
“secolarizzata” e l’insieme delle credenze, dei miti, dei simboli che
costituisce patrimonio di ogni religione è stato sottoposto al vaglio della
ragione adulta. Anche se non mancano segnali di “de-secolarizzazione”, solo
“una minorità da imputare a se stessi” – per scomodare Kant – potrebbe farci
vivere la dimensione religiosa come nelle culture medievali. Da questo dato di
fatto derivano due conclusioni principali: o l’abbandono definitivo di ogni
sistema teologico (la strada dell’ateismo o, per lo meno, dell’indifferentismo
agnostico) o la re-interpretazione radicale del linguaggio religioso
tradizionale (oggi incomprensibile alla stragrande maggioranza della
popolazione mediamente istruita).
La prima via
la conosciamo abbastanza perché è imboccata da persone sempre più numerose,
specialmente giovani: ci si getta alle spalle Gesù come Babbo Natale, la
Madonna come la Befana, i Vangeli come le favole dei Fratelli Grimm. Molto meno
esplorata la strada alternativa (che i migliori teologi sondano da decenni,
scoraggiati da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, ma non da Francesco che –
conoscendo “l’odore del gregge” – la pratica egli stesso scandalizzando i
guardiani dell’ortodossia sclerotizzata): la strada della demitizzazione e
della ri-traduzione del messaggio originario. In parole semplici e limitandoci
al tema del Natale: i vangeli dell’infanzia non sono stati pensati e scritti
come cronache storiche, ma come pie leggende (in termini tecnici: midrash aggadici). Essi partono da dati
storici ormai assodati: che un predicatore errante di Galilea ha annunziato, in
parole e in opere, una rivoluzione della fede ebraica in nome di una
solidarietà universale, al di là di ogni genere di barriere etniche e sessuali.
Circa cinquant’anni dopo, ricorrendo alla simbologia dell’Antico Testamento,
Matteo e Luca costruiscono dei racconti che, per loro e per i
contemporanei, avevano esclusivamente lo
scopo di esprimere l’ammirazione e la devozione per il Maestro. “E’ un peccato”
– scrive il vescovo episcopaliano John S. Spong in un prezioso volumetto
tradotto in questi giorni in italiano, “La nascita di Gesù tra miti e ipotesi”
– “che i greci, e in genere i non-ebrei di cultura
ellenistica e latina, che divennero la maggioranza della Chiesa cristiana, non
conoscessero le Scritture ebraiche abbastanza bene da capire ciò che volevano
dire le storie originali. Il letteralismo non è solo un’espressione d’ignoranza
biblica, ma è una distorsione del vangelo talmente pericolosa da diventare
distruttiva per il cristianesimo stesso” .
Rivalutare il Natale significa
dunque capire che i racconti tradizionali, quadri e presepi inclusi,
appartengono alla sfera dell’immaginazione poetica e che come tali vanno
vissuti: ma che il suo significato più profondo è provare, per un giorno e per
l’intero anno, a tradurre in scelte personali e politiche il messaggio
originario di Gesù, attento alla dignità di tutti ma particolarmente sensibile
alla sofferenza degli oppressi della Terra.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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